Che
cosa è l’esperienza visiva, si chiede Nadia Fusini davanti agli
Ambasciatori di Holbein il Giovane, (cfr. il manifesto dell’8
agosto). E risponde: io dico che un quadro «parla», che vedendolo
noi pensiamo «parole». Come parla? Attraverso un «ritmo» che
richiama sensazioni, sentimenti, nodi della memoria; e pertiene
all’«affettività» nel senso di percezione, emozione. Ma ut
pictura poesis, sempre parole sono. Vi ripensavo mentre
mentalmente sceglievo al nuovo Musée d’Orsay il dipinto che avrei
voluto portarmi a casa - gioco che forse tutti facciamo - e m’ero
fermata sull’autoritratto di Cézanne. Il quale è un non
misterioso ritratto. Neppure uno di quei ritratti dietro ai quali sta
un mondo, come il «Giovane col guanto» di Lorenzo Lotto o «il
gentiluomo» del Greco. Cézanne non dipingeva un’emozione, né una
idea di sé, né il volto come specchio della vita; posava zone di
colore netto e spento, per pennellate poche e sicure, facendo del suo
viso «pittura». Poco più in là Renoir accarezzava di colore
diffuso e sfumato il volto o la nuca delle sue signore dagli occhi
bituminosi; tutt’altro modo di avvicinare una testa. Ma né l’uno
né l’altro suggerivano parole che non riportassero a quel diverso
posare il pennello e il colore, come volume o come atmosfera.
Ahi,mi
dicevo «Ut pictura poesis, ut poesis pictura? Non è vero.»
Ma come vedere senza pensare, e come pensare senza parole? È vero
che conosciamo nell’emozione un precipitare in noi stessi che non
ha parole. Ma è un precipitare. Il contrario dell’immobilità del
quadro, non increspata dal tempo. Davanti ad esso siamo riportati, è
vero, alla nostra indigenza: abbiamo bisogno di «parole». Non a
caso in questa nostra serie sono scelti quasi sempre quadri che
evocano parole, un più di ciò che «mostrano». Gli Ambasciatori
ci dicono, in seconda lettura, che dietro a ogni pompa e sapere sta
la morte. Il Canaletto rifà Venezia; Gruenewald e Bruegel ci
rinviano a brandelli di terribile storia. Fuessli all’analisi del
profondo.
L’autoritratto
di Cézanne non rinvia neanche a Cézanne. Forse per questo scelgo
oggi anch’io un dipinto misterioso, munito d’una immensa coda di
parole. È la Flagellazione di Urbino, di Piero della
Francesca.
Appartiene
alla galleria immaginaria con la quale vorrei vivere. Differentemente
da altri sogni, una galleria immaginaria frustra in assoluto la
proprietà. Neanche in piena riproducibilità tecnica dell’opera
d’arte si può avere Piero. Al massimo si può rubarlo: non è
merce.
Mentre
musica, fotografia e film si sdoppiano, il dipinto è uno: mediocri
riproduzioni lo falsano sempre. E alcune affascinanti riprese
cinematografiche modificano totalmente, frammentandolo, il suo
presentarsi.
Alcuni
di questi quadri sono così poco appropriabili che neppure si può
avvicinarli. L’ultima volta che vidi la Flagellazione c’era
fra noi lo spessore non innocente d’un vetro blindato: viviamo in
tempi sufficientemente disperati perché qualcuno spari a un dipinto.
Unico, irriproducibile, magari occorre venire da molto lontano per
vederlo, inaccessibile. Se avremo la ventura di reincontrarlo in
un’esposizione, sarà tenuto lontano da un cordone e lo sbirceremo
oltre una siepe di corpi più incombenti di lui. A volte in grandi
musei deserti ho sfiorato con le dita un dipinto; proibitissimo, lo
so. Ma una pittura era fatta anche per essere lievemente sentita con
la mano.
Il
quadro è un incontro veloce con una creatura indimenticabile che
soltanto il caso ci farà ritrovare, lei immutata, mutati noi.
Indimenticabile si fa per dire: c’è un abisso fra essa e quel che
ne ricordiamo. Non è lo stesso come la pagina scritta. Essa ci
segue, disponibile e tiranna. Quando i pensieri se ne vanno troppo
lontano da ciò che quelle parole evocano, si impunta: è là, non
c’è scampo. Il dipinto libera invece i pensieri e le parole.
Perché non è pensiero né parola. Il quadro è quel che resta dopo
le parole.
Ma
la Flagellazione... Da qualche tempo se ne è scritto molto,
non è davvero uno di quei dipinti che parlano da soli. Salvo la
firma di Piero, non se ne sa con certezza nulla: né quando lo abbia
fatto, né per chi, né che cosa significasse né dove fosse
collocato. Si chiama così perché a sinistra, in secondo piano, è
riconoscibile una flagellazione di Cristo.
Roberto
Longhi ne affrontò i segreti attraverso un’analisi dello stile :
era probabilmente del 1452, antecedente al ciclo di Arezzo, e si
poteva accogliere l’ipotesi che fosse stato commissionato da
Federico da Montefeltro per ricordare la morte a tradimento del
fratello Oddone. Più recentemente Carlo Ginzburg ha voluto
verificare; e richiamandosi, non senza una punta polemica nei
confronti della critica stilistica, ai principi della scuola
iconologica e in particolare ad Aby Warburg, dopo ostinati confronti
di documenti, date, immagini, luoghi, tassello per tassello ha
concluso: no, il quadro non può essere anteriore al 1459 perchè vi
appaiono elementi architettonici che Piero non può aver veduto che
in San Giovanni Laterano, e a Roma andò solo in quell’anno. E poi
la Flagellazione non è una commemorazione, è una lettera.
Una lettera che l’uomo di stato Bacci manda per conto del Cardinal
Bessarione a Federico da Montefeltro, non senza toccar la corda del
giovane figlio appena morto di peste, per persuaderlo a fare quel che
Federico non voleva fare assolutamente: una crociata. Ma non vedi -
gli dice la tavola- che Cristo, cioè la chiesa, è ancora flagellata
nelle marche d’oriente? E tu non fai nulla. Che ne penserebbe il
tuo povero figliolo?
Federico
Zeri e altri sono insorti contro questa interpretazione. Perciò
sommessamente suggerisco di andare a visitare il quadro, per così
dire, in carne e ossa, e di non perdere la prelibata discussione,
facilmente accessibile. Ma proviamo anzitutto a dire come vedremo la
Flagellazione se ci rechiamo sul posto.
Anzitutto
ci sbalordirà la sua piccolezza. La tavola è scandita come negli
affreschi di Arezzo, e scommetto che vedendone le riproduzioni ci
sarà sfuggita l’indicazione delle misure: invece eccola là, 58
centimetri per 81,5. Neanche un metro. E poi ci colpirà l’aria che
vi circola, sulla quale non vi sono parole se non che è tersa,
mattutina, irreale. Approssimative parole, perché sempre l’aria di
Piero è tersa, spesso mattinale. Ma il mattino della Resurrezione
di Borgo è davvero un mattino, quasi fa freddo, le luci sono acerbe,
è una rinascita. Qui no: la luce è rosea pasta di vetro. Nessuna
riproduzione la rende.
E
poi la tavola è bizzarrissima. È divisa a metà dal profilo
sinistro della colonna di mezzo; ma il punto di fuga basso - quasi
all’orlo della veste del fustigatore, ma più lontano sullo sfondo
- è spostato a sinistra, riequilibrando figure a destra in primo
piano.
In
primo piano, parte con i piedi per terra Carlo Ginzburg, mentre la
Flagellazione è in secondo: dunque
signora del quadro è la conversazione fra quei tre, e non già il
supplizio di Gesù, del quale manifestamente non parlano. Primo e
secondo piano non sono due distanze nello spazio, ma nel tempo,
l’oggi e il passato.
Di
che parlano i tre signori dell’oggi? Anzi, due di loro, quello a
sinistra ammantato di viola che sporge appena una mano persuasiva (
forse il Cardinal Bessarione) e quello a destra, vestito di broccato,
che lo fissa attentamente. Costui è l’indizio/pilastro, perché è
indubitabilmente il dignitario Giovanni Bacci, da Piero ritratto
altre volte. I due hanno le scarpe, elegantissimi guanti per i piedi,
mentre il giovane in mezzo è vestito d’una semplice tunica, è
scalzo e non parla, per la buona ragione che è morto. Appunto il
figlio di Federico, Buonconte, spento da poco se siamo al 1459. Lo
sfondo è cittadino, non identificabile; dietro alla testa del
giovane un frondeggiare d’alberi sul solo visibile cielo.
A
sinistra, Cristo è flagellato in un ambiente classico costruito da
frammenti veduti in Laterano: la Scala santa,i portali, le
colonne,l’idolo sopra la testa di Gesù, che è invece la statua
dell’imperatore Costantino. Siamo nel tempo andato.
Un
tale vestito di verde si appresta in posizione altamente improbabile
a fustigare il figlio di Dio, tenuto fermo o sorretto da un anziano;
davanti, un assistente come investito dal vento, e sul trono Pilato,
anche lui con le scarpe, e una mano mollemente cadente sul ginocchio.
Pilato? Dev’essere il ritratto di Giovanni VIII Paleologo, ma forse
allude (la tavola era una missiva privata per luoghi privati, anche
se nel 1744 stava nella sacrestia della Cattedrale) al papa in
persona, poco sensibile alle sofferenze della chiesa in Oriente.
E
con questo della Flagellazione
sapremmo tutto.
Tutto,
compreso che a Piero poco gliene importava. Cosa normale fra pittore
e committente. Ma in altre sue pitture Piero rielabora la materia
prescritta con straordinaria partecipazione; lo splendore della forma
è anche invenzione del racconto. Il Cristo della Resurrezione
di Borgo è un giovane uomo, trionfante da una prova terribile. La
Madonna
del parto
si slaccia il corpetto con un certo terrestre orgoglio, mentre due
angeli, che portano le ali assortite alle calze,ridacchiano.. La
Tortura
dell’ebreo Giuda prende impatto dall’immensità, che si perde in
alto, della macchina patibolare. E le conversazioni sono
conversazioni: nel Battesimo
o nella Natività
quegli angeli stanno attenti l’uno all’altro e alla scena
centrale.
Ma
qui? Salvo il Bacci che fissa Bessarione, nessuno guarda nessuno;
anche gli occhi del cardinale si perdono lontano, fuori quadro. Nulla
non dico di vero, ma di verosimile. La Flagellazione meno che meno.
Quel che il quadro «intende dire» è indifferente, e infatti
scopribile soltanto attraverso il ginzburghiano paradigma indiziario,
fuori dalla tavola.
Siamo
di fronte a un dipinto il cui senso essenziale azzera il tema che gli
è dato. Penso che il senso essenziale sia la disposizione del tempo,
dei monumenti,degli uomini e dei loro fantasmi nello spazio
prospettico - non dicibile anche perché irreale, geroglifico della
tridimensionalità e astrazione dall’esperienza sensibile. Nulla
infatti è più lontano da essa di queste quattrocentesche
prospettive, perché è ben vero che noi vediamo su uno, anzi due
punti di fuga, ma questa percezione si mescola a una gerarchia
interiore, pre o postprospettica. Se passiamo su un paesaggio senese
lo percepiamo come il Sassella, per priorità che non stanno nelle
linee di fuga; neppure in Campidoglio, trionfo della misura, vediamo
come Piero. Noi vediamo da tre dimensioni, più tutte quelle della
percezione sensoriale e psichica dell’ambiente, flussi e
sollecitazioni che sconvolgono e riordinano la scena. Ma su questo
Alois Riegl e Erwin Panofsky hanno detto tutto.
Quel
che importa è che il passaggio dalla visione per spazio curvo degli
antichi alla messa in prospettiva su un unico punto di fuga è una
scelta intellettuale, che il pittore rappresenta. Se il dipinto
parla, è di questo che parla. Ma con quali parole? È la percezione
simbolica d’uno spazio puro e astratto in cui si ordinano corpi e
cose; una percezione della mente, che traduce spazio e tempo nella
loro indicibilità di sintesi a priori, come «forme», regole,
calcoli. Che sono, si scopre, armonie o disarmonie formali, visibili,
delle relazioni nello spazio bidimensionale della tavola. Sonò logos
e apparentate, anzi, al calcolo; razionalità ordinatrice a priori
dell’immagine, che presuppone un suo dominio consapevole, una sua
pensabile oggettività, come nell’Alber-ti e nel Brunelleschi. Non
«realistica», ma ricreata in un sistema significante, che, per gli
ignari, è afferrabile grazie a quella soglia tra calcolo e magia che
è l’armonia delle sfere, il tradursi della esatta, o dell’aurea
proporzione, in bellezza, in musicalità delle forme.
Così
nelle arti figurative (succederà anche con i moderni) quel che è
più vicino alla ragione è il più lontano dalla parola. Sempre? Non
sempre. La ricchezza di Piero fa che egli coniughi livelli di vasto
spessore storico e culturale e fantastico e piscologico dentro questo
spazio ordinato, senza che l’un livello riduca gli altri. Alcuni
suoi contemporanei ne usano come un in più o un in meno
multiespressivo. Paolo Uccello va allegramente verso il meno: il
gioco prospettico lo innamora, e tutto vi è subordinato. Al
contrario, la crocifissione di Masaccio in Santa Maria Novella fa
della prospettiva un elemento di semplificazione violenta e pervasiva
del dolore.
Nella
Flagellazione nulla di questo. Piero tutto regola sul suo punto di
fuga, ma ne fa, assieme alla trasparenza della luce, uno spazio
sognato, dove antichità e presente si rapportano in un sistema che
non ha parole né le dice. La ragione per cui esse, o gli uomini,
sono là, è perduta o irrilevante. Nessun personaggio fa davvero la
sua parte, da Giovanni Paleologo che dialoga soprattutto col portale
che lo inquadra, alla figura di Gesù che funge, nella tradizione,
più o meno spuria della mensura
Christi,
da unità di misura base per la tavola; colui che parla non parla a
nessuno, come il flagellatore non flagella. Sono tutti distratti
dallo spazio che con le sue musicali rispondenze passa dentro di
loro. Li fissa.
Questo
«vedeva» e «mostrava» Piero, ne sono convinta; e se ci sono da
dire molte parole, esse vertono sulla cesura, assai più che
pittorica, che passa tra il ’300 e il ’40Q. Ma essa non dà
ragione del dipinto più che la sua criptica destinazione. Lo stesso
succede con l’autoritrattto di Cézanne, che comincia e finisce nel
modo di «formare» nel colore un volto per volumi. Non ci sono altri
messaggi, differentemente che in Holbein o Gruenewald, che rincontro
fra il caos della materia/sensazione e una «legge» degli spazi.
Forse perché non esiste «una» pittura, ma diverse e totali
esperienze della forma. Nella Flagellazione
di Piero si ascolta quel rispondersi musica dei rapporti e per un
momento le parole tacciono.
il manifesto, 1 settembre 1987
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