Per uno di quegli scavi
utilitari, fogna o scarico che fosse, quattro anni or sono, al Pireo,
vennero fuori tre statue di bronzo. Tre statue che certo non dovevano
star lì, ma lì erano state abbandonate, forse al tempo della prima
spoliazione di Atene fatta da Silla, forse dopo. Un ritrovamento di
statue bronzee greche è un fatto più che raro. E intanto dà la
quasi certezza di trovarsi di fronte a degli originali. La scultura
in bronzo era la più pregiata, e per la possibilità di
riutilizzazione del metallo non è da meravigliarsi che fosse la
prima a scomparire. A salvarsi, sono stati soprattutto piccoli bronzi
o frammenti isolati, ma grandi statue intere sono rarissime, anche
per l’epoca romana. Quelle trovate al Pireo erano grandi statue, e
la più antica è addirittura un bronzo della fine dell’arcaismo,
il più grande bronzo, fuso a cera perduta, che di quell’epoca ci
sia rimasto. Gli altri due non sono esposti, pare che siano ancora
nel bagno che li deterga dalle incrostazioni; ma l’Apollo nudo è
già collocato nel Museo Nazionale di Atene.
È quasi perfettamente
conservato; alcune fenditure non offendono la vista né l’interezza
dei volumi né la nettezza dei profili. La testa fa l’impressione
che sia un po’ rincagnata; ma forse non è così, e rientra nelle
particolarità inattese di questo Apollo che beatamente sconvolge
tutta una cronologia, che sembrava pacifica, per la scultura arcaica
greca. La quale è pensata, dagli archeologi, con una gradualità
che, soprattutto per queste figure stanti di giovani nudi, i kouroi,
nei quali rientra anche l’Apollo del Pireo, sembrava non potere
subire deviazioni, tanto docilmente tali figure di atleti si
susseguivano luna all’altra, sempre con qualcosa di più morbido e
avanzato rispetto al precedente.
L’Apollo del Pireo,
invece, s’introduce a sorpresa in quel mondo ordinato, sicché, per
quanto già riprodotto e diffuso, non è stato ancora
scientificamente pubblicato. Sta, al solito, con un piede avanti e
uno indietro, ma a cominciare da quei piedi, sembra che la
squadratura volumetrica a cui ci ha avvezzati la scultura del secolo
VI, abbia ricevuto qui come una imburratura. Imburrato, nella sua
splendida patina di malachite, fluente, come se la cera perduta
avesse trasmesso al bronzo il gusto di una morbidezza che al metallo
non compete. E su su, questa inattesa rotondità delle forme continua
a rivestire una struttura che è ancora, al di sotto, quella a facce
della scultura arcaica. Né colpisce meno il fatto del contorno
lineare. Le altre statue stanti, che siano maschili o femminili,
hanno in comune con la pittura vascolare il fatto che la linea di
contorno, che le definisce, è aderente più di un guanto, le
ritaglia nettamente come sagome contro luce. Ciò che è più
comprensibile, forse, per la pittura dei vasi a figure nere, ma si
produce in realtà, in modo identico, anche nelle statue a tutto
tondo, oltre che in bassorilievo. La linea di contorno isola,
immunizza la figura dall’ambiente; si richiude, si ribatte per così
dire, sulla figura. Per questo, se si guardi uno dei kouroi che dal
secolo VII si scalano prima dell’Apollo del Pireo, se si guardi,
diciamo, il profilo delle gambe, si vedrà che non c’è intacco nel
risalire dal polpaccio al ginocchio. Una stessa continua linea di
contorno avvolge gli arti; come senza staccare la penna. NellApollo
del Pireo si osserva certo una splendida continuità di linee, ma
questa continuità non si conduce sul limite esterno fra statua e
spazio-ambiente. Lì anzi, si rompe e si riprende, con intagli
sinuosi, mentre sulla superficie del corpo, le varie linee si perdono
e raffiorano come un intreccio di vene. E questo davvero è un fatto
che stilisticamente anticipa più di cinquantanni, se si vuole tenere
la datazione, per noi ingiustificabile, al 530-520 a.C.
L’Apollo del Pireo non
è una statua propriamente arcaica, ma è, con delicatezza sorniona,
arcaizzante, come, ma in altro senso, le statue dei frontoni di
Olimpia. Quando l’Apollo del Pireo fu modellato, molte cose erano
già accadute, sicché è infinitamente più distante dal kouros
del Dypilon che da Mirone. Basta ricordare quella mano del kouros
del Dypilon, geometrizzata come un prisma, e come, via via, a un
prisma, continuino ad adeguarsi le mani chiuse, talmente egizie,
anche degli altri kouroi più recenti. A un tratto, questo Apollo del
Pireo osa alzare le braccia, da rigide e distese lungo i fianchi come
avrebbero dovuto essere, e muove in avanti la nocca dell’indice
destro, rompendo l’unità bloccata del pugno chiuso. Sicché quella
nocca che sporge, sembra che sporga dal pelo di un’acqua
cristallina, tanto rigorosa, presente e sottintesa resta la guaina
che geometricamente contiene la figura. È come un verso ipermetro, è
come quando un cavallo che va al trotto stacca il galoppo: rompe, si
dice allora, e così quella nocca rompe l’involucro della statua.
Ma felicemente, ma degnamente. E la formula ripresa per rinsanguarla,
per ridare un significato a parole che, nella ripetizione, si erano
consunte e l’avevano perso. Tutta la figura acquista allora il suo
significato vero: anche la testa, quei riccioli, quasi appena
sbozzati, gli orecchi che non si rifiutano minute circonvoluzioni
naturalistiche. Gli occhi, certo, rimangono sgranati e stupefatti,
quasi dedalici, ma il sorriso non regge più la smorfia stereotipa e
sembra stampigliarsi a malavoglia.
Per non dire poi del
torso, dove il modellato disfà le ragioni anatomiche, le assorbe in
una gradualità luminosa che è come se la luce, simile a un velo
d’acqua, vi scorresse sopra.
Quindi, non solo è una
statua rara, ma ci restituisce un momento importante di una civiltà
altissima che non era né poteva essere unidirezionale, e in cui è
errore pensare all’arcaismo come a un passaggio di stagione, una
naturale fase di crescita, crescita irreversibile, come è
irreversibile la pubertà sull’infanzia. L’arcaismo fu scelta e
libera scelta: in quanto tale non veniva soppresso di colpo dal fatto
che collateralmente si maturasse una diversa scelta stilistica e si
dilatasse oltre l’involucro della figura la spazialità che prima
vi rimaneva dentro come a tenuta stagna. L’autore dell’Apollo del
Pireo sentì questa direzione nuova e investì cautamente, come un
sudario di luce, le forme sfaccettate che erano proprie
dell’arcaismo, e che ancora rappresentavano la gelosa realtà
dell’immagine di contro a quella della cosa viva.
Da Viaggio in Grecia,
in “Terzo programma. Rivista trimestrale”, ERI, 1965,IV, ora in
Viaggio nella Grecia antica,
Bompiani, 2011
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