2.8.17

Jole Silvani la donna che fece aspettare Fellini (Giancarlo Mancini)

Iole Silvani con Paolo Poli
Qualcuno potrebbe ricordare Jole Silvani nei panni dell’amazzone in motocicletta che salva il latin lover Mastroianni dall’assedio di amanti e ninfomani nella Città delle donne, riempita di gomma piuma da Fellini per essere ancor più rotonda e surreale nelle forme già generose. Ma in sostanza della sua memoria, come di gran parte del mondo dell’avanspettacolo, poco o nulla resta oggi, se non qualche sbiadita copiaccia caratterizzata piuttosto dalla volgarità di pose e ammiccamenti al limite della decenza. Eppure su quelle platee sovraffollate di militari e adolescenti saturi di testosterone molti si innamorarono della signorina Silvani, come ci ricorda l’agile e documentato libro di Guido Botteri Jole Silvani la soubrette amata da Angelo Cecchelin, Paolo Poli e Federico Fellini (Comunicarte edizioni, pp. 170, € 19), pieno di illustrazioni, fotografie e riproduzioni.
Niobe Quaiatti nasce il 9 dicembre 1910 nella Trieste ancorata alla corona di Francesco Giuseppe D’Asburgo, figlia di Guido, linotipista, cioè tipografo specializzato del Piccolo. Inizia precocissima a recitare in un’operetta di evidente ispirazione deamicisiana intitolata Dagli Appennini alle Ande. L’incontro fatale avviene però più tardi, nel ’29. Angelo Cecchelin, bisognoso di una soubrette per la propria compagnia, “la Triestinissima”, la convince a debuttare, inventandosi seduta stante il nome d’arte che la accompagnerà per il resto della vita, aggirando il prevedibile diniego del padre ad autorizzarla a calcare le tavole dell’avanspettacolo. Genere da sempre negletto, collocato come intermezzo tra una proiezione e l’altra soprattutto nelle sale di seconda e terza visione, l’avanspettacolo conosceva proprio in quegli anni il suo momento di massimo splendore, potendo annoverare tra le sue fila nomi come Totò, Aldo Fabrizi e Anna Magnani.
Il principio della sessantennale carriera avviene di fatto il 17 ottobre 1929, al teatro Giuseppe Tartini di Pola: lei impersona una bagnante a cui in seguito sarà dato il nome di Giulietta Stelladoro e tra barzellette e boutade intona anche una canzone intitolata Lolita. A vedere i calendari delle rappresentazioni si capisce quanto logorante e intensa sia stata la carriera di quelli che a lungo sono stati ritenuti dalla critica solo dei guitti. Nel ’31 la compagnia si impegna per ben 355 giorni, al ritmo di 3 repliche giornaliere. La Silvani diventa in breve una vera e propria vedette e non solo in Friuli Venezia Giulia, sia che interpreti la lattaia Tanzi, sia che intoni la canzone per Baby Lindberg, la piccola figlia del primo trasvolatore oceanico rapita e uccisa poco tempo prima. O, negli anni della trionfale grancassa per l’edificazione del nostro impero di cartapesta, della canzone-marcia La fanciulla di Macallè, dal nome della regione etiopica dell’Endertà.
Dopo la caduta del fascismo, con Trieste occupata dai nazisti, la presenza della compagnia nei cartelloni è assicurata direttamente dal maggiore Seidler con un perentorio: «Vi autorizzo io a recitare e guai a coloro che osassero di farvi del male. I fascisti, per noi, sono morti a Trieste, Alles kaputt!». Continueranno a lavorare anche nei furibondi quaranta giorni di occupazione della città da parte delle brigate titine, con un repertorio adeguato forzatamente alla nuova realtà. A sorvegliarli è uno spietato dalmata tanto solerte da vedere in ogni virgola dei copioni delle riviste accenti di “antitismo”. La fine della guerra e il ritiro degli jugoslavi non risparmia Cecchelin dall’accusa di collaborazionismo con i temporanei occupatori. Arrestato dalla polizia civile comandata dagli ufficiali britannici finisce in carcere, dove passerà poco più di un anno, ricevendo dall’amnistia togliattiana uno sconto di pena di circa tre anni.
Nel dopoguerra, per Jole Silvani come per molti altri artisti in vista durante il ventennio, è molto difficile trovare delle scritture, mentre Cecchelin comincia a meditare di sciogliere la “Triestinissima”, come farà nel ’56. Per lei è l’inizio di una nuova giovinezza come racconterà anni dopo in dialetto: «Quando go podù esser sola, alora go podù viver dè sto lavoro». Successo che diventa consacrazione nel ’62, con l’ingresso nella compagnia di Paolo Poli, con cui rimarrà per ben tredici anni, partecipando a spettacoli come Il diavolo, Il Milione e Il Candelaio.
Di Jole Silvani si sono perdutamente innamorate almeno due generazioni di maschi, Fellini diceva di aver deciso di fare il regista solo per avvicinare le attrici che ne avevano ammaliato la giovinezza: Mae West, Joan Blondel e Jole Silvani. Quando trent’anni dopo il primo contatto tra i due, avvenuto per la realizzazione dello Sceicco Bianco, Fellini la richiama per La città delle donne lei ha già un ingaggio per una crociera su un transatlantico russo. Disperata, chiama a casa il regista riminese per comunicargli la defezione ma trova la Masina che la consola dicendole: «Non te la prendere Jole, Federico non cercherà qualcun’altra per la tua parte». Parole di circostanza direbbe qualunque attore, eppure un giorno quando è già in nave, la avvertono che c’era qualcuno che aveva telefonato diverse volte per lei. Non sospettando minimamente potesse trattarsi di Fellini resta ancora di più sorpresa il giorno seguente a vedersi consegnare un telegramma in cui la produzione comunicava lo spostamento delle riprese del film. E sì che nonostante l’età non più verde ancora in quella crociera Jole Silvani era stata capace di mietere vittime a non finire tra i passeggeri russi. Paolo Poli racconta che molti croceristi del transatlantico “Shata Rustalevi” continuarono per mesi a chiamarla ossessivamente, mentre lei si rifiutava di andare all’apparecchio perché «quelli non si accontentano di invitarmi a cena». Giunta sul set, Jole si trova a dover buttar via il copione e a ricominciare tutto daccapo, dovendo perfino imparare ad andare in motocicletta. Ma il feeling tra i due è istintivo, Fellini è un «coccolo, insegna ogni singola parte, con quella voce dolce dolce che ti indica tutto quello che devi fare. È lui il vero attore: nessuno riesce a recitare come lui, sa la parte di ognuno; quando diceva le mie battute pensavo che mai più le avrei rese in quel modo».
Negli anni Settanta condivide con molti altri esponenti dell’avanspettacolo la rivalutazione da parte di quel teatro “alto” che li aveva sempre considerati animali di second’ordine. Con Tino Buazzelli, Attilio Corsini e Corrado Pani è nel cast de Il signor Puntila il suo servo Matti con la regia di Aldo Trionfo al Teatro Stabile di Torino. Una delle sue ultime apparizioni è nel tributo di Giorgio Pressburger al più geniale e dissacrante attore comico del novecento: Karl Valentin. Poi il progetto di un’autobiografia che però non vedrà mai la luce, lasciando ai testimoni il dovere di raccontare una stagione splendida e sottovalutata dello spettacolo italiano.


“Il Riformista”, 2 gennaio 2011

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