È uscita l'anno scorso
per Einaudi una nuova edizione e traduzione di Cevengur. Secondo
me è un libro da leggere e per un centenario dell'Ottobre senza ortodossie ottimamente si
presta. Posto qui una vecchia recensione di Giuliani, che coglie –
secondo me – alcuni aspetti caratterizzanti del singolare romanzo.
(S.L.L.)
Andrej Platonov nel 1922 |
Andrej Platonov non è
soltanto uno scrittore russo. È in modo stupefacente uno scrittore
sovietico, forse l'unico grande prosatore sovietico che illumina, si
fa per dire, l'epoca del comunismo di guerra e della famosa Nuova
Politica Economica. Ma allora, domanderà qualcuno giustamente, era
uno scrittore di regime, un propagandista, un chierico della
rivoluzione? Non era un autore di regime, tutt'altro. Fu
perseguitato, gli si impedì di pubblicare, fu obbligato a umili
lavori, e molti considerano un mezzo miracolo se finì di morte
naturale (tubercolosi nel 1951) anziché in un lager o fucilato.
Eppure, a modo suo, Platonov era un cantore epico della rivoluzione.
Di estrazione operaia
(chi dice che il padre era ferroviere, chi fabbro ferraio), militò
nell'Armata Rossa tra il ' 19 e il ' 21 (era nato a Voronez nel 1899)
e fece anche parte di corpi speciali costituiti per reprimere le
rivolte contadine e nazionaliste, e il brigantaggio, in Ucraina e nel
Caucaso. Laureato in ingegneria nel 1924, per alcuni anni si occupò
di lavori di bonifica e di elettrificazione nel governatorato di
Voronez. Ma presto si traferì a Mosca, pubblicò i suoi primi
racconti e saggi di critica letteraria, ebbe un certo successo e
decise di dedicarsi interamente alla letteratura.
E qui cominciarono i suoi
guai. Platonov era un sincero comunista, ma era appunto, perché un
sincero comunista, un visionario. E in quanto scrittore visionario
coltivava la più sincera libertà espressiva. Nei suoi anni più
creativi, i geniali anni Venti, la visionarietà di Platonov era
insieme epica, lirica e satirica. Per la sua natura satirica è stato
accostato a Bulgakov, dal quale è diversissimo. In realtà è
talmente diverso da tutti che un lettore occidentale fatica ad
accorgersi che Platonov è un grande scrittore. L'opera maggiore di
Platonov, il romanzo Cevengur scritto tra il 1926 e il 1929,
pubblicato in Russia soltanto sessant'anni dopo, sarebbe improprio
definirla un'epica della rivoluzione alla rovescia. Per l'autore
questo libro lunatico e irresistibilmente catastrofico era allo
stesso tempo una randagia celebrazione dell'utopia, un libro magico e
veridico sul comunismo della vita.
La devastante fiducia
degli idioti che agiscono e parlano nel romanzo di Platonov ha la
grandiosa, grottesca vitalità che sommuove i pensieri e le passioni
dei Demoni e dell'Idiota di Dostoevskij. Si comprende
come Gor'kij, quando lesse il manoscritto nel 1929, lo dichiarasse
impubblicabile (inaccettabile per la nostra censura). Egli scrisse a
Platonov: “Lei è indubbiamente un uomo di talento, come è
indubbio che possiede una lingua oltremodo originale... Il suo
romanzo è interessantissimo.... Ma era altrettanto indubbio per
Gor'kij che l'opera era prolissa, vi abbondavano i discorsi a scapito
dell'azione, la visione delle cose era anarchica, deformata in senso
lirico-satirico; i comunisti di Cevengur non sono tanto dei
rivoluzionari quando dei bislacchi o semidementi. Ciò nonostante
Gor'kij era rimasto assai colpito dalla lingua di Platonov. E di
questa lingua, di cui oggi parlano con ammirazione il poeta Iosif
Brodskij e l'eccellente critico Anninskij, noi lettori occidentali
possiamo avere una percezione ridotta. “Non è colpa dei
traduttori, dice Brodskij, se mai colpevole è l'estremismo
stilistico dell'autore”. Sulla questione, per quanto posso
azzardarmi, tornerò un poco più avanti.
na cosa buffa, e forse
non tanto strana, è che il romanzo di Platonov fu pubblicato in
Italia da Mondadori nel 1972 col titolo Il villaggio della nuova
vita, tradotto da Maria Olsùfieva, e non ricordo che sollevasse
grande attenzione. Sia prima, sia dopo il ' 72 erano usciti in Italia
altri libri di Platonov. Ora Sellerio stampa una scelta di racconti,
Il mondo è bello e feroce (pagg. 200, lire 20.000), due dei
quali già compresi in un precedente volume di Einaudi (Ricerca di
una terra felice), e presso Theoria ricompare Cevengur con
un nuovo titolo, Da un villaggio in memoria del futuro (pagg.
382, lire 36.000), nella stessa traduzione mondadoriana della
Olsùfieva. Insomma, altri editori ci riprovano, sperando di essere
più fortunati. E che noi si sia meno distratti. Mi dichiaro toccato.
In altra occasione la signora Olsùfieva spiegò perché il toponimo
Cevengur (nome inventato di un villaggio sperduto nelle steppe della
Russia centrale) sia pressoché intraducibile: si tratta di una
parola composta, la cui prima parte designa un pezzo delle vecchie
cioce dei mugichi, la seconda ha il senso di baccano, rumore. Chissà,
forse si sarebbe potuto inventare Ciociarnazzo (pensando a Ciociaria
e a schiamazzo); ma io non essendo un traduttore dal russo non ho
voce in capitolo. Il nome veniamo a saperlo soltanto alla pagina 170,
da una gustosa conversazione che si svolge in città all' uscita da
una riunione di partito. C'è un tale Cepurnyj soprannominato il
Giapponese che si avvicina ad altri due, Dvanov e Gopner;
quest'ultimo gli domanda: “Tu da dove salti fuori?” “Dal
comunismo. Nei hai sentito parlare?” “Hanno chiamato così
qualche villaggio in memoria del futuro?” “Macché villaggio. È
capoluogo d'un distretto che anticamente si chiamava Cevengur. Fino a
ora sono stato presidente del comitato rivoluzionario. E adesso
abbiamo posto fine a tutta la storia mondiale”. “A che serve?”
A Cevengur o Ciociarnazzo
sono entrati direttamente nel comunismo senza tante lungaggini.
Massacrati tutti i borghesi e i contadini ricchi, il comitato
rivoluzionario ha abolito l'economia, i bilanci, la politica e ha
fatto fiorire la preferenza proletaria per la vita felice e la
fratellanza, senza perciò negare la precisione della verità e il
dolore dell'esistenza. Tutto ciò che è accaduto nel libro fino a
questo episodietto (fondamentale) non è che la preistoria di destini
intrecciati che si ritroveranno a Cevengur nell'urgenza
utopistico-demenziale di costruire lì la gloriosa memoria del
futuro. Secondo Brodskij, e questo è il dato interessante che anche
il lettore occidentale è in grado di cogliere, Platonov è uno
scrittore millenarista, se non altro perché aggredisce il veicolo
stesso della sensibilità millenaristica presente nella società
russa: il linguaggio in sé o, per dirla in maniera più esplicita,
l'escatologia rivoluzionaria radicata nel linguaggio. Da molti la
rivoluzione fu scambiata per l'atteso secondo avvento, ma questo non
è che un dato sociologico. Può darsi che Brodskij esageri nel
formulare l'essenza del messaggio di Platonov (il linguaggio è un
congegno millenaristico, la storia no), ma certamente dobbiamo
ascoltarlo quando dice che l'autore di Cevengur, più che alla
tradizione letteraria, si affida alla natura sintetizzatrice della
lingua russa, una matrice che condiziona a volte attraverso allusioni
puramente fonetiche l'affiorare di concetti totalmente privi di
qualsiasi contenuto reale.
Ma non so quanto sia
pertinente ritenere Platonov il primo scrittore russo veramente
surrealista. È strano che Brodskij taccia della vena futurista che
a noi sembra potente in Platonov, il quale più di una volta fa
venire in mente il poeta Chlébnikov (acclimatato nella nostra lingua
e ai limiti della possibilità dal bravissimo Angelo Maria
Ripellino). Proprio Ripellino, nel lungo saggio introduttivo alle
poesie di Chlébnikov, ricordò le due facce del futurismo russo; da
un lato l'esaltazione della tecnica e delle macchine, dall'altro il
fervore per i trogloditi, le spelonche, la vita selvatica. E così il
millenarismo, comune a tutti i futuristi russi, si esprime con
particolare insistenza nelle fantasticherie di Chlébnikov. Ciò che
più conta per il futurista russo è ritrovare nell'avvenire
l'incolumità dei primordi. Il primordiale e l'amore per le macchine
si fondono in Platonov, ma non c'è davvero il sogno dell'incolumità.
Tutto in Cevengur, il tenero e il raccapricciante, l'idiota e
il sublime, la violenza e la magnanimità, tutto coincide in una
micidiale indifferenza vigilata dalle stelle (la beatitudine
controrivoluzionaria della natura). L'anelito stupidamente eroico
alla fine del mondo e alla rigenerazione del mondo coincide con lo
sforzo sovrumano dell'intelletto ingenuo e puro che vuole pensare la
verità dell'esistenza.
Le frasi di Platonov
cominciano in un modo che fa prevedere un certo decorso logico, ma
alla fine della frase, grazie a un epiteto, a un'intonazione, o alla
posizione anomala di una parola nel contesto, vi trovate condotti da
un'altra parte, o meglio in una tortuosità inestricabile, che può
suscitare ilarità o sgomento. È più o meno ciò che notano i
critici russi e ciò che avverte, certo con minore vividezza, il
lettore occidentale. Come osserva Anninskij in un saggio recente, la
fucilazione della residua classe borghese in Cevengur provoca
nel lettore un raccapriccio infernale, tuttavia non osate chiamarlo
così, dato che per tutti coloro che partecipano all'evento questo
inferno si identifica con l' apparizione del paradiso. E Stepan
Kopenkin, castigatore errante, che compie le sue imprese assassine
per la gloria della venerata Rosa Luxemburg in groppa alla cavalla
Forza Proletaria, esce dalle pagine del romanzo non come un
castigatore e assassino, ma come un pellegrino incantato e una
cavaliere. Questa è la visione che le frasi di Platonov suscitano in
noi.
Quando
scoppia la rivoluzione il vecchio Zachàr Pàvlovic dice al figlio
adottivo Sasa: “Gli imbecilli stanno prendendo il potere, è forse
la volta che diventerà più intelligente la vita”.
Prochor
Abràmovic era da tempo istupidito dalla miseria e dai troppi figli,
non badava a nulla: né alle malattie dei bambini né alla nascita di
quelli nuovi, neppure al raccolto cattivo o discreto, quindi pareva a
tutti un brav'uomo.
Kopenkin è perplesso di
non vedere a Cevengur la gente lavorare. Il Giapponese gli spiega la
situazione: “La professione essenziale è l'anima dell'uomo. Il suo
prodotto è l'amicizia e il cameratismo. Non è forse un'
occupazione, secondo te?”. “Kopenkin rifletté un poco sulla vita
oppressa d'una volta. 'È proprio bello da te a Cevengur, disse
malinconicamente. Speriamo che non si debbano organizzare i guai: il
comunismo deve essere aspro, uno zinzino di veleno fa bene al
sapore'. Il Giapponese sentì il sale fresco in bocca e capì subito.
Forse hai ragione. Adesso dovremo organizzare apposta i guai.
Vogliamo cominciare domani, compagno Kopenkin?”.
A dire il vero,
lentamente, pacatamente, un lavoro collettivo si svolge a Cevengur:
si spostano le case di legno e si trasferiscono i frutteti. Questo
traffichìo avviene obbligatoriamente soltanto il sabato. È un
lavoro improduttivo e simbolico: si sciupa l'eredità
piccolo-borghese e si confondono le vecchie strade. Non occorrono
più: la gente è arrivata a destinazione. Cancellando le strade,
spostando i cosiddetti beni immobili i deliranti utopisti di Cevengur
sfigurano l'immagine e la sostanza della vecchia società oppressiva.
La follia apocalittica è stata messa in moto, nelle anime semplici,
ora miti, ora selvagge, dei millenaristi, dalle parole d'ordine e
dalle formule della rivoluzione.
Ho detto in principio, un
po' per burla, che Platonov illumina l'epoca in cui concepì e
scrisse il libro, gli euforici e spaventati anni Venti della Russia
sovietica. Li illumina con un sinistro e lancinante e grottesco
rovesciamento. Tutti sognano e tutti vengono trucidati (dalle guardie
bianche). Un'immagine, che è insieme comica ed enigmatica, apre e
chiude il libro. Nelle prime pagine il pescatore padre di Sasa, il
fanciullo che sarà poi allevato da Zachàr Pàvlovic, si getta nel
lago per vedere com'è la morte; poteva essere un' altra provincia
situata sotto il cielo come sul fondo d'una fresca acqua. Dopo tante
peripezie, Sasa che è sfuggito alla carneficina, alla fine del
libro, si lascia andare nelle acque infantili dello stesso lago, in
cerca di quella strada che suo padre aveva percorso nella curiosità
della morte. Il romanzo è racchiuso tra questi due segni, che non
appartengono al distretto rivoluzionario. A Ciociarnazzo si voleva
organizzare la vita.
“la Repubblica”, 25
febbraio 1990
Non è facile trovare analisi o descrizioni di Cevengur, forse perché è un romanzo talmente lontano da noi che è estremamente difficile leggerlo... questa descrizione è davvero interessante e offre una chiave di lettura, pur non sciupando niente nella lettura del romanzo, che permette di essere compreso e apprezzato.
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