19.9.17

Contro D'Alema. O in difesa di D'Alema, se preferite. (S.L.L.)

D'Alema, segretario dei Ds, alla caduta di Prodi dovuta all'avventurismo di Bertinotti, quella del 1998, avrebbe potuto, forse dovuto, chiedere per conto del suo partito, le elezioni anticipate. Tutti gli osservatori peraltro prospettavano una vittoria netta della coalizione di centrosinistra. Ma si lasciò tentare dalle sirene. Cossiga gli disse: “Se vai tu al governo, te la garantisco io la maggioranza”. D'Alema disse sì e Cossiga gli portò in dote i voti dei mastelliani, degli amici di Buttiglione e di qualche suo amico personale. Facevano maggioranza e il leader Massimo fu contento di mettersi alla prova, avendo una grande fiducia nelle sue doti di statista. Qualcuno ipotizzò che avesse organizzato lui la caduta del precedente governo e s'inventò un neologismo, “dalemone”, con il significato di tiro mancino. A questa storia molti, tra cui Prodi, non hanno mai creduto e più tempo passa sempre meno appare credibile.
D'Alema, da capo del governo, si prestò surrettiziamente alla guerra contro la Serbia voluta dagli USA; si mise l'elmetto e offrì le basi per i bombardieri. Fu da molti criticato, anche tra i Ds.
D'Alema, da capo del governo, disse: "Alle aziende che aumentano il personale passando da 15 o meno di 15, a più di 15 dipendenti, si può consentire una deroga dall'articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori". Era quello che prevedeva il reintegro del lavoratore licenziato senza giusta causa o giustificato motivo. Cofferati, segretario della Cgil si oppose senza se e senza ma: ricordò il valore storico di quella tutela e indicò il grave rischio che si correva nell'aprire una maglia.
D'Alema, da segretario Ds prima e da capo del governo dopo, non esitò a schierarsi esplicitamente con Colaninno e gli altri "capitani coraggiosi" che avevano comprato a ottimo prezzo la società telefonica di stato nelle privatizzazioni di Ciampi.
Più tardi D'Alema, non più al governo, ma presidente dell'assemblea nazionale Ds, con l'allora fido Latorre, incoraggiò il tentativo dell'Unipol, la società di assicurazioni del movimento cooperativo, di conquistare, anche con alleanze spregiudicate (i “furbetti del quartierino” di certe intercettazioni), il pacchetto di maggioranza della BNL.

Non pochi dei suoi vecchi compagni, intanto, si erano sdraiati sulle posizioni della sinistra liberale, filocapitalistica, e non avevano da ridire su queste scelte, ma c'era tra loro chi, avendo D'Alema in antipatia, godeva delle sue difficoltà e magre figure.
Tutte queste scelte, e altre, furono però considerate esecrabili dentro e fuori il suo partito, da quei vecchi compagni che continuavano a richiamarsi alla sinistra classista (imperniata sul lavoro subordinato, sul movimento operaio e contadino) e alla tradizione socialcomunista. Ho quasi sempre condiviso l'esecrazione, ma oggi mi pare giusto sottolineare che le prese di posizione o gli atti di D'Alema, per quanto criticabili, comunque rientravano tutti nella prassi della tradizionale sinistra del lavoro.
Gli accordi con le imprese capitalistiche nel corso del 900, per esempio non li avevano fatto solo i sindacati, ma anche i partiti “operai” (così venivano chiamati), soprattutto quando assumevano una funzione di governo nazionale o locale. L'accordo proposto nel 1999 da D'Alema sull'articolo 18 sembrò a molti un cedimento alle pressioni del padronato che chiedeva “mano libera” sulla forza lavoro. Forse era un giudizio ingeneroso, in ogni caso fece bene Cofferati ad opporsi.
Va comunque detto che il metodo (e anche il merito) di quella proposta risulta affatto diverso da quello del cosiddetto Jobs Act. D'alema la fa in quanto rappresentante politico del mondo del lavoro, in quella veste vorrebbe trattare col padronato; la ritira subito di fronte al netto rifiuto del maggiore sindacato. Il Jobs Act, invece, si inserisce, a voler essere benevoli, nella tradizione cristiano-sociale, interclassista, ma viene approvato con un piglio decisionista che è più caratteristico della destra conservatrice (della Thatcher, per intenderci): il governo Renzi parla in nome dell'interesse generale, ma in realtà assume come dogma i principi di un liberismo temperato e come referente sociale l'imprenditore capitalista. Per i governativi è costui a creare ricchezza e benessere diffuso (altro che sfruttamento!); il lavoro al contrario è ridotto a mero strumento di produzione a cui offrire qualche tutela se necessario, ma non è soggetto principale dell'economia e grande risorsa politica come nella tradizione socialista. La libertà di licenziamento, in questa luce, è la ratifica della restaurazione padronale nei luoghi di lavoro, una bandiera ideologica che accompagna il puntuale fiancheggiamento, anche mediatico, della FIAT nella sua guerra contro il sindacato dell'autonomia dei lavoratori e della tradizione socialcomunista.
D'Alema insomma cerca il consenso della sua parte, mentre Renzi sta dall'altra parte, con i padroni contro la Cgil, e con essa cerca pervicacemente la rottura e lo scontro.
Quanto alla infausta pagina dei “capitani coraggiosi” D'Alema agisce con la stessa logica di Mitterand, di Craxi, di Papandreu, di González, dei “socialisti mediterranei” di un quindicennio prima. Tutti costoro, per spezzare il predominio delle vecchie oligarchie nel sistema finanziario ed economico, avevano favorito l'emergere e l'affermarsi di capitalisti “amici” in grado di controbilanciare i poteri consolidati. I risultati erano stati fallimentari: i nuovi capitalisti non erano migliori dei vecchi e le politiche da comitato d'affari avevano innescato processi di corruzione nel ceto politico socialista.
Quanto alla questione della Banca conquistata (e poi persa) da Consorte per Unipol, l'aiuto fornito da D'Alema e dal suo partito, appare del tutto in linea con la tradizione delle socialdemocrazie nordiche, ove sindacati e/o cooperative gestiscono istituti di credito a sostegno delle imprese cooperative, delle iniziative mutualistiche e degli stessi partiti operai. Si possono giudicare di pessimo gusto certe manifestazioni di gioia registrate nelle intercettazioni telefoniche, si può diffidare delle commistioni politica-economia, si può trovare sconcia l'alleanza con speculatori e finanzieri d'assalto, ma non imputare a D'Alema, come se fosse una novità da lui introdotta, il fatto che imprese e banche facciano capo al movimento operaio. I partiti socialisti del resto sono nati spesso con l'obiettivo dichiarato di mettere le mani nel sistema economico, di togliere alla borghesia capitalistica e affidare ai lavoratori e alla loro gestione solidale i mezzi di produzione e di scambio.
Neanche il supporto offerto da D'Alema agli USA per i bombardamenti a Belgrado al tempo del suo premierato può stupire. Accanto alle componenti pacifiste e neutraliste c'è sempre stata nelle socialdemocrazie una forte tendenza all'interventismo militare, spesso supportato da argomentazioni democratico-umanitarie. L'appoggio alla guerra USA nella ex Yugoslavia aveva anche motivazioni meno nobili. In quanto ex-comunisti approdati all'Internazionale socialista, per superare ogni diffidenza, i Ds volevano dimostrarsi più filoamericani di tutti gli altri ogni volta che si poteva.
In sintesi, anche nelle scelte più criticate e discutibili, D'Alema non è passato – come è accaduto ad altri - nel campo di quelli che una volta si chiamavano “partiti borghesi”, piuttosto s'è comportato come un socialdemocratico destrorso, in linea con quella tradizione. Non è stato neanche quel furbone tattico che si racconta: si è mosso malissimo anche negli ambiti in cui si riteneva fortissimo, quelli della manovra interna al partito.

Si parla spesso del cattivo carattere di D'Alema, della sua spocchia, della sicumera; a me sembra che sia soprattutto la cultura politica la matrice dei suoi insuccessi e che essa sia inadeguata alla ricostruzione, dopo la sconfitta novecentesca, di una sinistra ampia, classista ed ugualitaria. Basta ricordare il suo politicismo verticista, la mancanza di qualsiasi interesse per il femminismo, per le questioni ambientali, per i temi della comunicazione. 
La tradizione socialcomunista dell'Otto e del Novecento ha dato molto ai processi di emancipazione e di liberazione di popoli, classi sociali, gruppi, individui, c'è ancora tanto da prendere da essa, ma, dopo la fine ingloriosa dell'Urss e le rivoluzioni tecnologiche e produttive degli ultimi decenni, c'è molto da innovare per combattere efficacemente le nuove e gravi disuguaglianze sociali, le nuove forme di oppressione e sfruttamento. A sentirlo parlare oggi, a fronte dei politicanti rozzi e incolti di cui è piena l'Italia, D'Alema sembra uno che ha visione, spessore, genio. Ma non è così: le cose convincenti che dice sono solo di buon senso e il buon senso è utile ma non basta. 
Non solo D'Alema è vecchio e inadeguato, ma anche noi che ne abbiamo combattuto le scelte. Quando – ed è bene che accada il prima possibile – si andrà a Genova o da qualche altra parte, a rifare il partito del socialismo largo, a tutti aperto, è bene che D'Alema ci sia con tanti altri compagni che hanno sbagliato con lui o contro di lui, ma io spero che sia una leva di dirigenti giovani, possibilmente estranei alle pratiche non esaltanti della sinistra e del centrosinistra nella cosiddetta “seconda repubblica”, a guidare la rinascita.

Nessun commento:

Posta un commento