6.8.17

Fuga dalla città. Pascoli, l’Eden e le fosche premonizioni (Umberto Sereni)

Giovanni Pascoli a Castelvecchio tra due contadine
Giovanni Pascoli visse a Castelvecchio di Barga, nella Valle del Serchio, dall’autunno del 1895 al febbraio del 1912. Gli anni della sua maturità e della sua più intensa produzione, che in più occasioni volle attribuire al paese che l’aveva ospitato. «Barga è la patria di quasi tutta l’opera mia», affermerà nell’infelice comizio del 10 settembre del 1911, quando, da amici non disinteressati, fu coinvolto nella difesa del candidato conservatore che si batteva contro il socialista moderato Cesare Biondi.
Dell’ingresso di Pascoli nella casa di Castelvecchio, posta in pieno sole sulle prime balze dei colli che risalgono all’Appennino, conosciamo la data precisa: il 15 ottobre 1895. Quel giorno, insieme alla sorella Mariù, il poeta entrò nella nuova dimora, presa in affitto dalla famiglia dei Cardosi-Carrara. Erano partiti all’alba da Livorno; avevano viaggiato in treno fino a Lucca, allora stazione terminale della linea ferroviaria, e poi si erano serviti di una carrozza che impiegò
più dì cinque ore per raggiungere Barga e Castelvecchio.
Già queste poche notizie del viaggio sono bastanti per intendere le motivazioni dell’andata nella Valle del Serchio. Pascoli la concepì, la progettò, la volle e si dispose a viverla come la ricongiunzione con l’Eden, il luogo dove «bello» e «buono» allietavano e ingentilivano gli uomini. Un luogo di salvezza. Per la salvezza. Compito aureo della poesia; missione del poeta che deve riuscire, sono parole di Pascoli, a farsi «ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e umano».
Un’assillante ansia edenica, assai diffusa in quella fine di secolo, ma non solo in quella, stava all’origine della sua decisione di lasciare la città e di cercare rifugio nella campagna. Che di questo si trattasse, e non di altro, Pascoli lo aveva rivelato ad Ugo Ojetti nell’incontro che ebbero nel settembre del 1894.
Ojetti, all’epoca brillante giornalista con vaghe simpatie per il socialismo, viaggiava per l’Italia «alla scoperta dei letterati», come poi si sarebbe chiamato il libro che raccolse le lunghe, e non banali, interviste. Fece tappa a Livorno per parlare con Pascoli e dal poeta apprese la sua intenzione di ritirarsi a vivere lontano dai grandi agglomerati urbani. «Io penso - gli disse Pascoli - che le nostre condizioni sociali siano in gran parte simili a quelle dell’impero romano. Il fastigio attinto da quella potenza mondiale ha forme egualissime a quelle dell’odierna società borghese trionfante: e fra le altre massimamente l’accentramento delle popolazioni nelle grandi città pel commercio e per le manifatture».
Un cupo presagio domina Pascoli: l’umanità corre incontro ad una nuova e più tremenda barbarie. Le città si trasformeranno in «Ninive e Babilonie», i più forti ingoieranno i più deboli, le nazioni «si getteranno le une contro le altre con la gravitazione di meteore fuorviate», e verrà tempo «in cui si potrà dinotare per nome l’unico possessore di tutto il mondo: un tiranno al cui servizio sia un genere umano di schiavi».
Così, diviso tra foschi presentimenti ed aspirazioni salvifiche, in una mattina d’ottobre Pascoli mosse alle volte dell’Eden, alla ricerca dell’«isola che non c’è», dove gli uomini conservano cuori di fanciulli. Il luogo del «bello» e del «buono». Per un po’ ebbe la certezza di averlo trovato. Ma assai presto l’incantesimo svanì. Il «bello» rimase, ma prese a dubitare del «buono», che sentiva minacciato dall’avanzante male del mondo. Scopriva che anche nell’Eden gli uomini sapevano essere cattivi. Non solo tra loro, ma ancor di più con il poeta-salvatore. Ed allora «la vita qui, dove c’è tanto bello, ma c’è tanto cattivo», gli apparve «addirittura odiosa».


“l'Unità”, ritaglio senza data, ma giugno 1995

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