Carlo di Borbone, re di Napoli e di Sicilia (1735 - 1754), poi re di Spagna |
[…] Mi riferisco,
ovviamente, alla grande, biennale, rilettura del re borbone che la
cultura accademica (e non) napoletana ha di recente proposto su una
restaurabile e ritrovata solidarietà dell’Europa mediterranea
lungo la direttrice Parigi - Madrid - Napoli. Con la enorme,
accumulativa esperienza della Civiltà del ’700 a Napoli
(1734-1799), due volumi bellissimi, luccicanti e densissimi di
catalogo (Firenze, 1980: «Centro Di») ricchi di contributi di Mario
Praz, Raffaele Aiello, Ferdinando Bologna, Alvar González Palacios,
Anthony Blunt e molti altri; con due convegni, uno inaugurale e uno,
conclusivo, nell’aprile di quest’anno dedicato esplicitamente al
rapporto tra i Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna; con le feste,
le cene e le altre rappresentazioni di pubblico danaro, tra cui una
nuova messa in scena settecentesca di Roberto De Simone (l’Opera
buffa del venerdì santo), la città è sembrata ritrovare se
stessa e la propria vocazione eterna. Ci si riferisce, naturalmente,
a quella napoletanità aggressiva e boriosa, ma anche ingenua, che
fissa un unico tratto tra Virgilio e Cangiullo e invoca intermediari
Boccaccio e Marino.
Si tratta di un destino e
di una vocazione ambigui, però. Il settecento borbonico esprime le
sue utopie illuministe nelle grandi proposizioni enciclopediche della
cultura centralista e dirigista della Parigi assolutista, ma si
proietta a Madrid e a Napoli anche come distopia e orrore di
qualsiasi diverso futuro. Impiantatisi in Spagna nel 1714 i Borbone
due anni dopo trasformano con il decreto di Nuova Pianta il vecchio e
ormai decrepito Grande Impero euroamericano in un fiammante e
suppostamente modernissimo Regno di Spagna. La Corona di Aragona
viene cancellata con un provvedimento amministrativo e, quando
qualche decennio dopo gli spagnoli potranno tornare nell’Italia
meridionale essendo stata ormai rotta la continuità di
legittimazione, con un gesto di regale volontà si decide di dotare,
con Carlo, il Regno meridionale di un monarca proprio e di un’idea
di nazione che, secondo gli imperativi dell’ideologia borbonica,
coincide strettamente con lo statalismo burocratico. È forse proprio
questa la grande utopia del ’700 europeo. Non il razionalismo dei
siti reali, le città artificiali e immaginarie, il tessere e il
disfare continui e inconcludenti dell’intervenzionismo
mercantilista e del laicismo politico, non il mecenatismo e le
strabilianti scoperte archeologiche (di nuovo Pompei, Ercolano e le
rovine antiche!), ma la capacità di costruire una grande metafora
postbarocca del potere.
Quello settecentesco e
borbonico fu infatti un sistema che seppe essere coerente con i
propri princìpi e seppe illustrarli anche con azioni politiche
decise come le espulsioni dei gesuiti che si susseguirono su tutto il
«territorio» borbonico dell’Europa del XVIII secolo. Anche se
oggi un gesuita smaliziato come Miquel Batilori non ha difficoltà a
smascherare con garbo e smitizzare di fatto il coraggio del ministro
di re Carlo ricordando tra le righe di una comunicazione congressuale
che le scuole e le università sottratte alla Compagnia oscurantista
e latifondista accumularono in pochissimi anni un tale deficit
finanziario di gestione da imporre per pagare debiti indilazionabili
l’alienazione dei beni di dotazione e la loro svendita ai soli
acquirenti disponibili sul mercato: i padroni dei restanti latifondi,
gli esecrati e temibili Baroni.
D’altra parte il potere
e la società postbarocche eressero e coltivarono i propri miti ai
margini e in presenza di autentici propositi razionalisti. Non furono
più i miti dell’esclusione e del separatismo: l’onore e la razza
con cui si coniugavano — nel teatro elisabettiano o nei drammi
spagnoli del secolo d’oro — la partecipazione rassicurante alla
cultura di un Grande Impero e il riflusso infamante dalla storia nel
privato. (Se ne veda un esempio suggestivo e singolarmente rivelatore
nella sua divergenza nella Risposta a Suor Filotea di Suor
Juana Inés de la Cruz pubblicata dalle edizioni La Rosa a cura di
Angelo Morino e Dacia Maraini, ove si dimostra come l’Impero
escludeva sì il diverso da sé, ma garantiva comunque una voce di
grandezza alla sua periferia, una doppia periferia: messicana e
femminile!).
Certo, i miti del ’700
furono razionalisti, o si presentavano come tali, e polemicamente
antibarocchi: come il mito centrale, quello ricordato da Antonio
Elorza nel convegno napoletano citato sopra il mito, cioè, di
quell’economia civile equilibrata in contrapposizione all’economia
squilibrata della società degli stati (nobiltà, clero). Un mito che
porta con sé la gloria di rifondare umanisticamente un’istanza
etico-politica e l’infamia di scontare proprio nel sottosviluppo
economico e sociale comune al sud dell’Italia e alla Spagna
borboniche, il fondamento materiale del desiderio inappagato di
razionalità e di progresso mancati.
Così della grande città
illuminista da edificare attorno alla reggia di Caserta del magnifico
re Carlo e del suo real architetto è rimasto da ammirare lo scenario
moderno e abbandonato e già ci si chiede quale mai potrà essere la
sorte della nuovissima metropoli postmoderna sorta sulle rovine
antiche e le sopravvivenze moderne se ci si appresta, come pare, ad
abbandonare al più presto anche quella.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1982
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