La città di Treviso ha
voluto commemorare il sesto centenario della morte di Tomaso da
Modena, il grande pittore che a lungo visse entro le sue mura, con
due diverse manifestazioni: una mostra di opere (allestita nella
ex-chiesa di Santa Caterina e nel Capitolo dei domenicani di San
Nicolò, dove sono esposti anche codici miniati e documenti) e un
premio per un saggio storico-artistico. Quest’ultimo, promosso
dalla Associazione "Tarvisium”, ha avuto concorrenti italiani
e stranieri, ed è stato vinto dall’inglese Robert Gibbs,
dell’università di Glasgow. La sua monografia su Tomaso ne discute
la formazione entro l’ambito della Bologna del primo Trecento, ed
esamina con grande acume e ricchezza di informazioni la trama
iconologica degli affreschi "domenicani” nel Capitolo di San
Nicolò: c’è sinceramente da augurarsi che questo studio, dai
risultati nuovi e illuminanti, veda presto la luce a stampa. Quanto
alla mostra, essa è necessariamente limitata; musei e collezionisti
non sono più propensi come una volta al prestito dei fragili e
deperibili dipinti su tavola, tanto meno di quelli dovuti ad un
artista di estrema rarità. Ma tale lacuna non si fa sentire: bastano
gli affreschi del Capitolo di San Nicolò, quelli del ciclo di
Sant'Orsola (che la sistemazione nell’ex-chiesa di Santa Caterina
consente di leggere come mai prima d’ora) e gli altri, sparsi in
vari edifici sacri della città, a riconfermare l’eccezionale
statura dell’artista, e a riproporre una serie di quesiti circa il
significato del suo stile, specie in rapporto alla data e al luogo.
Oggi che la pittura del
Trecento bolognese è abbastanza nota nella sua consistenza e nel suo
svolgimento, Tomaso riesce ancor più sorprendente per la piena
ricchezza, esuberante di vitalità, delle sue immagini: al confronto,
i Bolognesi (da Vitale a Jacopino, Dalmasio e Simone) sembrano
appartenere ad un’altra dimensione sociale e storica, ad una fase
di remoti antefatti. Eppure, gli affreschi di Tomaso nel Capitolo di
San Nicolò sono del 1352, come dice l’iscrizione dedicatoria, e
quelli del ciclo di Sant’Orsola debbono essere nati (in base a
considerazioni di stile) circa un decennio più tardi: a chi conosce
la pittura dell’area veneto-padana questa situazione cronologica,
rapportata all'artista, è una sempre nuova fonte di sorpresa. Cosa
ha consentito a Tomaso di superare d’un colpo la tipologia,
strettamente allusiva, dei Bolognesi, spingendosi sino alla più
meticolosa specificazione fisionomica? Nella serie dei "Quaranta
personaggi illustri dell’Ordine Domenicano” nel Capitolo di
San Nicolò, la varietà dei tratti individuali è senza limiti, e
sostenuta da una scrupolosa osservazione dei moti di umore e di
tensione mentale: una curiosità ottica degna di un fisiologo. Quanto
poi alle varie scene del Ciclo di Sant’Orsola, un’esuberante
carica vitale, animata da una linfa densa di calore umano (e persino
spregiudicata nella sua vivacità) descrive fatti e personaggi, senza
scendere mai di tono, neppure nei passaggi secondari. Anche qui
l’inesauribile capacità di cogliere i caratteri individuali si
intreccia con una rosa di espressioni e di gesti di cui sarebbe vano
cercare i precedenti: come nel “Battesimo del Principe
d’Inghilterra”, con quel nudo (davvero tutto nudo) e, lì
accanto, il personaggio che, nello spogliarsi a sua volta, si è
impigliato la testa nel farsetto e nel divincolarsi scopre lo "slip”
da cui escono i peli del pube.
Che la nascita di un
repertorio visivo di tal fatta sia dovuta al genio di Tomaso è fuori
discussione. Ma il genio di un artista è in stretta connessione
(direi simbiosi) con le aspettative e le inclinazioni dei
committenti: la Musa dei Romantici ha oggi preso il nome di società.
Per comprendere l’arte di Tomaso è quindi indispensabile
considerare la situazione, a metà del Trecento, di Treviso, anche
nei confronti di Venezia e dell’area genericamente padana.
Un secolo addietro,
Treviso era stata coinvolta nelle lotte tra papato e impero, questo
nelle persone di Federico II e di Ezzelino da Romano. Precisamente,
Treviso si era trovata al margine di un territorio nel quale
(comprese le città di Vicenza e Verona) la tensione tra i due poteri
aveva toccato cime arroventate. Lo stesso Federico II aveva ben
compreso 1’ importanza, per i suoi fini, dell’area veneta,
concedendo in moglie ad Ezzelino la figlia naturale Selvaggia,
presenziando alle nozze e (quale simbolo vivente della maestà
imperiale) attraversando città e paesi del Veneto su di un trono
portato da un elefante. Morto Federico e crollato con lui (per nostra
disgrazia) il suo grande progetto, l'area in questione fu sùbito
sottoposta ad una riconquista da parte guelfa (alias clericale); ebbe
allora inizio quel processo che, molto prima della Controriforma, ha
trasformato il Veneto in una sorta di Vandea italiana. Nella
realizzazione di questi disegni, Treviso ebbe in sorte una posizione
privilegiata, al punto che i Domenicani (un ordine per il quale, come
si è detto, Tomaso eseguì uno dei suoi capolavori) l’avevano
scelta a sede della loro provincia della Lombardia Inferiore. La
piccola città aveva il vantaggio di essere priva della fluttuante e
poco controllabile popolazione studentesca di Padova, e, rispetto a
Vicenza e Verona, si trovava più vicina a Venezia, costituendo così
una punta avanzata verso il rigido laicismo del governo della
Serenissima. Nella città lagunare la separazione tra potere politico
e potere religioso era rigorosissima: tanto era il timore delle
ingerenze ecclesiastiche da vietare a sacerdoti e monaci l’accesso
alle cariche pubbliche, sino ad allontanare al grido di "Fuora
Papalisti” chiunque avesse parenti o amici negli Ordini, quando il
Gran Consiglio o il Senato discutevano affari relativi al clero. La
frattura nei confronti di Treviso risulta anche dai testi pittorici,
condotti secondo uno stile costantinopolitano, bizantino, quando
Tomaso aveva già dato prova, a breve distanza, del suo talento. Nel
1352 Paolo Veneziano era ancora operoso con la sua prolifica bottega,
e Venezia non si era minimamente accorta del personaggio, nel primo
decennio del secolo, di Giotto a Padova.
Ma nella geografia
cattolica del Trecento, Treviso era importante per un altro e più
rilevante dato di fatto: la sua posizione lungo la via di accesso che
dall’Istria e la Penisola Balcanica conduce alla Valle del Po, la
strada cioè per cui in vari tempi e in varie ondate era giunta
nell’Europa occidentale la più temibile delle eresie del periodo
che oggi chiamiamo Medioevo. Partito dalla Bulgaria, questo movimento
aveva conquistato buona parte della Bosnia e dell’Erzegovina; poi
era dilagato in Lombardia e nell'Italia centrale, giù sino
all’Umbria, per finire, attraverso la Provenza, a Tolosa e nella
Spagna settentrionale. Bulgari, Bogomil, Patarini, Catari, Albigesi
sono i nomi di volta in volta riferiti a questi lontani discendenti
dal manicheismo, per i quali il mondo era dominato da due forze
opposte, il Bene e il Male, al primo dei quali si ricollegava
l’Anima, al secondo il Corpo con la sua esperienza dei sensi. Le
terribili, sanguinose persecuzioni di cui essi furono oggetto da
parte della Chiesa cattolica (con la perdita dei testi sacri) sono la
causa dell'oscurità di cui è avvolta la loro dottrina, almeno nei
particolari; e della violenta campagna diffamatoria rivolta contro di
essi (accusati di immondi riti sessuali) resta traccia nel verbo
"buggerare”, che deriva da "bougre”, "bulgaro”,
e che nel suo pristino significato equivale a "inculare”.
Ma per tornare ai nostri
eretici, sappiamo che essi erano guidati da una sorta di clero, i
"perfetti”, uomini e donne dalla condotta irreprensibile: essi
dovevano evitare ogni contatto sessuale (emanazione di Satana), ed
attenersi ad una dieta dalla quale carne, latte, formaggi ed uova
erano esclusi, in quanto derivati dal coito. Solo il pesce era
ammesso alla loro tavola, perché si credeva che fosse un prodotto
naturale dell'acqua. Il sommo sacramento si chiamava "consolamentum”,
con il quale si diventava "perfetti”, e che veniva
somministrato anche agli ammalati in punto di morte: ma nel caso che
dopo averlo ricevuto l'ammalato fosse guarito, molto spesso, nel
timore di non essere in grado di adeguarsi al tipo di vita che esso
implicava (castità, digiuni e, una volta al mese, pubblica
autocritica e pubblica confessione dei peccati anche di pensiero)
egli ricorreva al suicidio spirituale, la cosiddetta "endura”.
Limitando il nutrimento alla sola acqua (in cui veniva sciolta una
puntina di miele) si provocava uno stato di progressivo deperimento,
lentissimo ma che conduceva alla morte: e sappiamo che intere
comunità, disperate di non poter raggiungere la suprema perfezione,
si autoeleminarono con questo sistema.
Pur basando la propria
dottrina su un sistema dualistico di Anima e Corpo, Spirito e
Materia, la Chiesa romana ha sempre guardato con sospetto e ostilità
ai movimenti che privilegiano il polo positivo del binomio sino ad
annullare l’altro. “Ora et labora” è il motto del monachesimo
occidentale, ben diverso da quello del cristianesimo d’oriente, con
i suoi eremiti rifugiati in grotte tra serpi e scorpioni, o bruciati
dal sole del deserto, oppure isolati in cima ad una colonna, comunque
in uno stato di perenne preghiera. Ai movimenti di sfrenato
ascetismo, o che hanno negato la validità dell’esperienza dei
sensi, oppure tesi al disfacimento corporeo al fine di raggiungere la
perfezione spirituale, la Chiesa ha sempre risposto con il
riaffermare la validità della vita, dell’identità corporea, del
rapporto tra individuo e mondo esterno grazie a vista, udito, tatto,
gusto e odorato.
Tra il 1600 e il 1610, la
reazione contro il calvinismo e i suoi derivati puritani prende
corpo, nel cattolicesimo, con le poppe e le cosce delle sante di
Pietro Paolo Rubens, poi con la carnalità di Gian Lorenzo Bernini,
con le cerimonie fulgide di colori, profumate di fiori e di incenso,
con le spericolate prospettive "barocche” che ornano le
chiese, scintillanti di marmi e metalli. Ora, il linguaggio
figurativo di Tomaso da Modena, così carnale e ricco di esperienze
visive, così vario di colore (e così remoto dal bizantinismo
simbolico che a Venezia, cioè a pochissima distanza, non aveva
alternativa di sorta) va considerato in rapporto alla locale vicenda
dei Catari. I quali, proprio nella Marca Trevigiana, avevano trovato
valido protettore in Federico II, nel suo vice, Ezzelino, e, sino al
1260, in Alberico da Romano; nessuna meraviglia, dunque, per
l’importanza attribuita dai Domenicani alla città di Treviso e per
la mobilitazione da essi promossa anche nel campo delle arti
figurative.
Del resto, un rapporto
del genere non era nuovo; c’è persino da chiedersi se una delle
spinte che provocarono la rivoluzione artistica che prese l’avvio
alla fine del Duecento tra Firenze e Roma (di cui il primo, grande
monumento sono gli affreschi della Basilica superiore di Assisi
attribuiti a Giotto) non sia stato proprio la diffusione del
movimento càtaro sino alle porte di Roma; intorno al 1250 una delle
più floride comunità si trovava a Val di Spoleto, cioè nella parte
bassa della città (quella oggi attigua alla chiesa di San Gregorio).
E già sin dai primi tempi della sua esistenza la Chiesa aveva dovuto
affrontare problemi del genere, risolvendoli in modo analogo. Così
avvenne con le sette gnostiche, prodotto del grande movimento
libertario che agitò l’Impero romano tra il 230 e il 280. Non
tutte queste sette erano approdate a vane discussioni teoriche e a
quisquilie persino grottesche: come i Valentiniani per i quali, a
causa della natura divina, al corpo di Gesù Cristo erano estranee le
funzioni del defecare e dell’orinare e, per gli stessi motivi, la
Santa Vergine non aveva mai avuto le mestruazioni. Una ricerca di
purezza assoluta, dunque: ma che i Barbe-lognóstici portavano
all’estremo, sino a toccare riti per i quali calza il detto messo
da Jorge Luis Borges in bocca ad uno dei suoi personaggi: «Specula
et copulationes sunt abominabilia, quia multiplicant homines»,
specchi e congiungimenti carnali sono cose abominevoli, perché
moltiplicano gli uomini. Nelle loro riunioni, dopo aver provocato
l’aborto di donne incinte, essi mangiavano il feto mescolandolo a
varie sostanze, imbrattandosi il volto di sperma umano. Come
negazione della vita non si potrebbe andare più oltre; ad essa la
Chiesa rispose adottando il repertorio formale dell’arte
contemporanea, che venne adattato a temi cristiani. E’ a questo
momento che appaiono i sarcofagi (e anche le statue) che
rappresentano, a tre dimensioni, Cristo, i fatti del Vangelo, la
Madonna, i Santi. Ma rispose anche con quegli straordinari festini
sacri che si svolgevano nelle chiese dedicate ai Martiri, con le
mense cariche di cibarie, vini, frutti, festini che, come si legge in
Sant’Agostino, davano luogo, anche entro le mura di San Pietro in
Vaticano, a sconce gazzarre di avvinazzati, con risse, canzoni
oscene, incontri di loschi personaggi. Festini che parrebbero
impensabili, e che furono aboliti quando il pericolo gnòstico
scomparve.
È possibile affermare
che ai nostri giorni sono scomparse le strutture mentali che
portarono ai Barbelognóstici o ai Catari? Lo stupefacente suicidio
collettivo del reverendo Jones e dei suoi seguaci nella giungla della
Guyana sta a provare tutto il contrario; solo che alla miscela di
acqua e miele dell’"endura” si è sostituito il cianuro di
potassio sciolto nell’aranciata marca Tropicana, e (per la
secolarizzazione dei temi mitologici) alla ricerca della Gerusalemme
celeste si è sostituita quella della Gerusalemme di marca terrestre,
identificata, dal reverendo Jones, nell’Unione Sovietica.
“L'Europeo”, 4
ottobre 1979
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