Giovanni Pascoli a Castelvecchio tra due contadine |
Giovanni Pascoli visse a
Castelvecchio di Barga, nella Valle del Serchio, dall’autunno del
1895 al febbraio del 1912. Gli anni della sua maturità e della sua
più intensa produzione, che in più occasioni volle attribuire al
paese che l’aveva ospitato. «Barga è la patria di quasi tutta
l’opera mia», affermerà nell’infelice comizio del 10 settembre
del 1911, quando, da amici non disinteressati, fu coinvolto nella
difesa del candidato conservatore che si batteva contro il socialista
moderato Cesare Biondi.
Dell’ingresso di
Pascoli nella casa di Castelvecchio, posta in pieno sole sulle prime
balze dei colli che risalgono all’Appennino, conosciamo la data
precisa: il 15 ottobre 1895. Quel giorno, insieme alla sorella Mariù,
il poeta entrò nella nuova dimora, presa in affitto dalla famiglia
dei Cardosi-Carrara. Erano partiti all’alba da Livorno; avevano
viaggiato in treno fino a Lucca, allora stazione terminale della
linea ferroviaria, e poi si erano serviti di una carrozza che impiegò
più dì cinque ore per
raggiungere Barga e Castelvecchio.
Già queste poche notizie
del viaggio sono bastanti per intendere le motivazioni dell’andata
nella Valle del Serchio. Pascoli la concepì, la progettò, la volle
e si dispose a viverla come la ricongiunzione con l’Eden, il luogo
dove «bello» e «buono» allietavano e ingentilivano gli uomini. Un
luogo di salvezza. Per la salvezza. Compito aureo della poesia;
missione del poeta che deve riuscire, sono parole di Pascoli, a farsi
«ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio e familiare e
umano».
Un’assillante ansia
edenica, assai diffusa in quella fine di secolo, ma non solo in
quella, stava all’origine della sua decisione di lasciare la città
e di cercare rifugio nella campagna. Che di questo si trattasse, e
non di altro, Pascoli lo aveva rivelato ad Ugo Ojetti nell’incontro
che ebbero nel settembre del 1894.
Ojetti, all’epoca
brillante giornalista con vaghe simpatie per il socialismo, viaggiava
per l’Italia «alla scoperta dei letterati», come poi si sarebbe
chiamato il libro che raccolse le lunghe, e non banali, interviste.
Fece tappa a Livorno per parlare con Pascoli e dal poeta apprese la
sua intenzione di ritirarsi a vivere lontano dai grandi agglomerati
urbani. «Io penso - gli disse Pascoli - che le nostre condizioni
sociali siano in gran parte simili a quelle dell’impero romano. Il
fastigio attinto da quella potenza mondiale ha forme egualissime a
quelle dell’odierna società borghese trionfante: e fra le altre
massimamente l’accentramento delle popolazioni nelle grandi città
pel commercio e per le manifatture».
Un cupo presagio domina
Pascoli: l’umanità corre incontro ad una nuova e più tremenda
barbarie. Le città si trasformeranno in «Ninive e Babilonie», i
più forti ingoieranno i più deboli, le nazioni «si getteranno le
une contro le altre con la gravitazione di meteore fuorviate», e
verrà tempo «in cui si potrà dinotare per nome l’unico
possessore di tutto il mondo: un tiranno al cui servizio sia un
genere umano di schiavi».
Così, diviso tra foschi
presentimenti ed aspirazioni salvifiche, in una mattina d’ottobre
Pascoli mosse alle volte dell’Eden, alla ricerca dell’«isola che
non c’è», dove gli uomini conservano cuori di fanciulli. Il luogo
del «bello» e del «buono». Per un po’ ebbe la certezza di
averlo trovato. Ma assai presto l’incantesimo svanì. Il «bello»
rimase, ma prese a dubitare del «buono», che sentiva minacciato
dall’avanzante male del mondo. Scopriva che anche nell’Eden gli
uomini sapevano essere cattivi. Non solo tra loro, ma ancor di più
con il poeta-salvatore. Ed allora «la vita qui, dove c’è tanto
bello, ma c’è tanto cattivo», gli apparve «addirittura odiosa».
“l'Unità”, ritaglio
senza data, ma giugno 1995
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