18.9.17

America, l'impero lungo un secolo. E oltre (Bernardo Valli)

Un ritaglio i cui contenuti andrebbero aggiornati all'era di Trump, ma che trovo stimolante anche a 10 anni di distanza e di cui consiglio la lettura per gli spunti analitici che propone e gli scenari che prospetta. (S.L.L.)

Che età ha l'impero americano? Una ricorrenza importante è sfuggita nove anni fa all'utile, educativa attenzione riservata agli anniversari, grandi e piccoli, che consentono di risfogliare la storia, sia pure in modo sbrigativo. Mi riferisco al centenario dell'irruzione degli Stati Uniti sulla scena mondiale, come potenza imperiale, avvenuta nel 1898, in occasione della guerra contro la Spagna. Guerra che ha portato i soldati americani fuori dai confini, dai Caraibi (Cuba) al Pacifico (Filippine). La rievocazione serve a misurare i tempi e sollecita interrogativi sulla natura del nostro secolo, appena cominciato. Nella nostra comoda, confortevole, frustrante decadenza, noi europei siamo curiosi. Tentare una lettura dell´avvenire attraverso la lente della storia è un esercizio periglioso. Azzardato. Lo so.
Se si considera il 1898 come la sua data di nascita, l´impero americano figura già per la durata nei primi ranghi. L'anno prossimo compirà il centodecimo compleanno, anche se si è manifestato in tutta la sua potenza molto dopo. Sul piano militare, durante la Grande Guerra (‘14-‘18) è intervenuto per la prima volta in Europa determinando o affrettando la sconfitta della Germania guglielmina, ma sul piano economico superava la Gran Bretagna dalla fine dell'Ottocento. Certo, se guardiamo i grandi imperi del passato, partendo dalla sconfitta definitiva di Cartagine all'inizio delle invasioni barbariche, quello romano è durato cinque secoli. L'impero spagnolo secondo gli storici almeno un secolo e mezzo, tra il ‘500 e il ‘600. Quello britannico più o meno altrettanto, dalla seconda metà del ‘700 alla Prima guerra mondiale, quando è cominciato il suo declino. La dissoluzione è stata più tardiva, tra il 1947 e il 1960. Le date della storia non rientrano nella matematica.
Durata a parte, a un europeo non può sfuggire la singolarità della potenza americana. In Occidente soltanto l'impero romano (secondo François Heisbourg, che, dall'International Institute for Strategic Studies di Londra, misura «lo spessore del mondo», come dice il titolo di un suo saggio) ha esercitato una potenza e un'influenza tanto forti, sia pure in un'area geografica più limitata. La singolarità degli Stati Uniti risiede nel fatto che, a differenza dei grandi predecessori, compreso quello romano, essi non hanno rivali in grado di affrontarli e strappare loro il primato. Possono essere contestati. Lo sono stati e lo sono. Possono anche essere sconfitti. Ma in casi specifici e in aree e tempi limitati. Nonostante questa supremazia, ci si può chiedere se anche il nuovo secolo, in cui siamo appena entrati, sia destinato ad essere americano. Non parlo di declino della potenza americana. L'interrogativo riguarda unicamente la capacità dell'egemonia americana di strutturare il sistema internazionale, come è accaduto negli ultimi decenni. Il presente ci induce a dubitare.
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Prima del 1898 l´americano era agli occhi europei molto simile ai personaggi dei romanzi di Henry James. Approdati sul Vecchio Continente in pieno Ottocento, quei personaggi sono i figli di vasti spazi vergini capitati su una terra satura di storia. La loro grande letteratura si muove in spazi immensi e vuoti (Moby Dick di Melville), non nei labirinti urbani popolari e borghesi (di Balzac e di Dickens). Attraversato l'Atlantico e inoltratisi in questi labirinti, gli americani di James, perlomeno quelli dei primi romanzi, sono degli ingenui sbarcati in una società sofisticata. Sono i prodotti della coscienza protestante smarriti in un cattolicesimo enigmatico e inquietante. Al contrario degli europei eredi dei patrimoni familiari, sono gli eredi di quel che hanno realizzato come individui. Si sono fatti da soli e ne sono fieri. Si aggirano nei musei cercando con candore di farsi raccontare dai dipinti appesi alle pareti l'Europa che vogliono scoprire a loro volta, come Colombo ha fatto con l'America.
Christopher Newman, l'impacciato eroe di L'Americano, è la trasparente allegoria di quel candore. Il paragone di James tra le due sponde dell´Atlantico (dice con ragione Mona Ozouf in un saggio sui «poteri del romanzo») riguarda più le coscienze morali che le società. Per lui, in un americano l'arditezza dei toni e la negligenza formale si accompagnano al rigore etico. Invece nell'europeo, agli occhi di un americano dell'epoca, la forma prevale su tutto il resto e nasconde il vizio, il gusto del piacere. L'uso del denaro, per l'europeo cattolico fonte di peccato, è per l'americano protestante un importante, decisivo capitolo della severa morale predicata dai padri fondatori del mercato sovrano.
Nel frattempo si sono consumati due secoli: si è consumato l'Ottocento europeo, già sulla soglia del declino quando Henry James, americano ritornato alle origini europee, scriveva i suoi primi romanzi; e si è consumato il Novecento americano, durante il quale gli spontanei personaggi di Henry James sono diventati i protagonisti di una storia imperiale. Di tragedia in tragedia, tra conflitti e ricostruzioni, tra rivoluzioni e restaurazioni, gli europei hanno perduto potere e influenza sul resto del mondo, e hanno acquisito benessere e libertà individuali senza precedenti, grazie all'America che li ha affrancati dalle ideologie liberticide e che al tempo stesso li ha detronizzati, meglio confinati in una dignitosa, benestante periferia. Noi europei occidentali viviamo una pace di cui non troviamo esempi, per quanto riguarda la durata, nel nostro passato moderno. Una pace accompagnata da una sussiegosa saggezza. Una saggezza esemplare anche perché alleggerita dalle responsabilità imperiali. L'Asia sta per superarci. Lo storico sorpasso, almeno per alcuni aspetti, è già avvenuto. Persino l'impero americano, impegnato altrove, segue con uno sguardo spesso distratto le vicende della terra da cui sono arrivati i suoi antenati e in cui venivano in pellegrinaggio i personaggi di Henry James. Quest'ultimo stenterebbe a riconoscere i pronipoti di Christopher Newman, milionario (in dollari del suo tempo) grazie a una fabbrica di wc.
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Se è vero che la televisione non si accontenta di riflettere la realtà, ma la crea, Sidney Bristow, l'eroina di Alias, famosa e ormai vecchia serie televisiva di ABC, è l´immagine romanzata dell'America d'oggi (dicono Merryl Wyn Davies e Ziauddin Sardar in Why Do People Hate America?). Sidney, come l´America, ha una doppia personalità. È l'innocenza e la virtù incarnate. È una ragazza ansiosa e non troppo sicura di sé, che lavora con accanimento per superare gli esami universitari, consola l'amica innamorata e infelice, piange il fidanzato scomparso, rimprovera il padre negligente, si interroga sulla madre nevrotica, compie continue introspezioni nel tentativo di capirsi. Ma quando è in missione (come agente doppio della Cia e di un'organizzazione nemica dell'America che cerca di sconfiggere) Sidney si trasforma in una macchina di guerra. Aiutata da una tecnologia avanzatissima, si batte con la tenacia di Terminator, distribuisce calci che raggiungono le ganasce degli avversari, salta da un grattacielo all´altro e non si arrende neppure quando dei torturatori viziosi le strappano un molare con una pinza.
Supera tutti gli ostacoli, rischia la vita, con un'assoluta fiducia in se stessa e una professionalità ineccepibile.
Per Alias l'America è il mondo. In un episodio l'azione si sposta in un batter di ciglio da Los Angeles al Cairo o a Mosca o a Roma o a Oxford o in Toscana o a Sao Paolo o a Ginevra o a Madrid. Passa da un ospedale psichiatrico rumeno a un deserto argentino. E ritorna puntuale a Los Angeles. Il resto del mondo è la veranda dell'America. Quel che Alias mostra con tanta sicurezza (dicono sempre Ziauddin Sardar e Merryl Wyn Davis) non è tanto che l'America vuole governare il mondo, ma che lo governa già. Stati-nazione, frontiere geografiche, strutture politiche sono ostacoli che l'acrobatica, sentimentale, audace, spietata e innocente Sidney, pronipote dell'impacciato Americano di James, scavalca con disinvoltura. Come se si muovesse nel cortile sotto casa.
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Un europeo dice: l'impero americano. Uso anch'io con generosità l'espressione. Ma per l'eroina di Alias l'idea di impero implica, non del tutto a torto, l'esistenza di territori (colonie) in cui le popolazioni sono costrette a sottomettersi. Un impero si appropria con la forza dei mercati di paesi lontani, dove impone al tempo stesso una legge diversa, più ingiusta di quella in vigore nella metropoli. Oggi il pianeta assomiglia invece, per Sidney, a un prolungamento della società americana in cui individui e comunità accettano sempre di più i suoi valori (che sono universali), la sua cultura, i suoi costumi. Dal sistema democratico, sia esso formale o reale, alla lingua, dai blue jeans agli hamburger, dalla musica all'architettura, dalla tecnologia a tutti i campi della scienza. Per Sidney l'America è il mondo e quindi gli interessi dell'America sono quelli del mondo. Coloro che si oppongono a questi interessi sono dei fuori legge. Sono i barbari della nostra epoca.
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Sidney è allineata sui neoconservatori? La storia dell'idealismo americano supera di gran lunga quella degli intellettuali e dei politici che hanno influenzato l'amministrazione di Bush junior.
Conversando con il romanziere europeo Marc Weitzmann, il professor Stephen Kotkin, insegnante a Princeton, spiega cosi quell'idealismo: «È un'impulsione missionaria, un desiderio di convertire il mondo a quello che, noi americani, siamo».
Aggiunge: «È un sentimento molto profondo. È la base della nostra identità. Non ci sentiamo a nostro agio quando la gente non vive come noi. È una febbre. Il realismo è la medicina per combattere questa febbre, ma in America la febbre è uno stato normale». Agli orecchi europei queste parole possono ricordare quelle dei missionari che accompagnavano le conquiste coloniali. Ma siamo lontani da quei tempi, e, almeno per alcuni non trascurabili aspetti, da quello spirito.
L'impero americano si basa sulla potenza ma anche sull'influenza. E quest'ultima occupa molto spazio quando si misura l'egemonia americana. Il soft power (come Joseph S. Nye j. chiama l'influenza, distinguendola dalla «potenza dura») ha le sue radici nel progetto ideologico, politico e religioso, da cui sono nati gli Stati Uniti. Un progetto originale in cui noi europei ritroviamo il nostro umanesimo, ma corroborato da un pionierismo al tempo stesso religioso e mercantile; i lampi dell'illuminismo e un impegno militante protestante; il rifiuto del colonialismo, derivato anche dalla condizione coloniale da cui gli Stati Uniti si sono emancipati; e al tempo stesso la necessità di colonizzare uno spazio occupato da altri, per realizzarvi la società ideale.
Non pretendo che questo cocktail, tanto promettente quanto ricco di contraddizioni come tutto quello che nasce dalle menti più fervide, riassuma quello che c'è o c'è stato alla base della nazione americana. Ma noi europei ne scorgiamo le tracce nei personaggi di James e di Alias. Tracce appena velate o deformate dal tempo trascorso tra gli uni e gli altri. E naturalmente le ritroviamo nei libri di storia, in cui è chiaro come il messianismo, frutto di quel cocktail, si sia manifestato sulla scena mondiale a partire dall´ultimo Ottocento. Sempre la storia e la cronaca che non è ancora storia ci dicono che gli slanci messianici non hanno sempre rispettato i valori cui si ispiravano. E´ il meno che si possa dire. Quegli slanci hanno ricalcato a volte l´imperialismo europeo; nelle fasi isolazionistiche si sono rivolti e spenti all´interno della società americana; hanno contribuito in modo determinante al funzionamento del sistema-mondo. Ci sono stati momenti (riassumibili in tre esempi, di diversa importanza ma con valore morale molto simile: Hiroshima, My Lai e Abu Ghraib) in cui il raggiungimento degli obiettivi ha fatto smarrire il senso della misura e dell´onore. Ma tutti quegli smarrimenti hanno provocato dibattiti, ripensamenti, condanne, mea culpa, che sarebbe disonesto non ricondurre all´idealismo americano originale. Assai più candido, spesso più autentico di quello europeo, reso più perverso nelle epoche imperiali dalla lunga storia.
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Di tutto questo noi europei teniamo conto quando ci interroghiamo sulla nostra posizione rispetto all'impero americano. Ne facciamo parte, come un frammento magari periferico dell'Occidente, come un alleato naturale, come una mano o un piede, o le estremità dell'uno o dell'altro, appartengono a un corpo umano? Sidney, l'eroina di Alias, risponderebbe con un «sì» netto. Ma la sua affermazione risulterebbe troppo categorica. Troppo imperiosa.
Decreterebbe di fatto una dipendenza. Christopher Newman, l'ottocentesco americano di Henry James, sarebbe meno categorico e più rispettoso, più comprensivo. Certo, lui appartiene all'epoca preimperiale. Il suo idealismo non è ancora contaminato. È meno pervertito. Ma la Costituzione americana del suo tempo è anche quella di oggi. È la stessa che elenca i valori cui si ispira ufficialmente l´America di George W. Bush.
E l'America dei nostri giorni si è caratterizzata più con l'uso della forza pura che con l'influenza nel rapporto di forza con il resto del mondo. La prima (hard power) ha appannato, se non proprio cancellato, la seconda (soft power). Agli occhi di molti europei, con Bush j. gli Stati Uniti si sono allontanati dal principio secondo il quale il loro progetto imperiale, basato su valori universali, non può affidarsi alla sola potenza. Questa egemonia unipolare ha dato risultati catastrofici ed ora è sempre più contestata dagli stessi americani. Allo stadio attuale gli Stati Uniti conservano il primato, ma la loro capacità di contenere il disordine mondiale non è più la stessa. La loro influenza ha perduto peso.
Minimizzando, si può dire che l´Iraq sia, sul piano militare, soltanto un incidente. È stata un'imprudenza impegnarsi in una guerra asimettrica, in cui la superiorità di un esercito classico, con tecnologie avanzate, viene quasi annullata. Ma, sempre sul piano militare, è un caso specifico in un'area limitata. È chiaro quel che l'ottantenne Andrew Marshall risponde al visitatore europeo (lo scrittore Marc Weitzmann) che gli chiede: «Cosa pensa di Bagdad?» Marshall, fu uno degli autori del programma della «guerra stellare», ai tempi di Reagan, e lavora con qualche interruzione, al Pentagono, dal 1949. È amico intimo, e condivide le idee, di Herman Kahn, che servì da modello a Stanley Kubrick per Il dottor Stranamore. Ebbene Marshall risponde che non guarda troppo da vicino quel che accade in Iraq. Lui è impegnato in cose più serie. Sta pianificando «la prossima guerra con la Cina, tra una ventina d´anni, sotto l'acqua o nello spazio». L'Iraq è dunque un incidente con non gravi conseguenze militari. Ma è stato un enorme, forse irreparabile errore politico. Ha dimostrato che neppure una superpotenza, al momento senza seri concorrenti, può gestire il mondo da sola. Non ne sembra più capace. E il secolo è appena cominciato.


“la Repubblica”, 23 marzo 2007

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