Lo
scrittore Dany Laferrière, haitiano naturalizzato canadese.
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BORGES È UN LIBRO
Tengo sempre un libro di
Borges sul comodino. Quando sento di averlo letto a sufficienza, lo
sostituisco con un altro, ma sempre di Borges. Certo, leggo anche
altri autori (Baldwin, Bulgakov, Tanizaki, Bashò o Diderot), ma poi
torno sempre a Borges. Perché? Perché secondo me è l’essere più
intelligente e l’uomo più cortese che io abbia mai conosciuto.
Rimango incantato di fronte alla sua curiosità, così insaziabile da
sfiorare quasi l’ingenuità. A chi gli chiede: «Ma lei è Jorge
Luis Borges?», lui risponde: «Cosa vuole che ne sappia? Io non so
niente di me. Non so nemmeno quando morirò». È raro che la morte
costituisca oggetto di curiosità. Per Borges non è solo una bella
parola, come anche per Villon, che non esita ad avvertirci della
gravità della cosa («Hommes, ici n’a point de moquerie»,
«Uomini, qui non c’è da scherzare»). Eppure non fatico a
immaginare il vecchio poeta argentino mentre aspetta serenamente la
sua ultima ora con il bastone tra le gambe. Non è un caso che
quest’uomo abiti la mia mente da più di trentadue anni. E non
solo: questo vecchio cieco si muove da una cultura all’altra
neanche fosse nella sua camera di Buenos Aires. È a casa sua nella
letteratura islandese come nel teatro shakespeariano, nei romanzi di
Stevenson come nella poesia di Lugones; è a suo agio più
nell’Antichità greca che nel Ventesimo secolo, dove sembra essere
capitato per sbaglio. Ma il motivo che mi spinge a continuare a
leggerlo con tanta assiduità è che, nonostante la sua incredibile
erudizione, Borges rimane un bambino che ha paura del buio. Quando
finge indifferenza di fronte alla cecità che l’ha colpito, è solo
per far credere alla madre di non soffrire. Eleganza e coraggio sono
le parole che più definiscono Borges. Io non leggo un libro di
Borges: io leggo Borges. Quando prendete in mano Finzioni o
L’Aleph siate delicati, perché Borges vi guarda da dietro
le pagine.
VIVO DOVE SCRIVO
Non so perché, ma appena
arrivai a Montreal sentii che quella città mi avrebbe permesso di
fare il salto. Avevo 23 anni e mi ero appena lasciato alle spalle
l'universo angosciante dei Duvalier, quella Port-au-Prince che di
notte pullulava di rivoltelle e cani gialli. Ad Haiti facevo il
giornalista e dovevo scrivere guardandomi le spalle. E ora, invece,
eccomi in una città nella quale si poteva circolare senza avere
paura. Ho preso in affitto una stanzetta sporca ma luminosa in rue
Saint-Denis, in pieno quartiere latino, accanto a un parchetto
frequentato da certi bevitori di birra alla Bukowski che abbordavano
le ragazze dell'università Mc Gill. Dall'altra parte della strada il
poeta Gérald Godain viveva la sua passione con la cantante Pauline
Julien. Il poeta Émile Nelligan, diventato famoso per aver
utilizzato due volte in un verso brevissimo la parola “neve”
(«Ah, comme la neige a neigé»), ha passeggiato in questo parco
prima di terminare la sua vita in un ospedale psichiatrico. Quello
era decisamente il posto ideale per tentare di diventare uno
scrittore.
(...)
Spesso mi chiedono: come
mai tutta questa passione per gli articoli? Un giorno ho incontrato
un ragazzo che aveva la stessa opinione di Lucien Montas, la Sfinge
del Nouvelliste: «Signore, - mi ha detto - devo confessarle che a me
piace leggere solo testi brevi e con frasi corte». Ho pensato che
forse la sua idea era che temi anche molto diversi tra loro potessero
fondersi in un tutto armonioso, come in una zuppa di pesce bella
speziata. Avevo dunque trovato il mio campo da arare, un po’ come
Borges, che non ha mai lasciato la biblioteca.
Dalla
lectio magistralis che Dany Laferrière ha tenuto a Firenze il 15
giugno al Cenacolo di Santa Croce nell’ambito del Premio Gregor von
Rezzori, dedicato a I luoghi della letteratura, in “Il Sole
24 ore, 11 giugno 2017”
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