30.8.17

Sinonimi ed eufemismi. Il nuovo Tommaseo (Umberto Eco, 1973)

Dalla periferia dell'impero raccoglie in volume testi di Umberto Eco già pubblicati in quotidiani e periodici tra il 1973 e il 1976. Quello che segue, un articolo a suo tempo stampato su “L'Espresso”, merita forse qualche aggiornamento nell'esemplificazione, ma mi sembra tuttora utile a capire i significati reconditi di alcune abitudini linguistiche oltre che molto divertente, come capita spesso con gli scritti di Eco. (S.L.L.)

Facciamo conto di ricevere una lettera che dica: “A causa della decelerazione del tasso d’incremento, dopo attenta presa in considerazione da parte del nostro area manager, si prowede a disdettare l’acquisto dello stock di container per strumentazioni di installatori termo-idraulici da voi proposti, della cui affidabilità peraltro non si intrawedono concrete possibilità. Il nostro buyer, che aveva perfezionato i precedenti contatti, è stato sollevato dal suo incarico, come da xerox attergato”.
Il significato della comunicazione è: “dato che la nostra azienda sta andando a rotoli, il ragioniere che controlla i nostri commessi viaggiatori in provincia ha deciso di non comperare più quella rimanenza di scatole di latta per stagnini - che tra l’altro sembrano attaccate con lo sputo. Quel disgraziato che aveva preso l’impegno per conto nostro è stato scaraventato fuori dai piedi come vedete dalla fotocopia della lettera di licenziamento attaccata qui dietro”.
La seconda lettera ha lo stesso significato della prima, la quale è praticamente costruita facendo uso di termini o frasi che sono sinonimi delle altre. Come si vede, usando i sinonimi si dicono quasi le stesse cose, e sembra di dirle meglio, o in modo più gentile e scientifico. Il rischio è che chi riceve la lettera non la capisca, ma sovente questo non è un male.
Non è nemmeno male, però, riflettere sull’uso dei sinonimi nella nostra società. Anzitutto chiediamoci cosa sia un sinonimo.
Secondo l’opinione comune è una parola che ha lo stesso significato di un’altra, pur avendo suono diverso, come “ora” e “adesso”, oppure “scuro” e “buio”. I buoni dizionari sanno tuttavia che di sinonimi assoluti non ne esistono, e due parole possono dire la stessa cosa dicendola tuttavia in modo diverso, con diverso accento, da un altro punto di vista, o addirittura esprimendo due atteggiamenti culturali e sociali, come accada a uno sciagurato che si permetta di dire ancora “prora” invece di “prua”.
Sappiamo tutti che oggi, quando qualcuno dice “la mia barca” intende “il mio panfilo”, ma è chiaro che si tratta di un panfilo molto più grande del solito e che chi parla vuol fare sapere che ha parecchi soldi e molta modestia. In questo caso più che di un sinonimo si tratta di un eufemismo. D’altra parte i logici, quando hanno cercato di chiarire il significato di un termine attraverso il ricorso al sinonimo, si sono accorti che ciò che caratterizza un sinonimo è proprio il fatto di far scivolare il significato (allargarlo, restringerlo, deformarlo). Per cui possiamo dire senza esitazioni che un sinonimo (tranne casi rarissimi) non è mai neutrale. L’uso dei sinonimi è sempre ideologico. Al minimo manifesta origini e preferenze regionali, in un paese come il nostro in cui, a causa delle influenze dialettali, ci sono più sinonimi che in altri paesi: così che accade che una stessa cosa possa essere uno sfilatino o un filoncino di pane; un paio di stringhe, di aghetti, di legacci, di legaccioli, di lacci, di laccetti o di lacciuoli per scarpe; una tapparella, una serranda o un avvolgibile; una vasca, una tinozza o una bagnarola; una seconda colazione o un pranzo; un pranzo o una cena; un succhiotto o una tettarella; uno stagnino, uno stagnaio, uno stagnaro, un lattoniere, un fontaniere, un lanternaio, un trombaio, un idraulico o un installatore termo-idraulico (e non conta come lo si chiami, perché tanto non c’è più e se c’è non viene mai).
In altri casi il preferire il sinonimo più recente al termine desueto indica volontà politica, come accade a chi dica collaboratrice domestica invece di serva, portabagagli invece di facchino, netturbino invece di spazzino, esercente invece di bottegaio, agente di custodia invece di secondino. E altre volte ancora la variazione riqualifica e corregge le mansioni, perché una babysitter non è proprio una bambinaia (come vorrebbero i puristi, gran nemici di molti sinonimi esterofilizzanti), e tanto per cominciare non allatta e poi fa quel mestiere solo alcune ore al giorno. E un panificatore non è solo un panettiere, ma di solito un panettiere potente e cattivo, che imbosca gli spaghetti.
E che interi repertori di sinonimi si formano all’interno di linguaggi settoriali e specializzati e ivi acquistano pesi diversi, nel bene come nel male: per cui un buon codicillo alla rilettura di un moderno dizionario dei sinonimi è il libro appena apparso a cura di Gian Luigi Beccaria (I linguaggi settoriali in Italia, Bompiani) da cui sto traendo la maggior parte di questi esempi.
Ci sono per esempio espressioni sinonime con una funzione che il linguista Maurizio Dardano ha definito “straniante” e che servono a rendere meno brusco il senso: come dire “si provvede a fare” anziché “si fa”, “si dà luogo all’ascolto” invece di “si ascolta”, “si intravvede la possibilità di” invece di “si spera che”. E queste sono ancora sostituzioni innocue. Ma con un procedimento analogo si arriva ai tecnicismi economico-politici già lungamente analizzati, dove un’espressione finge di dire la stessa cosa ma di fatto la attenua e non la dice. Vedi, specie di questi tempi, le acrobazie sostitutive per non parlare di svalutazione, indicandola come allineamento monetario, allineamento selettivo delle monete o slittamento dei titoli. O l’aumento dei prezzi che diventa assestamento, ritocco, variazione delle tariffe. O il licenziamento su grande scala che pudicamente si maschera da piano di alleggerimento, o vaga minaccia di un aumento della manodopera disponibile. Mentre la crisi economica, che fa troppo 1929, diventa decelerazione del tasso d’incremento, recessione o raffreddamento dell’economia.
D'altra parte i politici hanno, nel loro gergo specifico, molte espressioni consolatorie, per cui una secca perdita elettorale diventa emorragia di voti e quando un gruppo di cittadini li manda a quel paese si parla di sindrome di rigetto.
In questi casi l’apparente sinonimo, che sinonimo non è più, ha chiara funzione di copertura retorica e - come già si è osservato - serve a comunicare qualcosa da un gruppo di potere all’altro senza che la massa dei cittadini se ne renda conto. Altre volte il linguaggio politico conosce sinonimi che, da eufemistici che erano, sono diventati ora talmente trasparenti da denunciare le origini ideologiche di chi li usa: vedasi la chiarezza con cui possiamo individuare l’opinione di chi, parlando dei congolesi, li classifichi tra i paesi sottosviluppati, i paesi in via di sviluppo, i paesi non allineati, i paesi del Terzo Mondo, i paesi nuovi o i paesi sfruttati. Così come possiamo sapere cosa pensa della cultura chi scelga di indicare gli intellettuali di sinistra come culturame, compagni di strada, utili idioti, teste d’uovo, borghesi onesti o intellettuali organici alla classe.
Ci sono poi, sempre nell’universo politico, parole che hanno struttura omonima e vengono usate in contesti diversi come sinonimi di qualcos’altro. Per esempio “rivoluzione” vuole di fatto dire cose diverse. In un contesto borghese classico è stato sinonimo di “passione, liberalismo, anarchia, barbarie, male, tradimento, sovversione”, nel campo marxista sta oggi a significare varie modalità di presa del potere o di rifiuto del potere altrui, a seconda dei gruppi in cui viene usato, mentre nell’universo giovanile può persino significare accettazione dello status quo purché ci sia droga a sufficienza, e nell’universo consumistico indica ormai tutto, dalla presentazione di un nuovo rasoio elettrico alle videocassette.
Una sorte non diversa ha assunto “democrazia”, e basti pensare a due espressioni come “convergenza democratica” e “protesta democratica”: nel primo caso sta parlando l’onorevole Moro, nel secondo è un articolo dell 'Unità su una sfilata frontista per il Cile. Tanto che si potrebbe indicare, come regola di disambiguazione, questo criterio: quando “democratico” o “democrazia” è accompagnato da un termine che suona inquietante per i borghesi è una categoria della sinistra (come in repubblica democratica, forte risposta democratica, pronta reazione democratica); quando invece è accompagnato da termini presi a prestito dal linguaggio tecnologico o dall’etica cattolica (come programma, ordine, solidarietà, vocazione) tutto ciò che è democratico è anche cristiano. Ma le regole contestuali sono molto più complesse e spesso il cittadino è indifeso di fronte a questi omonimi che sono sinonimi di troppe cose.
Al massimo può capire quando una espressione è sinonimo di “gli Altri” e cioè “i cattivi”: tale è il significato complessivo di espressioni come “revisionismo, frammentarismo, opportunismo, deviazionismo, pressappochismo, moderatismo, scissionismo, aperturismo, avventurismo, immobilismo, riformismo”. In tutti questi casi si può dire al cittadino smarrito di intendere “quelli che non la pensano come noi” e come primo orientamento è sicuro di non sbagliare.
Ma il sinonimo non trionfa solo in politica come strumento di copertura retorica. Imposto dalla società dei consumi, dalla divulgazione dissennata, dal linguaggio snobistico, esso è a disposizione dell’utente incauto come sinonimo illecito. Si veda quanto succede per la terminologia psichiatrica e psicanalitica entrata nell’uso comune: chiunque sia di malumore è un nevrotico, se non gli piacciono i fagioli ha un complesso, se non ha capito una cosa ha un blocco mentale, se l’ha capita e ci pensa sempre è paranoico, se cambia idea è schizofrenico, se è strambo è psicotico, se dice bugie è mitomane; sino al punto in cui viene usato come sinonimo l’antonimo, e cioè la parola di significato opposto, come accade a molti che per dire che qualcuno ha una passione per qualcosa dicono che “ha una fobìa per”.
Infine il linguaggio della cronaca giornalistica ci ha abituati a dei sinonimi che definiremo tuttofare. Ma più che sinonimi sono verbi o aggettivi sclerotizzati che aderiscono ad altri termini con tale passiva tenacia da aver perso ogni significato. Di questi aveva dato tempo fa un gustoso dizionarietto Cesare Garelli nel suo La burolingua quotidiana, il coltello da cucina usato per commettere il delitto sarà sempre “acuminato”, il discorso dell’uomo politico è “abile”, o “acuto” (il che vale anche per il saggio del “brillante sociologo” - dove sociologo è qualsiasi intellettuale non crociano); “arzillo” sarà sempre il vecchietto di cui si celebra l’avanzata età, “bianca coltre” la neve annunciata dai telegiornali, “brillante” l’operazione dei carabinieri, “delicato” l’intervento chirurgico, “squallido” il rapporto degli amanti suicidi, “esemplare” la sentenza, “in fase di avanzato approntamento” il disegno di legge, “ingenti” i danni, “innominabile” l’atto di un “turpe individuo”, “movimentato” l’inseguimento (talora anche “rocambolesco”). “Per cause non accertate” avvengono i tragici incidenti, al compier dei quali si offre agli occhi degli astanti un “raccapricciante spettacolo”, “rigoroso” è il riserbo degli inquirenti, “signore” è la persona con cui si polemizza, “spettacolare” l’incidente stradale che non dà luogo a raccapriccianti spettacoli, “stringente” l’interrogatorio, “valente” il giornalista la cui scomparsa provoca “profondo cordoglio” e che di solito ha contribuito a diffondere le espressioni appena elencate.
E che la lingua, nella sua duttilità e complessità, provvede soluzioni sia per chiarire un discorso che per occultare i fatti e complicare meglio un problema; e provvede anche sinonimi per evitare le espressioni sclerotizzate. E dunque che esistano sinonimi non è male: ma certo è male usarli senza chiarirne le implicazioni e peggio ancora è rimanerne vittima. Per cui, meglio di un dizionario dei sinonimi, sarebbe diffondere un dizionario degli antonimi, e cioè delle espressioni che significano ormai il loro contrario. Così che anche i bambini a scuola sappiano che se un giovane morto in guerra “si è offerto in olocausto”, ciò vuol dire che qualcun altro lo “ha sollevato dall’incarico” di vivente. E che lui non era d’accordo, ovvero che “non manifestava una assoluta identità di vedute” con gli stati maggiori.


In Dalla periferia dell'impero, La nave di Teseo, Milano, 2016 (prima edizione 1977)

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