Nell'ormai lontano 1990
uscirono per l'editore Rusconi, in due corposi volumi, le Prediche
volgari sul Capo di Siena, 1427
di Bernardino da Siena. Non si trattava soltanto del testo di quelle
prediche, ma di una sorta di verbale, di resoconto, opera di uno
spettatore entusiasta che prendeva appunti su tavolette di cera e
poi, giunto a casa, trascriveva sul foglio non solo le parole, ma i
gesti, le interruzioni, le trovate sceniche. La recensione che segue
ottimamente riferisce e criticamente esamina i contenuti di quella
trascrizione e giunge alla conclusione che la figura di San
Bernardino è degna di figurare non solo nelle storie letterarie, ma
anche in quelle del teatro. Va aggiunto che le geniali invenzioni del
francescano, fonte importante per l'ininterrotta costruzione della
sua sacra rappresentazione da parte del premio Nobel Dario Fo, lo
divennero anche di più dopo la pubblicazione delle prediche senesi
del 1427. (S.L.L.)
Doveva essere fascinoso e
terribile durante l'agosto 1427, sulla piazza del campo a Siena,
frate Bernardino con la sua tonaca scura, il dito levato in un gesto
che immaginiamo per i predicatori d'ogni tempo, quello fissato
indelebilmente da Manzoni nel sacro furore di fra Cristoforo. E
mentre invocava su eretici e streghe, fossero pure suoi parenti
stretti, il fuoco dell’inferno, e magari di qualche rogo più
materiale, la sua voce doveva essere forte, metallica, melliflua,
sirénica, mobilissima, capace di aggredire e di persuadere,
attraversando l’intera gamma dell’espressività umana, animale,
perfino naturale: doveva saper gridare e gorgogliare, gracchiare come
il corvo e squillare come la tromba, gracidare come la ranocchia e
ronzare come il moscone, mormorare come il fiume o fremere come le
fronde.
Una piazza come
palcoscenico
Doveva essere uno
spettacolo strepitoso, ipnotico: e un poco anche corrusco. Seducente,
comunque. Quell’uomo solo, sul palcoscenico di un teatro che lo
splendore della grande piazza dagli angoli smussati, edificata a
imitazione del mantello della Madonna, rendeva ancor più allegorico,
pareva voler affrontare nel suo discorso tutti i temi della
predicazione tradizionale, così cara alla famiglia francescana
dell’Osservanza, rimasta fedele al modello dell’antico fondatore.
Parlava di vizi abissali e di serafiche virtù: opponeva le forme
d’una sacralità astratta e geometrizzante, sublimata oltre il
cielo dantesco delle stelle fisse, alla concretissima, quotidiana
carnalità delle tentazioni e delle cadute: era teologo e filosofo,
citava le fonti autorizzate, infarciva il discorso con i versi dei
grandi poeti volgari ai quali la gente s’era ormai affezionata,
grazie anche ai predicatori mendicanti. Poi, con straodinario
mutamento del punto di vista, cambiava tono, passava al dialetto o al
gergo degli operai e dei popolani, ricorreva alle frasi fatte, ai
luoghi comuni in cui potesse riconoscersi il buon borghese dai
costumi morali.
Voci dall’anima e
dal corpo
Prendeva a colloquiare
con un personaggio inventato, che interpellava con il «tu»; lo
disegnava lì accanto, sull’ambone; gli prestava le battute,
facendone una spalla perfetta, quasi l’emblema dell’ascoltatore
idealizzato, e insomma l’astrazione di «tutto il pubblico
potenziale e reale» identificato e coinvolto nel teatrino allegorico
della piazza. Teatro mentale, incardinato completamente su quel
caleidoscopio sintattico, su quel movimento prospettico della lingua.
E chissà: forse a quella spalla immaginaria, come ogni grande
attore, offriva anche la voce, una delle molte sue voci, facendolo
parlare con timbri e toni nuovi, fino ad ingannare gli astanti con
l’illusione di stare partecipando a un vero dialogo. Era la
prestidigitazione di un coinvolgimento totale: anima e corpo, occhi
ed orecchie, e lingua.
La trascrizione puntale
ed esatta di quel miracolo di rappresentazione totale è stata
fermata, dapprima sul posto, mediante tavolette di cera, quindi, una
volta tornato «alla sua buttiga», attraverso una controllata
trascrizione «in foglio», da un «Benedetto di maestro Bartolomeo
cittadino di Siena, (...) cimatore di panni». Abbiamo così,
eccezionale documento di pura oralità inchiodato alla testimonianza
in diretta di «uno del pubblico», l’effetto realistico della voce
che tuona dal pulpito, e dell’ascolto appena leggermente
smaliziato, quasi di un antropologo sul terreno, consapevole della
funzione prestigiosa che sta assumendo di fronte ai posteri.
Benedetto «cimatore di
panni», fiero del ruolo di stenografo di un grandissimo oratore
sacro, conserva con maniacale attenzione le sfumature del dettato,
l’inclinazione dialogica e gestuale di quelle prediche
perfettamente fabbricate, secondo un’architettura equilibrata e una
dinamica misurata con il bilancino.
Quelli che i linguisti
definiscono tratti soprasegmentali, marche prosodiche, fonetismi
mimici, elementi tipici della funzione fatica e conativa del
discorso, sono stati puntigliosamente riconosciuti e inscritti nel
codice testuale dal coscienzioso tachigrafo Benedetto, registratore,
nella sua reportatio, di una delle più coinvolgenti
esperienze del suo tempo, a mezza strada fra la concione politica,
l'esortazione moralistica, la messa in scena spettacolare. Sentiamo
le cadenze locutorie miranti a trascinare al riso o allo stupore
(«Siiii-Perchéeee?»), i lazzi espressivistici («E, E, Effe, non
che e, e...»), le sonore onomatopee che certo venivano accompagnate
da un gran gesticolare di mani e di braccia e di testa («L’angiolo
sicondo si pose la tromba a boca, tpu, tpu, tpu...»); vediamo con
gli stessi occhi della mente di chi era in piazza, quell’agosto del
1427, la mimica dello stile che lo sguardo, i muscoli facciali e il
tono della voce dovevano replicare efficacemente («Hai tu veduto
quando uno è turbato cor un altro? Sai come elli se li dimostra?
Elli se li dimostra col grugno. Vedi: così...»).
Lo scopo è edificante:
difatti, alla lettera, Bernardino intende trascinare l’ascoltatore,
fargli sentire «a parola a parola come l’edifìzio si fa e viene
crescendo a poco a poco», nel parlare «largo e aperto», e comunque
sempre «chiarozo chiarozo». E a questo fine tutti gli strumenti
comunicativi sono utili: i modelli sintattici disponibili
all’ellissi, al discorso indiretto libero, agli anacoluti, allo
stile nominale, allo spregiudicato e complice plurilinguismo (sia pur
ridotto rispetto a quanto avverrà nelle più tarde prediche
«mescidate», che Lucia Lazzerini ha studiato con originalità e
acribia).
In qualche modo,
Bernardino precorre le tecniche della comunicazione di massa, le
plasma, le codifica, le applica con duttile versatilità a proprio
vantaggio, non esitando a introdurre il formulario dell’oralità
«diretta» nel ritmo del discorso indiretto: invita il pubblico a
seguirlo nelle circonvoluzioni del pensiero («Volta mano!...»), a
lasciare la piazza («Ora a casa!...»), a dar credito
d’autorevolezza alla sua parola, accompagnando idealmente i
percorsi della sua rappresentazione linguistica («Chi è uso a
Vinegia? Ecci niuno chi vi sia stato? Lui sa se dico il vero o
no...»). Accende exempla narrativi, incastonandoli nel corpo
di severi ammonimenti parenetici («O fanciulli, fanciulli: qual è
quella cosa che sta nell’acqua e non si molla? Noi sai? È il sole.
Così dico a te: come vedi il sole che va sopra all’acqua e sopra
el fango, e non s’imbratta, così fai tu...»); inventa magnifiche
favolette, magari prendendo spunto da un nome fantasma che doveva
esser celebre, e che si scopre derivato dal fraintendimento di
qualche glossa dell’esecuzione testamentaria (« ’Or qui sta il
ponto!’ disse Lippo Topi...»).
La lingua di Bernardino è
sapidissima e insieme tutt’altro che casuale: è calibrata,
avvertita nel ricorso ai neologismi, alle forme stilistiche più
preziose. Si scoprono efficaci invenzioni («operale», «rincagnato»,
«sgrifalare», «bàdolo», «oparazzo»...), ed anche prime
attestazioni di termini poi entrati in uso corrente, ma che dovevano
essere già noti al pubblico, e che sono scelti, con tutta evidenza,
per produrre sugli interessati un effetto di shock e di cooptazione.
L’equilibrio sintattico
è ottenuto mediante oculati ricorsi alle rime in prosa; per
sottolineare l’enfasi anziché il superlativo si utilizza
l’interazione dell’aggettivo; si imbastiscono strutture
parallelistiche anche complesse, per bilanciare lunghe descrizioni
che deformano verso l’ellissi il flusso sintattico. Alla base di
questo miracolo della comunicazione pubblica Bernardino pone una
matura, intelligente drammaturgia della parola, una strategia
allocutiva sofisticata da
recuperare funzionalmente nel proprio testo scenico, verbalizzandolo,
ogni tratto mareriale, comportamentale, ambientale, perfino le
più banali distrazioni: una mosca che svolazza intorno al suo naso,
un cane che attraversa la piazza, le donnette che disturbano
chiacchierando o che s’allontanano per sbrigare le faccende.
Per un uditorio
borghese
Le sue smorfie, gli
sbalzi vocali, la gestualità che s’intuisce altrettanto ricca e
screziata quanto la variatici dello stile discorsivo, sono, sotto la
pelle di queste prediche-fiume, i tratti giullareschi di una
consapevole accettazione del modello di performance più adeguato
alle nuove esigenze del pubblico misto delle nuove città borghesi.
Così come Lucia Lazzerini studiò le affinità fra l’eclettismo
dei predicatori «barlettizzanti», cioè maccheronici, e quello di
certi umanisti anticiceroniani, «irregolari» e oltranzosi, quali
Filippo Bernaldo il giovane, allo stesso modo nella sua intelligente
e informatissima introduzione, nelle note ormai imprescindibili, se
non perfino insostituibili, Carlo Delcorno rileva come «Bernardino
si rivolge con spregiudicatezza alla narrativa borghese, che dal
Novellino al Sacchetti rappresenta una delle più robuste
linee di espansione della letteratura in volgare, e delle più
sollecitanti per chi si rivolgeva alle folle della città,
arricchendo e variando il repertorio della predicazione
tardo-medievale».
L’avanguardia di
un francescano
L’edizione di questo
ciclo, non ancora «critica» ma assai avanzata nello studio della
tradizione testuale, e per di più irrobustita da numerosi strumenti
di esegesi, rappresenta una tappa fondamentale per la conoscenza di
quell’ampio, non ancora ben sondato settore della teatralità fra
Medioevo ed età moderna: teatralità diffusa, o se si vuole
teatrabilità potenziale, aperta a soluzioni disparate, così alla
polvere del palco come alle pieghe dell'espressivismo linguistico.
Tra Boccaccio e Luigi
Pulci, tra Sacchetti e Leonardo da Vinci, ma anche tra le sacre
rappresentazioni e certi squarci nei fondali narrativi dell’Orlando
furioso, come Delcorno aveva già dimostrato in Exemplum e
letteratura (Il Mulino, Bologna 1989), stanno le madornali
sceneggiate, da diabolico burattinaio dello spirito, del francescano
Bernardino.
“il manifesto – La
talpa libri”, venerdì 29 giugno 1990
Buongiorno,
RispondiEliminavolevo segnalare che ulteriori informazioni su san Bernardino da Siena si possono trovare nel libro "Benedetta Maremma. Storia dei santi della bassa Toscana" edito dalla Sarnus che racconta la vita e il culto di 25 santi tra le province di Livorno e Viterbo.
Cordiali saluti
Marco Faraò