6.9.17

Il Seicento di Asor Rosa. La scissione tra sapienza “riposta” e comunità (Nicola Badaloni)

La statua di Camnpanella a Punta Stilo
Suscitò discussioni la lettura che negli anni 70 del Novecento Alberto Asor Rosa fornì del Seicento italiano, letterario e non solo, nel volume che curò per la grande Letteratura Italiana edita da Laterza e diretta da Muscetta. La sua rivalutazione della cultura controriformistica, soprattutto ecclesiastica, come esempio di organicità, di ricerca intellettuale organizzata e legata a un progetto, fu considerata da molti una provocazione perché comportava una sottovalutazione delle aree di dissidenza, non tanto quelle del mondo laico aristocratico, ma quelle dei nuovi scienziati e dei nuovi filosofi. Posto qui l'intervento su “Rinascita” del filosofo Nicola Badaloni. (S.L.L.)


Alberto Asor Rosa

La pubblicazione di Il Seicento. La nuova scienza e la crisi del barocco (Bari, Laterza) di Alberto Asor Rosa, è un avvenimento importante nel mondo letterario italiano; è anche un avvenimento importante per i marxisti e quali tornano a discutere di epoche della storia letteraria e civile da qualche tempo lontane dalla loro ricerca, impegnandosi in un proprio discorso autonomo e nel contempo in una discussione interna. Vorrei dedicare questa recensione soprattutto all’avvio di una tale discussione ed i lettori perdoneranno se chi scrive è un non-specialista nel senso della storia letteraria.
Alberto Asor Rosa non ha bisogno di presentazione. Tuttavia vorrei prendere le mosse da un altro suo libro recente, che ho avuto il piacere di presentare in occasione di un dibattito in una città toscana. Si tratta di Intellettuali e classe operaia (Firenze, 1973), ove Asor Rosa ha condensato la sua visione filosofica e metodologica. Nel riassumerlo, a me sembrava che il pensiero di Asor Rosa ruotasse intorno a due cardini: 1) l’atteggiamento di rottura verso l’ideologia intesa come espressione delle aspirazioni ristrette di gruppi di intellettuali che sublimano tali aspirazioni a ragioni del movimento delle masse; 2) la dolorosa constatazione della separazione degli intellettuali come aspetto della più generale divisione del lavoro, sicché il marxismo appariva soprattutto come teoria di tale divisione e come prospettiva di ricomposizione. I due filoni si sostenevano a vicenda dando luogo ad un gioco tra la separazione reale e la sublimazione ideologica. Di qui la conclusione di Asor Rosa che il modo realistico di porre il problema dell’intellettuale era quello di demistificarne gli atteggiamenti ideologici facendone un mero specialista disposto a porre le sue capacità tecniche a servizio di una alleanza colla classe operaia, così realisticamente e prosaicamente stipulata.
Le obiezioni che rivolgevo ad Asor Rosa erano le seguenti: 1) secondo la sua visione delle cose, la società di oggi si fonda, come fenomeno caratterizzante e specifico, sulla divisione del lavoro e sui suoi riflessi di copertura ideologica; ma allora come spiega che Marx ed Engels abbiano trasmesso alla classe operaia non i propri «umori» di intellettuali separati ma invece una teoria della genesi, dello sviluppo e morte della società capitalistica?; 2) quando Asor Rosa proponeva la sua alleanza tra intellettuali e classe operaia nel modo «prosaico» che ho detto sopra e del tutto disideologizzato (un modo che ricordava la ricerca ed il «culto» degli specialisti in Urss in epoca immediatamente postrivoluzionaria), egli escludeva quel processo di maturazione di unità politica e di convinzioni ideali profonde che hanno costituito un aspetto specifico del marxismo italiano. Qualcosa di diverso anche da quel momento della storia sovietica in cui l’arte proletaria si proponeva come ideologia ufficiale, perché in Italia l’unità è politica e la diversità degli strumenti di ricerca e di espressione può coesistere colle motivazioni ideali comuni che fanno da cemento all’unità politica. Abbiamo (almeno quasi sempre) sufficiente maturità politica per intendere che non è il partito il luogo delle strumentalizzazioni degli intellettuali, ma all’opposto sono le idee degli intellettuali che il partito sottopone ad una verifica critica continua in relazione alle «situazioni» ed alle «prospettive». In breve rivolgevo ad Asor Rosa la critica di nascondere dietro all’atteggiamento anti-ideologico una sostanziale adesione ad una sorta di sociologia della conoscenza in cui andava perduta la ricerca dell’obiettività, pur intesa umanamente e storicamente, per dar luogo ad un rapporto in cui prevalevano gli interessi prammatici.
Nicola Badaloni
Asor Rosa mi rispose allora riconoscendo che la sua attenzione e simpatia andavano effettivamente a quelle zone del Capitale di Marx ove era teorizzata la separazione della forza-lavoro rispetto alle condizioni materiali di produzione e che da questa preferenza derivava anche il suo modo di intendere la separazione degli intellettuali; che tuttavia nel caso specifico una cosa erano gli intellettuali «schierati» ed altra gli intellettuali come « massa sociale ». Tutta la sua attenzione era andata al secondo gruppo, perché così imponeva la realtà sociale della nostra epoca. La risposta era assai intelligente e «graffiava», mettendo in luce un limite della mia presentazione. Poiché tuttavia essa non mi persuase allora interamente (come seguita a non persuadermi ) ho letto il nuovo libro storico di Asor Rosa per attenderlo al varco della mia obiezione di allora e per intendere come egli risolva nell’occuparsi del Seicento il problema del rapporto tra l’intellettuale di massa e quello di avanguardia.
Devo dire, per onestà intellettuale, che, anche in questo caso, mi apprestavo a leggere il suo libro avendo delle idee sull’argomento da lui trattato, frutto di qualche studio passato. Sono perciò costretto a riassumere queste idee, anche a costo di passare per cattivo recensore (ma una discussione è qualcosa di più che una recensione). Secondo me il 600 è caratterizzato, in relazione al problema del rapporto degli intellettuali colla società, dai seguenti fenomeni: 1) Una cultura laica, spregiudicata, libera nel costume, espressione di gruppi nobiliari detentori della proprietà fondiaria. Si tratta della cultura dominante nelle università e nelle corti, il cui limite profondo consiste nel suo carattere volutamente «segreto» e «ristretto». Che cosa significava infatti che alla corte di Cosimo si andasse alla ricerca di una antica sapienza etrusca se non che la verità del cattolicesimo era disattesa come «verità» di gruppo anche se accolta come morale sociale? Che cosa significava l’ateismo di un Borro, o di un Paganino Gaudenzi, o di un Bérigard, se non che la nobiltà manteneva una sua filosofia «segreta», che si affrettava tuttavia a condannare o a lasciare indifesa quando essa, travalicando certi limiti, dava motivi di scandalo? Ed ancora, che cosa significava la traduzione del pensiero di Machiavelli nel quadro del machiavellismo se non che la scienza politica doveva essere messa al servizio di coloro che volevano «proteggere» (cioè liberamente sfruttare) le masse, soprattutto contadine, sottraendo la loro apparente «comunità», già inquinata da tanti elementi di sfruttamento, ad ogni possibilità di decisione autonoma? Libertà di comportamenti e razionalismo segreti per chi comanda; servitù e «protezione» per chi obbedisce, ecco in breve le intenzioni storiche del gruppo. 2) Un ceto intellettuale sempre di vertice, non più laico ma ecclesiastico, altrettanto spregiudicato ed anch’esso interessato alla vigilanza ed alla protezione della residua comunità in una dialettica interna coll’altro ceto che lo portava talvolta a reprimerne gli atteggiamenti meno conformisti, ma in accordo sostanziale con esso quando era in gioco la necessità di «proteggere» la «comunità» di base. 3) Un diverso e tuttavia costante manifestarsi di una nuova forma di coscienza che rifiutava l’antinomia tra la «segretezza» e la «repressione» e che cercava di portare alla luce una nuova logica, certamente condizionata dalle due realtà sopradescritte, ma capace di fare intravedere la alternativa di un autonomo movimento ed interna scissione di quella «comunità» cui ci si riferiva sopra. In questo quadro la teoria galileiana dei due linguaggi stava ad indicare l’unità della verità naturale (contro l’aristocraticismo delle due «verità»); il naturalismo di Campanella, che pure seguitava a teorizzare la comunità, stava ad indicare l’autonomia del movimento complessivo di essa, sulla base di principi naturali, ed infine la storia delle accademie scientifiche stava a significare la combinazione della cultura scientifica colla vecchia cultura «segreta» e la sua lenta modificazione e riduzione.
Naturalmente si tratta di uno schema a maglie larghe. Il punto caratterizzante (cioè il criterio di giudizio) era dato dalla autonomizzazione del movimento della «comunità» umana e dal riconoscimento della possibilità della sua scissione. Al termine di questo grande movimento e dibattito un filosofo, oggi del tutto fuori moda che per questo mi piace qui ricordare, perché io resto d’accordo con Marx e con Labriola nel ritenerlo un grande cervello, ne riassumeva e concettualizzava i termini. Si tratta di quel G. B. Vico il quale capì perfettamente i caratteri di quella divisione tra cultura segreta laica e repressione religiosa, rifiutò la sapienza «riposta» (che pure aveva sostenuto nella sua giovinezza), pose gli «ebrei» nel limite di una storia del mondo che aveva a sua protagonista la natura (anche se talvolta preferiva chiamarla provvidenza) soprattutto dette voce alla comunità, mostrandone il divenire irrefrenabile (qualunque fossero ie intenzioni e le arti dei vari capi del governo) perché era storia di masse di uomini, di rapporti di proprietà e di conformi mentalità. Ho ricordato questa conclusione perché oggi va di moda la sapienza riposta e la cultura di «sinistra» si affanna a dimostrare che sono «materialistiche» le sterminate antichità con cui i governi sentirono il bisogno di distinguere la storia della loro genesi da quella loro attribuita dai papi; sono progressive le interpretazioni ermetiche; gli ideologi della aristocrazia, i classicisti, gli antiquari sono la voce del futuro. Di contro, chi si mischia colla teologia, fosse pur essa razionale, è giudicato invischiato nel passato, ed al Vico si preferisce qualche erudito del ’500 o del ’600, qualche antiquario del ’700, senza intendere che egli ha vissuto la crisi culturale italiana, rimettendo in circolazione, sullo sfondo del ricordato naturalismo (e quindi della riscoperta del movimento interno della «comunità»), le acquisizioni del pensiero filosofico e scientifico italiano degli ultimi due secoli.
Ma perché dire queste cose recensendo un libro che del Vico (perché esce dai limiti temporali prescritti) non dice giustamente nemmeno una parola? La trattazione del Vico è infatti, nella storia della letteratura del Muscetta di cui il libro di Asor Rosa è parte, affidata a Gaetano Compagnino, che ne tratta (come vogliono i tempi) dopo essersi prudentemente ricoperto il volto con una mascherina sterilizzante. Quando l’attuale revival vichiano in America ed altrove sarà udito in Italia o quando Althusser, estimatore del Vico, avrà scritto su di lui come da tempo promesso, allora finalmente gli studiosi italiani «prudenti» annuseranno il vento nuovo e si toglieranno quella mascherina sterilizzata, che è il modo moderno di coprirsi il volto. In realtà ho detto queste cose per esprimere l’apprezzamento per Asor Rosa che va contro corrente. Mi piace l’attenzione che egli porta alla organizzazione della cultura, la consapevolezza della ambiguità e duplicità della cultura barocca; apprezzo il modo come ha valutato Sarpi, il drammatico rilievo che dà alla figura ed al pensiero del Campanella, la esposizione del programma galileiano, la concettualizzazione della cultura delle accademie e la trasformazione conseguente del classicismo in qualcosa di diverso, che fa da sostegno a un nuovo se pur ancor tenue razionalismo.
Eppure devo ripetergli in questa sede le obiezioni di fondo che facevo a Intellettuali e classe operaia. La divisione tra intellettuali e masse prende il sopravvento sugli altri problemi in modo tale che la sua ricomposizione viene in qualche modo accettata su qualsiasi terreno essa avvenga. Naturalmente Asor Rosa sa che il naturalismo è il filo rosso del pensiero del Campanella ed egli cerca lì il momento unificante. È perché la natura ci suggerisce in profondità le ragioni del nostro essere, del nostro pensare e del nostro amare, che diviene necessario dare battaglia ai tiranni ed ai preti e filosofi che li sostengono. Perché allora andare a confondere la comunità che vuole Campanella con quella voluta dalla Controriforma, dando una mano alle interpretazioni più reazionarie? Asor Rosa sa benissimo che la battaglia di Galilei era tutt’altro che perduta in partenza, come non lo fu quella del Sarpi. Fu la viltà della cultura laica (cortigiana ed universitaria) e dei principi che lo travolse. Perché allora trasformare la sua battaglia in «sublime ingenuità», perché dare connotazioni realistiche solo agli avversari e perché dare tanta importanza a questo «realismo» di retroguardia? E come è possibile poi interpretare il rinascente razionalismo di fine secolo come idoleggiamento di una particolarissima idea di «progresso» e di «ordine» che poi culmina in un concetto di ordine contrapposto a sfrenamento e disordine, senza dire nel contempo che questa nuova idea di ordine corrisponde al distacco dalla «comunità» di un nuovo gruppo sociale che, senza dubbio è già pieno di cautele, ma anche testimonia della esistenza di una concezione del mondo del tutto nuova? E poi come nascondersi la parentela di questa nuova filosofia con gli sconfitti del ’600 e soprattutto col grande Galilei?
A me sembra che l’attenzione dedicata quasi esclusivamente alla questione della divisione del lavoro, anziché al movimento delle classi ed alle loro ideologie giochi su questo terreno un brutto tiro ad Asor Rosa. Nella storia non vi sono solo le disgregazioni e le ricomposizioni, ma anche il liberarsi delle classi; e la storia del ’600 è, secondo la mia modesta opinione, la storia della ricostituzione di una comunità repressiva fatta rinascere e poi violentemente «protetta» nonostante che la sua disgregazione borghese fosse già in uno stato assai avanzato. Il fatto che le stesse forze preposte a tale violenta repressione rimanessero contagiate in parte dalla nuova cultura dimostra la debolezza del loro programma politico e sociale. La rottura di tale comunità «protetta» segna l’affermarsi di una nuova filosofia (l’illuminismo) che anche in Italia non è fenomeno tanto da poco. Il tendenziale «organicismo» del pensiero di Asor Rosa (risultato di una sorta di rovesciamento di quella divisione del lavoro che Nietzsche ha teorizzato come necessaria e che Asor Rosa respinge marxisticamente come segno della povertà dell’uomo di oggi) lo porta a sopravvalutare l’importanza dei luoghi di aggregazione delle volontà qualunque essi siano. Bisognerà, io credo, che egli presti maggiore attenzione alla qualità delle idee che le grandi aggregazioni umane portano al punto di fusione e di socializzazione, a meno che, anche in questo caso, non sia io a lasciarmi prendere la mano dalla «ideologia».


“Rinascita”, 10 gennaio 1975

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