ANCONA —
Progetto: «ideazione per lo più accompagnata da uno studio relativo
alla possibilità di attuazione o di esecuzione». La definizione è
del Devoto-Oli, uno dei dizionari «sacri» della nostra lingua. Per
cui, se noi vi venissimo a raccontare che il cinema italiano, nella
sua lunga storia, è sempre stato «a-progettuale» (alfa privativo),
voi dovreste dedurne che si tratta di un cinema privo non tanto di
idee, quanto delle analisi e delle ricerche in base alle quali tali
idee possono realizzarsi. E avreste indovinato.
Più si
scava, più si scopre che la storia del cinema è ancora tutta da
scrivere. La scoperta si è riproposta, nello splendore dei 70
millimetri, ad Ancona, in occasione del convegno/rassegna «Cinecittà
— il modo di produzione italiano», organizzata dal medesimo staff
che da anni cura la Mostra di Pesaro. È stata anche l’occasione
per omaggiare uno dei grandi del nostro cinema medio, se ci passate
la contraddizione: Alessandro Blasetti, al cui film La corona di
ferro sono stati dedicati un volume e una mostra in cui erano
raccolti i disegni di Virgilio Marchi per le splendide scenografie.
A
dimostrazione che Freud esiste, abbiamo usato la parola «medio». Un
lapsus classico. Noi italiani, quando parliamo di film, tendiamo
sempre a distinguere un cinema «alto» (i grandi autori, Visconti,
Fellini, Antonioni...), un cinema «medio», dignitosamente popolare
(i vari Blasetti, Camerini, Risi, Germi, Monicelli, ecc.), e un
cinema «basso» in cui non a caso si fanno i nomi, non i cognomi:
Franco e Ciccio, Cochi e Renato, Gigi e Andrea, o addirittura i
nomignoli come Totò che però, si sa, è da tempo in odore di
santità. Come se il livello di un film dipendesse dalla genialità —
o dalla biecaggine — di questi signori. Non è vero. Nel convegno
anconetano, a cui hanno partecipato i migliori nomi della
storiografia cinematografica italiana, si è tentato una volta tanto
di parlare di cinema partendo dalla produzione, dai metodi e dai modi
produttivi. Perché il cinema, nei Paesi occidentali, è
un’industria. E quando è «a-progettuale» (ritorniamo alla parola
iniziale) sarà semplicemente un’industria «a-progettuale», cioè
scalcagnata, soggetta ad alti e bassi, un po’ stracciona, ma pur
sempre industria.
Tra i film
recuperati ad Ancona, tutti girati a Cinecittà dal 1937 (anno della
fondazione degli studi di via Tuscolana, Roma) in poi, ce n’era
uno, Apparizione, insolito ed esemplare. Innanzitutto è
diretto da un francese, Jean de Limur, ma questo è secondario. Si
svolge tutto in una locanda di campagna dove una fanciulla (Alida
Valli) sta per sposarsi con un giovane meccanico (Massimo Girotti),
quando sul posto giunge una macchina di lusso guidata da un
bellissimo signore (Amedeo Nazzari). Ed ecco la novità a differenza
di tutti gli altri divi che lo circondano (oltre a Girotti e alla
Valli, ci sono Paolo Stoppa e Andreina Pagnani), Nazzari, nel film,
interpreta Nazzari, cioè se stesso.
E la
fanciulla, davanti al divo dei suoi sogni, dimentica il fidanzato e
fugge con lui. E Nazzari, che è un buono, la tratta volutamente
male, la fa impazzire di dolore, e tutto per convincerla a tornare
alla casetta avita, al fidanzato e alle zie che tanto la amano...
Perché
Apparizione, apparentemente una graziosa commediola, è un
film esemplare? Perché il cinema italiano, nel momento in cui tenta
di riflettere su se stesso, ripropone i soliti miti del divismo,
anche se ne cambia la valenza per rivalutare la vita quotidiana.
Gianpiero Brunetta (autore dell’unica, vera Storia del cinema
italiano), nella relazione introduttiva al convegno, lo ha
chiarito perfettamente: il «bene-attore» è l’unico su cui il
cinema italiano ha sempre investito, spesso in modo scriteriato,
senza nemmeno che i contratti prevedessero un minimo ritorno
economico del prodotto (cose chi a Hollywood, quando scritturavano
gli attori, non scordavano mai). Per il resto, dal punto di vista
industriale, un disastro: secondo Brunetta, leggere i bilanci delle
case di produzione è come indagare nei bilanci delle società di
calcio. Assoluta incoscienza del film come merce; totale schizofrenia
nel rapporto prodotto/capitale investito, aumento della produzione
proprio nei momenti storici (inizio anni 20, fine anni 60) in cui
cala il consumo. È l’unica industria italiana che anche nei
periodi di splendore lavora dichiaratamente in perdita.
E ciò nonostante coltiva sogni di grandezza: negli anni 10 le case
italiane sognano di conquistare il mondo, hanno filiali ovunque, da
Mosca a Singapore (secondo Brunetta è un transfert del sogno
imperiale), mentre contemporaneamente gli americani lavorano per un
mercato interno estremamente ristretto e individuato e si preparano,
loro sì, a inondare di film l’intero pianeta.
Naturalmente
non è, quella del cinema italiano, una storia di sole nefandezze. Ma
è sicuramente una storia che contraddice in pieno la teoria dei tre
livelli a cui accennavamo in precedenza. La produzione «alta» e
quella «bassa» si incrociano di continuo. Gli esempi sono
innumerevoli: Achille Piazzi che produce sia Il
grido
di Antonioni che i film di Ercole, uno sceneggiatore come Ennio De
Concini che si inventa il genere mitologico (i «sandaloni», come li
chiamavano) e vent’anni dopo scrive La
piovra
per la Tv, la Titanus che recupera il tonfo di Sodoma
e Gomorra
di Aldrich usando le medesime strutture (set, scenografie, comparse,
troupe) per girare due filmacci di Corbucci (Romolo e Remo e Il
figlio di Spartacus), una casa come la Scalera, fondata nel ’38 da
due costruttori edili ammanicati con il fascismo, che negli anni 50
si rovina per produrre l'Otello
di Welles... Una storia di altalene, in cui anche noi spettatori
abbiamo le nostre colpe, se è vero che nel «museo dei cattivi
affari» (una rubrica pubblicata negli anni 50 sulla rivista Cronache
del cinema e della televisione,
e che raccoglieva i minori incassi della stagione) figurano film come
La
terra trema,
Sciuscià,
Germania
anno zero,
mentre qualche anno dopo il 10% degli incassi dei film italiani è
appannaggio di Franchi e Ingrassia.
Una
storia di splendori e di corbellerie. Una storia che gli economisti
dovrebbero prendere in pugno, e rifare daccapo. L’anno prossimo
Ancona sarà dedicata alla Titanus, una delle case storiche della
nostra produzione, fondata da Lombardo e artefice di successi enormi
come i film di Totò e i melodrammi della coppia Amedeo
Nazzari-Yvonne Sanson. Sarà un modo di ricostruire il cammino del
nostro cinema basandosi sui dati non sulle sedute psicanalitiche a
questo o a quel regista. E senza rinunciare al divertimento, perchè
quelle due o tre cose che si imparano sui produttori sono spesso
impagabili.
Vi
salutiamo con l’ultimo aneddoto, riesumato da Gianni Volpi nella
sua relazione sul western-spaghetti.
Quando
uscì Per
un pugno di dollari,
la casa di produzione Jolly non acquistò i diritti del film di
Kurosawa
La sfida del samurai,
il cui Leone si era ispirato. Speravamo di passarla liscia, ma i
produttori giapponesi mangiarono la foglia e chiesero i danni. Perso
per perso, la Jolly concesse loro l’esclusiva sugli incassi del
film in Giappone. Per
un pugno di dollari incassò
una montagna di yen, pari a 1.500.000 dollari dell’epoca. I diritti
ne sarebbero costati solo 10.000: proprio «un pugno di dollari»,
che bel titolo per il prossimo convegno...
“l'Unità”,
ritaglio senza data, ma 1985
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