31.10.17

Il dovere di dire di no. Leonardo Sciascia, o dei perdenti (Rossana Rossanda)

Ci sono vite che sembrano venir a termine con un periodo della cultura, quando la loro voce si isola. È difficile non pensar questo di Leonardo Sciascia, spentosi forse prima del tempo - se mai è il tempo - mentre la sua figura di scrittore politico, nel senso settecentesco di indagatore delle cose del mondo, fin poco tempo fa molto amata, era stata contestata sotto quel profilo morale che era più il suo. Contestata come se fosse lecita su di lui un’ombra di dubbio, giacché ci sarebbero settori del politico nei quali cade la nettezza del metodo e vale la guerra con tutti i mezzi. E chi con tutti i mezzi non la vuole, perché non crede che sia la stessa guerra, è collocato dalla parte del nemico.
Questo immiserirsi della realpolitik, Leonardo Sciascia non l’aveva mai accettato. Aveva scritto scrutando la storia, anzi le storie, come metafore della libertà - una libertà messa in causa, spesso in scacco, dai meccanismi dell’intolleranza o da quelli degli interessi, di potere o di denaro. La vicenda siciliana era la metafora assoluta. Ma nel suo raccontare, che era anche un inquisire fra le ombre per restituire la verità, a lungo era stata inseguita e colta la persona libera: e se periva, o molto raramente vinceva, non inquinata, non distorcibile da meccanismi avvolgenti al di là delle intenzioni e volontà.
Era la fiducia illuministica nella possibilità, oltre che nel dovere, di dire «no», di non scivolare su terreni infidi in nome della eterogenesi dei fini. Più che essere torturati e uccisi o finire in un blocco di cemento, non si poteva.
Ma negli anni ’70 questa fiducia era sparita. E centrale, anche dilemmatico, era diventato nel suo narrare l’assedio alla volontà retta, all’intenzione impeccabile, da parte di un sistema di poteri che pareva accerchiabile solo in quanto se ne introiettassero alcuni modi. E quindi l’ambiguità della persona, lo sfumare dei contorni, le molte facce d’una verità non solo apparente ma anche reale -come se l’«essere» morale o sociale, e quindi un’idea del diritto, fossero inesorabilmente oscurati e aggrovigliati, in una sorta di pirandellismo dove tutto finiva con l’essere non terribile e innocente, ma terribile e colpevole.
La delusione per l’involversi della sinistra, per lui che, da una tradizione del tutto diversa da quella comunista, era stato molto vicino al Pci, si era accompagnata a un rivoltarsi alla lotta contro la mafia che, finiti o messi fuori gioco i Li Causi o i Pantaleone, gli pareva condotta con metodi tali da incrinarne il senso.
Attaccò e fu attaccato; come ingenuo o «oggettivamente» colludente. E in verità la sua idea del bene e del male pubblici, del fare pubblico, per non dire della giustizia, nel nostro mondo sono state isolate. Chi di noi, con minore autorità e sapienza, le condivide, si sa estraneo e, come i suoi personaggi, perdente.


“il manifesto”, 21 novembre 1989

Il lato oscuro (e privato) dei social per scienziati (Nico Pitrelli)

«Nella battaglia per diventare il Facebook degli scienziati ci sono dei lati oscuri che potrebbero modificare significativamente il modo di fare ricerca». Alessandro Delfanti, sociologo dei media all’Università di Toronto in Canada, fa riferimento allo scontro in corso da anni tra diversi social network specializzati sul mondo accademico per accaparrarsi i milioni di studiosi disposti ogni giorno a condividere, scaricare e valutare idee e ricerche dei colleghi. In un saggio di prossima uscita sulla rivista “Cultural Anthropology”, all’interno di una raccolta dal significativo titolo Le infrastrutture del male, Delfanti mette in guardia dai possibili effetti negativi che i social media potrebbero avere sulla scienza. Come afferma in un colloquio con pagina99, «dietro le piattaforme sociali dedicate alla ricerca si nasconde una crisi profonda del mondo universitario, che riguarda sia la crescente precarietà del lavoro accademico, sia il modo in cui i ricercatori producono e scambiano sapere».
I social media per scienziati attualmente più popolari sono Academia.edu, spazio di incontro generalista tra ricercatori che sul suo sito connette oltre 50 milioni di accademici e ResearchGate, specializzato nelle scienze della vita con circa 12 milioni di iscritti da quasi 200 Paesi. Un po’ più indietro, almeno per quanto riguarda i numeri, Mendeley, eccellente strumento per organizzare le bibliografie, usato da circa sei milioni di persone. Queste piattaforme svolgono funzioni simili: permettono di condividere online le pubblicazioni scientifiche, offrono suggerimenti per seguire studiosi di tematiche affini, consentono di monitorare l’impatto delle ricerche. In generale, esse si ispirano ai principi della cosiddetta open science, espressione con cui si indicano le pratiche e il movimento di opinione per rendere la ricerca più accessibile e libera possibile.

Fagocitati da Elzevier
A un primo sguardo, i social dedicati al mondo accademico sembrerebbero andare nella direzione auspicata già qualche anno fa da apologeti della scienza aperta come il fisico americano Michael Nielsen, il quale nel 2012, in un libro-manifesto edito da Einaudi (Le nuove vie della scoperta scientifica), prefigurava grazie a Internet un’ottimistica e radicale transizione nella produzione di conoscenza paragonabile alla rivoluzione scientifica del Seicento. Una lettura più attenta del fenomeno ci dice che le cose non stanno proprio così.
«Prima di tutto», afferma Delfanti, che annovera tra i suoi interessi la critica al capitalismo digitale, «bisogna precisare che i social network dedicati al mondo accademico sono controllati da aziende con fini di lucro».
Mendeley e il Social Sciences Research Network, usato soprattutto dai ricercatori sociali, sono stati ad esempio entrambi acquistati, rispettivamente nel 2013 e nel 2016, da Elsevier, il maggiore editore internazionale in ambito medico e scientifico. Simile è la vicenda di Academia.edu, che nonostante l’utilizzo di un dominio web riservato a scuole e università, è un progetto orientato al profitto, con oltre 17 milioni di dollari raccolti negli anni grazie al supporto di diversi investitori.
In tal modo gli editori privati, neanche troppo indirettamente, intervengono nelle dinamiche del movimento dell’open access, nato però proprio per limitarne il monopolio nella gestione della letteratura scientifica.

Il valore dei dati
Un po’ come per Facebook, dietro la gratuità e il libero accesso presentati dai social media accademici come un’imprescindibile cifra identitaria, si nasconde la vera miniera d’oro su cui si concentrano gli interessi privati: i dati.
«Attraverso il controllo delle piattaforme sociali», continua il sociologo in forze all’Università di Toronto, «le multinazionali dell’editoria accademica hanno accesso a una serie di informazioni estremamente utili non solo per ragioni commerciali, ma anche per definire nuovi sistemi di misura del lavoro degli scienziati». Diversamente dal tradizionale impact factor, Academia.edu e ResearchGate propongono ad esempio indici che fanno riferimento all’ampiezza del network dei ricercatori o al numero di articoli scaricati. Sulla base di questi dati vengono poi stabilite delle classifiche basate su algoritmi non trasparenti. «I servizi offerti dai social media accademici controllati da privati», continua lo studioso italiano, «raccolgono e analizzano una grande quantità di informazioni sulla lettura, le citazioni, le interazioni tra scienziati, per poi assegnare un valore arbitrario a una specifica ricerca. Un aumento dell’utilizzo e della pervasività di queste piattaforme alle condizioni attuali darebbe loro un potere senza precedenti nei processi di selezione e di valutazione della ricerca».

Più social, meno ricerca
A questo aspetto si aggiunge un’altra criticità legata all’esplosione del precariato accademico in tutto il mondo. I social media intensificano infatti soprattutto il lavoro dei sempre più numerosi ricercatori non stabilizzati, che hanno la necessità di rendersi molto visibili se vogliono aspirare a posizioni prestigiose e permanenti. «Da una parte», conclude Delfanti, «assegnisti, borsisti e dottorandi hanno spazi di pubblicazione e possibilità insperate per far circolare le proprie idee. Dall’altra, per emergere sui social, come è noto, occorre impiegare tempo ed energie da aggiungere al già intenso lavoro in laboratorio». Il rischio è di non staccare mai, con il dubbio fondato che a pagarne le conseguenze sia anche la qualità della ricerca.


Pagina 99, 12 maggio 2017

Lavoro. Una poesia di Maria Maddalena Monti

Maria Maddalena Monti
La tua religione era il lavoro.
Poco valeva
chi non sapeva fare
e svelto e bene.
Anche ora,
nella nebulosa che ti avvolge,
lisci con mani esperte
il tuo lenzuolo
vagheggiando
perfetti orli e dritte cuciture.


Dal blog “MOLTINPOESIA” legato all'omonimo laboratorio attivo nella Casa della Cultura di Milano (2006-2013)

Onda corta. Lapidi e saponette (Gianni Granzotto)

 Il giornalista Gianni Granzotto, prima di diventare celebre come conduttore in Rai di memorabili “Tribune politiche” e divulgatore storico di successo, nella rubrica Onda corta raccoglieva per il “Tempo” illustrato spigolature politico-mondane, curiosità e aneddoti. Ho qui postato qualche esempio. (S.L.L.)
Gianni Granzotto (a destra) con Palmiro Togliatti, dopo la registrazione di una "Tribuna politica"

Il generale è sottile
L’11 novembre la Francia ha celebrato la vittoria della guerra 1914-18. In piazza del Trocadero ci fu una grande rivista militare, davanti a una tribuna d’onore dove avevano preso posto tutti i membri del Governo. E poiché, in questi tempi d'inflazione, tra ministri e sottosegretari, il Gabinetto è composto di una cinquantina di persone, la tribuna era letteralmente gremita di abiti neri e camicie bianche. La stessa mattina De Gaulle parlava a una riunione del Direttorio del suo partito. A un certo punto accennò alle «disgrazie e calamità» che minacciano la Francia. Lo scrittore André Malraux, che è uno dei più fedeli luogotenenti del generale, si permise di chiedergli quale differenza facesse De Gaulle tra i due termini di «disgrazia» e «calamità». E De Gaulle: « Caro Malraux, se durante la rivista di oggi la tribuna con i cinquanta ministri e sottosegretari dovesse sprofondare sotto il peso corporale del Governo, questa sarebbe una disgrazia. Ma se la folla si precipitasse in soccorso di quei ministri, invece di lasciarli alla loro sorte, questa sarebbe una calamità ».

Hollywoodiana
Charles Boyer consegnò tempo fa a un produttore di Hollywood un soggetto cinematografico, in cui svolgeva il tema della speranza nella pace. Il titolo del soggetto era The optimist, l’ottimista. Il produttore, dopo aver letto il testo, telefonò a Charles Boyer in termini entusiastici. «Mi piace molto — disse — e lo acquisto senz’altro. Soltanto, sarò costretto a cambiare il titolo. Certo, gente come voi e come me sappiamo benissimo che cosa significa optimist. Ma bisogna fare i conti con il grado di cultura del pubblico. È una cosa sconfortante. Su cento spettatori, ce ne sono almeno novanta i quali ignorano completamente che optimist è uno specialista degli occhi».

Reincarnazione
Bob Hope è stato interrogato da un giornale americano per rispondere ad una inchiesta sulla reincarnazione. Alla domanda: «In che cosa vorreste venire reincarnato?», Bob Hope ha risposto: «In una saponetta che si scioglie nel bagno di Rita Hayworth».

Lapidi.
È uscito a Parigi un opuscolo che raccoglie le epigrafi più notevoli dei cimiteri della capitale. Vi sono tipi di epigrafi romantiche, come questa sulla tomba di due sposi: «Luisa C. (1835-1867). Vieni presto a raggiungermi, amor mio!». E sotto: «Arrivo! Arrivo! Pietro C. (1831-1907)». Tra i due patetici appelli sono passati quarantanni: o la natura è crudele, o il marito non aveva fretta.
Vi sono tipi di epigrafi ingenue, come questa: «A mio marito, morto dopo un anno soltanto di matrimonio, la moglie riconoscente». j
Oppure tipi di epigrafi ironiche. «Qui giace mia moglie. Che il suo riposo — ed il mio — siano dolci». E quest’altra : «Qui giace Antonio Bonnard, che fu debitore del suo successo alla prima moglie, e della seconda moglie al suo successo».


“Tempo”, 1 dicembre 1951

“Cinque monopolisti minacciano la democrazia”. Intervista a Joseph Stiglitz (Andrea Affaticati)

Sono bastati meno di trent’anni per stravolgere le regole del capitalismo che hanno dominato negli ultimi due secoli lo sviluppo economico dell’Occidente. Due gli attori principali: la globalizzazione e le nuove tecnologie. Una rivoluzione che ha prodotto crescente disuguaglianza e l’affermarsi di grandi monopoli digitali. Un mix che potrebbe risultare fatale per gli strati sociali più deboli così come per le nostre democrazie, sostiene Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia del 2001, del quale Einaudi ha appena pubblicato L’Euro – Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa. Pagina99 ha incontrato Stiglitz una settimana fa, a margine del ciclo Milano Talks, incontri sul futuro del lavoro, organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.
Manhattan, New York - Il premio Nobel Stiglitz alla finestra
In un articolo scritto un anno fa su Social Europe, lei sottolineava che anche i cinque colossi del digitale – Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft – contribuiscono ad aumentare le ineguaglianze. Perché?
I motivi sono diversi. Cominciamo da quello tecnologico. Se ci si muove sulla stessa piattaforma, è logico che chi si è assicurato la posizione migliore tenderà a concentrare su di sé il maggior numero di utenti. Da qui, per esempio, la posizione di monopolio di Facebook. Il fatto è - seconda considerazione - che questo predominio è in mano a un privato che determina i prezzi, potendoli far lievitare a proprio piacimento. Così tutti pagano di più, mentre i profitti finiscono a un unico soggetto. Infine c’è una terza considerazione che non avevo fatto nell’articolo di un anno fa, ma che risulta non meno allarmante. Questi cinque colossi oggi veicolano notizie, informazioni, conoscenza, decidendo cosa diffondere e cosa no. Questo loro potere è un pericolo per le democrazie e al tempo stesso produce ineguaglianza. Siamo in una fase di profonda trasformazione, che spinge verso una società dell’apprendimento in tutti campi, economia e innovazione comprese. L’accesso alle conoscenze deve essere libero e garantito a tutti.

Ma c’è anche una gestione monopolistica del know how da parte di questi big?
C’è questa storia che mi pare interessante raccontare. Apple tempo addietro era riuscito a convincere gli altri attori della Silicon Valley – a sua volta un attore monopolista nell’ambito dell’information technology – a sottoscrivere un accordo con il quale tutti si impegnavano a non sfilarsi reciprocamente i collaboratori. L’obiettivo era tenere basse le remunerazioni. Solo che sono proprio le conoscenze e le capacità creative a costituire la base remunerativa di questi collaboratori. Detto altrimenti, queste compagnie cercavano di derubare surrettiziamente e per conto dei loro azionisti questi lavoratori. La giustizia è intervenuta solo nel momento in cui c’è stata una denuncia.

Sommando i valori di capitalizzazione di borsa dei Big Five si ottiene una cifra che corrisponde al Pil del quinto Stato più ricco al mondo, prima di Italia, Francia e Regno Unito e dopo la Germania.
Si tratta di una altissima concentrazione di potere economico che permette di influenzare in senso più lato anche le politica. A Cupertino sono più o meno convinti di poter dettare loro la politica fiscale. Di poter dire: «Se non cambiate la legge sulla tassazione, noi non riportiamo indietro i nostri soldi». Un potere che un normale cittadino non ha. Non peccano di presunzione, questo potere ce l’hanno veramente e ciò costituisce un pericolo.

Dunque ci sarebbe bisogno di una normativa aggiornata?
Certo, ci vorrebbe per gli Stati Uniti così come per l’Europa. Meglio ancora se Usa e Ue ne elaborassero una comune. Ci sono però tre motivi per cui fino a oggi ciò non è avvenuto. Il primo è che, fino a non molto tempo fa, non era così evidente questo potere. In secondo luogo gli Usa, e in particolare i repubblicani, così come in Europa i partiti di centro destra, non hanno mai creduto veramente nella necessità di una regolamentazione. Infine, come già detto, queste compagnie sono potenti. A provarlo è stato Apple quando ha dovuto rendere conto davanti al Congresso per non aver pagato le tasse in Irlanda. Anziché essere considerato un evasore, l’amministratore delegato Tim Cook è stato trattato con tutte le attenzioni che si riservano a un corporate leader.

C’è da supporre che l’attuale amministrazione americana guidata da Donald Trump non abbia alcun interesse a cambiare le cose?
No, proprio no. Anche se i repubblicani, difensori da sempre di una bassa tassazione, sanno bene che una simile fiscalità presuppone che tutti paghino il dovuto. Con questo voglio dire che anche tra i repubblicani c’è chi non è contento che queste aziende la facciano franca perché così finiscono per pagare di più i cittadini. Per questo sono convinto che sarebbe possibile arrivare a definire una normativa quadro che costringa i Big Five a fare la loro parte. Certo per arrivare a questo risultato dovrebbe nascere un movimento dal basso.

Nell’articolo pubblicato nel volume Ripensare il capitalismo, curato da Mariana Mazzuccato e Michael Jacobs e appena pubblicato in Italia, lei sostiene che un eccesso di diseguaglianza frena la crescita. Capitalismo ed eguaglianza non sono una contraddizione in termini?
Non intendo un’eguaglianza totale. Quella non esiste. Mi riferisco alle distorsioni che hanno portato a un sistema economico sempre meno inclusivo negli Usa, così come in altri Paesi. E che queste distorsioni non siano inevitabili lo dimostrano Paesi come quelli scandinavi, che hanno sì, economie di mercato, ma più eque.

Quello dei Paesi scandinavi è un esempio che lei fa spesso, spiegando che alla base di questi risultati c’è una maggior apertura verso l’esterno. Apertura economica o di mente? Tenendo conto che siamo in un momento in cui si assiste a un ritorno di nazionalismi.
Sia economica che mentale, direi. Gli scandinavi sono partiti dalla constatazione di essere Paesi piccoli e che dovevano aprirsi alla globalizzazione se volevano avere successo. Questa apertura implica però una certa volatilità del mercato. E per evitare di ritrovarsi un giorno con cittadini che si ribellano perché si sentono dei perdenti, era necessario far sì che nessuno rimanesse indietro. Da qui la decisione di sostenere questo modello di sviluppo con l’introduzione di meccanismi di protezione sociale.

Lei sostiene che non sia la globalizzazione di per sé a essere negativa, ma il modo in cui è stata gestita finora. Cioè, svuotando il potere contrattuale dei lavoratori, abbassando i salari e indebolendo i sindacati. E questo è uno dei motivi alla base della nascita dei movimenti populisti. Ma come si può ora invertire la rotta?
C’è bisogno di forme di protezione sociale per sostenere persone che hanno perso il lavoro o i cui salari si sono drammaticamente ridotti. Inoltre vanno introdotte opportunità di riqualificazione. Dobbiamo essere consapevoli dell’incredibile rivoluzione tecnologica avvenuta negli ultimi decenni. Penso agli operai dell’industria automobilistica americana. Per vent’anni hanno lavorato, avuto una vita assolutamente decente. E oggi, arrivati alla soglia dei 50 anni, non è che li si possa accusare di non aver imparato a usare il computer a scuola. Ai loro tempi il computer non c’era. Sono stati travolti da questa rivoluzione tecnologica e abbiano il dovere di dare loro una mano.

Anche la Commissione Ue ha preso finalmente preso atto della necessità di correggere le storture della globalizzazione e contrastarne le ripercussioni soprattutto sugli strati sociali più deboli. Ma la Germania continua a essere inflessibile sui conti pubblici. Esiste una via di uscita?
I tedeschi sono convinti – odio dirlo, ma è così – che i popoli mediterranei, greci, italiani e via dicendo, siano tendenzialmente fannulloni. E dunque non bisogna aiutarli perché ciò non farebbe che incentivarli nei loro comportamenti. Si tratta di una visione totalmente sbagliata, moralistica, priva di qualsiasi empatia. Se poi vogliamo vederla da un punto di vista squisitamente economico, è fuori dal mondo. Basta ricordare che addirittura i repubblicani in America sono convinti che in presenza di una recessione c’è bisogno di incentivi.

Anche la politica della Bce, cioè di Mario Draghi, come specificherebbero i tedeschi, ha prodotto ineguaglianza in Europa?
Una domanda difficile. Perché il quantitative easing, cioè l’allentamento monetario, ha normalmente due effetti principali. Spinge in alto il prezzo di certi beni, assets, generando maggior ricchezza per chi li possiede. Il che significa un ulteriore allargamento della forbice della diseguaglianza. Inoltre bisogna tener presente che i titoli di stato non vengono comperati indiscriminatamente. Quelli più richiesti sono quelli più sicuri. Così, anche in questo caso a essere svantaggiati sono i Paesi già deboli. Certo, alla base della strategia di Draghi c’era la speranza di incentivare la domanda e far ripartire il mercato del lavoro. Detto ciò, è innegabile che se Draghi non fosse venuto in soccorso alla Grecia o all’Italia, le conseguenze sarebbero state drammatiche.

Tornando ancora una volta sui Big Five e alla loro posizione di monopolio che va espandendosi in tutti gli ambiti, dall’informazione e comunicazione alla logistica, all’industria automobilistica, alla sanità. È realistico immaginare un futuro nel quale questi colossi avranno in mano anche tutto il potere politico?

Non userei mai l’espressione “tutto il potere”. Perché non vi sarà mai un grado di concentrazione tale da rendere possibile uno scenario simile. Ciò non toglie però, che stanno già esercitando una influenza fatidica. Prendiamo il dibattito sulla privacy che contrappone il Vecchio Continente agli Usa. Mentre in America l’attenzione è più concentrato sui profitti, che crescono in proporzione inversa alla privacy, in Europa l’enfasi è sulla protezione della sfera privata e dunque sulla necessità di una normativa antitrust. Personalmente sono dell’avviso che gli europei facciano bene a preoccuparsi. Bisogna ridefinire la normativa antitrust, non partendo però da un sistema di mercato tradizionale, come l’abbiamo conosciuto fino a ora, ma tenendo conto di queste nuove forme di potere, di influenza a 360 gradi, che hanno i colossi digitali. Certo c’è ancora bisogno di un ampio dibattito. Un dibattito già in corso in Europa, non così negli Usa.

pagina 99, 19 maggio 2017

30.10.17

La poesia del lunedì. Giorgio Caproni

Giorgio Caproni
L'uscita mattutina

Come scendeva fina
e giovane le scale Annina!
Mordendosi la catenina
d'oro, usciva via
lasciando nel buio una scia
di cipria, che non finiva.

L'ora era di mattina
presto, ancora albina.
Ma come s'illuminava
la strada dove lei passava!

Tutto Cors' Amedeo,
sentendola si destava.
Ne conosceva il neo
sul labbro, e sottile
la nuca e l'andatura
ilare - la cintura
stretta, che acre e gentile
(Annina si voltava)
all'opera stimolava.

Andava in alba e in trina
pari a un'operaia regina.
Andava col volto franco
(ma cauto, e vergine, il fianco)
e tutta di lei risuonava
al suo tacchettìo la contrada.


Da Versi livornesi in Tutte le poesie, Garzanti, 1983

Contro il freddo due paia di calze sottili. Consigli medici anni 50 (Angelo Viziano)

 Al mercatino del modernariato, ieri mattina, attratto dalle foto di Patellani scattate durante la tremenda alluvione del Polesine nell'autunno 1951 e da quelle da Berlino Ovest di Cartier Bresson, ho comprato una vecchia copia del “Tempo” settimanale, il cosiddetto “Tempo illustrato”, del 1 dicembre di quell'anno. Vi ho trovato nella rubrica di “Medicina” l'articolo che segue.
Ho ragione di ritenere, dopo qualche ricerca in reste, che l'autore sia un medico, ma non sono in grado di dire se tutti i consigli che dà siano tutti validi (alcuni, del tipo “coprirsi quando è freddo”, lo sono di sicuro). A me è sembrata umoristica (forse involontariamente) e, a suo modo, brillante la scrittura, divulgativa nelle intenzioni e pullulante di fantasiose similitudini e briose metafore, dalla iniziale “combriccola di malfattori” alla conclusiva “salva di sternuti”. A ciò si aggiunga un tono che va dal sapienziale ciarlatanesco, nelle parti più tecniche, al petulante di certe considerazioni moralistiche. Uno spasso insomma. (S.L.L.)

Non tutti sanno vestire razionalmente per difendersi dai freddo. Molti errori li commettono le donne; ma ad uno almeno potrebbero porre rimedio senza pregiudizio dell’estetica e della moda

Il freddo nell’inverno è stato preso a comune esponente di tutta una combriccola di supposti malfattori, (come l’umidità, la pressione barometrica, l’elettricità atmosferica), soprattutto nei riguardi dello sviluppo e della diffusione delle malattie acute più frequenti in tale stagione, le respiratorie. Gli è stata attribuita un’azione debilitante l’organismo in genere e le mucose delle vie aeree in specie; sì da offrire ai germi infettivi tanto da far baldoria e regalarci una catena di malanni che van dal semplice raffreddore alle tracimiti, alle bronchiti eppoi a qualcosa di più grosso, polmoniti e broncopolmoniti, quando non si arrivi addirittura a turbare lo stato di quel doppio sacco che avvolge i polmoni, la pleura.
Una difesa, quindi, contro il freddo è lapalissiano che si imponga. Madre natura, onorandoci di differenziare il nostro mantello cutaneo dal vello degli animali, ci ha fornito un’apparecchiatura interna intesa a difendere pur noi dalle variazioni termiche ambientali, tanto da mantenere pressoché costante la nostra temperatura corporea col mutar di quella atmosferica. Il gioco è regolato da un servizio periferico cutaneo d’avvistamento delle condizioni ambientali e da una centrale di comando collocata alla base del cervello, un complesso di «nuclei» incastonati in un angoletto chiamato «ipotalamo».
Di mano in mano che i recettori periferici trasmettono con i fili nervosi le sensazioni termiche raccolte sulla cute alla stazione cerebrale, di qui si dipartono ordini difensivi netti ed immediati per la periferia stessa. In seguito ad essi, se è il freddo che infastidisce, come nel caso che ora ci interessa, le ghiandole sudoripare son richiamate all’inattività, per non disperdere con la loro secrezione calore immagazzinato nel corpo (come è lecito ed utile in estate) e i vasi sanguigni cutanei son invitati tosto a restringersi. In tal modo si riduce al minimo il passaggio della massa circolante di sangue alla superficie del corpo, da cui altrimenti tornerebbe troppo raffreddata agli organi interni. Si attua in tal modo una difesa meccanica per impedita termodispersione. Ma v’ha di più; dai centri regolatori termici partono altri ordini, per via nervosa od umorale, e subito c’è qualche ghiandola endocrina che provvede ad incrementare la produzione autonoma del calore del corpo, attizzando una specie di fuoco interno con l’aumentare delle ossidazioni cellulari. Si mette, in altri termini, in moto il meccanismo della termogenesi, al quale concorre pure lo stimolo dell’accresciuto appetito. Il freddo, difatti, par che inviti a gettar nel forno della macchina umana maggior carburante da trasformare in gran parte in calore.
Tutto ciò, tuttavia, non basta. È utile sì per i passaggi sia pur bruschi dal caldo al freddo, ma di breve durata; che altrimenti la vasocostrizione cutanea è fonte essa stessa di guai. D’altra parte perché le combustioni interne si accrescano ed il ricambio organico si equilibri bisogna che ravviamento al freddo sia graduale. Solo allora la tiroide s’adatta meglio al suo ufficio di vestale, di mantice della vita. Ragione per cui, visto che le buone intenzioni di madre natura non sono in ogni caso praticamente sufficienti, bisogna supplire con sagge e tempestive variazioni dell’abbigliamento. E non è certo questa una clamorosa scoperta!
Ma c’è davvero chi sa vestirsi razionalmente per ripararsi contro le vicissitudini atmosferiche? All’assistere a certe incongruenze della moda parrebbe di no. Si commettono errori da scontare a caro prezzo. Vi incorre la donna, ma anche l’uomo talora e magari per diverso angolo visuale. Mentre le signore, ad esempio, non tardano ad imbrigliare la loro fluente capigliatura con un cappellino di capriccio, ci son uomini di ogni età che contano ai inoltrarsi nell'inverno a testa scoperta. È un guanto di sfida che gettano al freddo, al vento, all’umidità, supponendo d’esservisi allenati... nell’estate. Fortunati quando ne escono con semplici raffreddori, che non abbiano spinto germi “di sortita” ad emigrare nelle insenature di ossa limitrofe al naso ed a darvi luogo a sinusiti, a quelle infiammazioni, frontali specialmente, tanto dolorose, persistenti e pericolose se si trasformano in purulente.
Non si dica che una buona scatola cranica è la tutrice assoluta di quell’importante viscere che è il cervello. Una sferzata di freddo al capo può avere riflessi vasomotori nello interno, mutamenti cioè improvvisi e strambi dell’idraulica cerebrale, che possono avere conseguenze più o meno violente. Certo gli è che molte nevralgie ed emicranie ribelli, oltre le riniti, possono essere prevenute col semplice uso del copricapo. Il che non esclude l’igienica aerazione della capigliatura nei momenti adatti, che non coincidono proprio con i passaggi bruschi dagli ambienti caldi al freddo.
Se ora dal vertice della persona scendiamo allo zoccolo, lì troviamo materia per incriminare a sua volta la donna. Essa è responsabile, difatti, con i suoi errori di calzatura (suole sottili, tomaia forata, calze di velo), non solo di qualche gelone sporadico ai piedi, ma particolarmente di quelle asfissie cutanee che dal collo del piede s’innalzano per un buon terzo della gamba e trapelano, con la lor tinta violacea ed un lieve turgore della pelle, attraverso quelle tele di ragno che son le calze femminili. Son queste favoreggiatrici di un ristagno di sangue nei capillari cutanei, a causa di una paralisi transitoria di tali piccoli vasi, determinata dall’azione del freddo su una loro minorata innervazione.
Dire alle signore di usar calze di lana è in molti casi vano discorso; ma il consiglio di calzarne due paia sottili di altro tessuto, forse verrà accettato quando se ne sarà spiegato l’ufficio igienico, quello di trattenere aria nella loro intercapedine, a guisa di cuscinetto lieve ed insospettato, cattivo conduttore del freddo dall’esterno e del caldo dall’interno. Vien da pensare che un suggerimento del genere ce l’abbiano offerto quei passerotti che vivono all’aria aperta e verso la notte, quando la temperatura particolarmente s’abbassa, si accoccolano su un ramo e drizzano le piume, con l’evidente intento di aumentare tra quelle lo strato d’aria per proteggersi dal freddo. La lana, in fondo, con la sua morbidezza e porosità realizza qualcosa di simile e perciò mantiene calore nel suo spessore. Sempre ligi al principio attuato dal passerotto miriamo a condizionare pure la protezione del tronco (torace ed addome, serbatoi di visceri sensibili) non sovraccaricandolo d’abiti, ma abbigliandolo con capi comodi, come si suol dire.
Tener conto bisogna infine del riscaldamento degli ambienti, erroneamente portato sovente al surriscaldamento. Naturalmente quando si debba di consuetudine soggiornare in essi a lungo, siano uffici o abitazioni, è assurdo indossar vesti non leggere; ma bisogna allora provvedere che proporzionalmente più caldi siano soprabiti e cappotti per l’uscita, ad evitare i danni dei trapassi termici; soprabiti e cappotti van tenuti per lo meno in luogo tiepido prima di essere indossati. La signora che poi s’affida a quel superbo termostato che è la pelliccia sia circospetta nello spogliarsene, allorché entra in un locale dal dubbio riscaldamento. Essendo facilmente essa in traspirazione potrebbe andare proprio incontro a malanni di raffreddamento, inaugurabili con una salva di sternuti.


“Tempo”, anno XIII n.48 1 dicembre 1951

Aurangzeb, l'imperatore bigotto che distrusse l'India (Federico Rampini)


NEW DELHI
L'imperatore indiano Aurangzeb era alla vigilia dei novant'anni quando si spense a Delhi tre secoli fa. La figura di Aurangzeb rimase per qualche tempo avvolta in un velo di mistero per una singolare decisione dello stesso sovrano. Fu l'unico Gran Moghol a diramare un editto che proibiva di scrivere la storia, di tenere resoconti degli eventi sotto il suo regno. Quasi avesse il presagio che il giudizio dei posteri sarebbe stato duro con lui. Secondo una leggenda, sul letto di morte nel 1707 fu assalito dal pentimento, ordinò agli eredi di capovolgere le sue politiche e tornare a quelle dei suoi predecessori. Forse nell'agonia vide scorrere davanti agli occhi il bilancio di mezzo secolo al potere: il tesoro dinastico dissanguato in lunghe e inutili guerre; l'odio religioso che serpeggiava tra i sudditi minando la coesione dell'impero; la nefasta influenza che lui stesso aveva concesso agli ulema islamici incompetenti nell'amministrazione pubblica.
Il fatale indebolimento dell'impero Moghol non tardò a manifestarsi. Passarono poche settimane e l'India precipitò in un vortice di guerre fratricide. «Aurangzeb», scriveva nel 1880 il grande studioso dell' India James Talboys Wheeler, «fu l' ultimo dei Moghol che giocò un ruolo importante nella storia. Esaurì le risorse dell' impero inseguendo un solo disegno: spodestare le divinità indù ed estendere la presa del Corano su tutto il paese. Il grande Akbar, all'apogeo della dinastia, aveva unificato l'impero grazie alla sua tolleranza verso tutte le razze. Aurangzeb ne distrusse le fondamenta attraverso la persecuzione. Quando morì, la disintegrazione era cominciata. Entro cinquant'anni dalla sua morte la sovranità dei Moghol era ormai un'apparenza priva di contenuto».
L'impronta di Aurangzeb è cruciale per capire le tensioni che ancora oggi turbano la convivenza tra le due maggiori religioni dell'India, indù e musulmani. La sua storia smentisce una teoria che ebbe una certa presa tra i progressisti del movimento anticoloniale e poi durante la sanguinosa partizione fra India e Pakistan: l'idea che l' odio tra indù e musulmani sia stato acceso prevalentemente dagli inglesi per servire la loro strategia del "divide et impera", e quindi che la diffidenza tra le due comunità sia un letale residuo della dominazione britannica. In realtà le radici della discordia sono molto più antiche, risalgono alle origini stesse dell'espansione maomettana dalla Penisola arabica e hanno toccato le due punte estreme proprio sotto i Moghol: la massima armonia e l'odio più implacabile.
L'Islam arriva in India fin dal primo secolo dell'Egira, il periodo che si apre con la fuga di Maometto nell' anno 622 dopo Cristo. La nuova religione viene diffusa dai mercanti lungo la Via della Seta, poi dal 711 con i raid di generali arabi che puntano verso il Rajasthan. Da quel momento l'India è costantemente sotto l'attacco dei popoli di religione islamica. Ma per molto tempo le invasioni non agiscono in profondità nell' antico tessuto della società indiana. Talboys Wheeler riassume così i primi otto secoli di incursioni: «Arabi, turchi, afgani potevano saccheggiare i templi e distruggere gli idoli, ma non riuscirono a schiacciare i vecchi culti mitologici degli indù. I regni venivano creati con la spada e mantenuti con la spada; mancava quella coesione tra i dominatori musulmani e la popolazione induista che avrebbe dovuto garantire un' influenza permanente».
È solo l' imperatore Akbar, al potere dal 1556 al 1605, a imporre una ricetta originale che cambia segno alle relazioni con gli indù. Akbar è un lontano discendente del conquistatore mongolo Tamerlano. Pur essendo musulmano ripudia sia la jihad (guerra santa) sia la legge coranica, mette radici nella classe dirigente indiana attraverso matrimoni con donne di stirpi locali, abolisce il concetto della religione di Stato, introduce principi non solo di tolleranza e dialogo ma perfino di eguaglianza tra le fedi, che rimangono eccezionali nell' intera storia dell' umanità. Akbar emargina il ceto ecclesiastico degli ulema, promuove dignitari indù ai massimi livelli dell' amministrazione, sopprime ogni veto religioso contro le belle arti. Abroga il calendario islamico sostituendolo con quello di Zoroastro, di origine persiana, perché meglio si adatta a misurare il ritmo delle stagioni e dei monsoni per l'agricoltura indiana. Ai regni di Akbar succedono quello di Jahangir e poi di Shah Jahan, che fa edificare il Taj Mahal ad Agra. Nel 1658 tra i figli di Shah Jahan s'impone come successore Aurangzeb, al termine di una lotta feroce in cui uccide i tre fratelli e rinchiude il padre nella fortezza di Agra fino alla fine dei suoi giorni (pena che verrà "abbreviata" da un avvelenamento). è l'avvio della grande restaurazione, la svolta settaria che demolisce il capolavoro politico-culturale di Akbar. Aurangzeb si professa sunnita di stretta osservanza e il suo obiettivo esplicito è estirpare l' idolatria, imporre il Corano come unica fede. Ha inizio mezzo secolo di intolleranza bigotta destinato a lasciare cicatrici profonde nell'anima dell'India. Tra i primi editti di Aurangzeb c'è il divieto del vino - pena il taglio di una mano o di un piede per i praticanti musulmani -, un proibizionismo a cui gli esperti fanno risalire la vasta diffusione del bhang, stupefacente a base di canapa indiana e altre erbe, che a quei tempi crea una tossicodipendenza di massa non meno deleteria dell' alcolismo. Subito dopo viene l' editto contro i baffi (secondo Aurangzeb impediscono di pronunciare correttamente il nome di Allah), mirato contro la minoranza persiana i cui uomini vengono braccati per le vie delle città da squadre di "tagliatori". Ben presto la musica e la danza cadono sotto i divieti di Aurangzeb, deciso a stroncare la tradizione delle sacre devadasis, raffinate ballerine, sacerdotesse e poetesse che praticano anche la prostituzione. La sua furia non risparmia i musulmani sciiti né i sufi dediti a una versione mistica dell' Islam radicata da tempo in India. Solo le minoranze cristiane godono di un trattamento un po' meno repressivo, hanno il permesso di bere vino entro le mura di casa e questa indulgenza sembra avere una spiegazione personale: Aurangzeb è innamorato di una cristiana originaria della Georgia, la bella Udipuri, e la favorita del suo harem ha un debole per il vino. L'escalation del fanatismo conosce una sola parentesi di pausa. Accade nel 1664 perché l'imperatore si ammala di un morbo misterioso. è prostrato dalla debolezza, spesso in stato di incoscienza. La sorella Royshan Rai Begum ne approfitta per un golpe di palazzo, durante la malattia di Aurangzeb si autonomina l'interprete della sua volontà, sequestra il fratello nella sua camera mettendogli a guardia un contingente di soldatesse tartare che impedisce a chiunque di avvicinarsi. Sull'origine della potenza di Royshan Rai Begum fioriscono i retroscena raccontati dagli eunuchi di corte: la sorella di Aurangzeb è considerata la vera padrona dell' harem imperiale, nel quale avrebbe varie amanti, a conferma che gli amori lesbici sono diffusi nei serragli delle concubine. Ma il Gran Moghol si riprende e il regno del terrore ricomincia. Dal 1680 al 1707 l'India viene gettata nelle sue "guerre di religione", una serie di campagne militari con cui Aurangzeb cerca di piegare i residui principati induisti, le stirpi rajput e marathi. Risale a questo periodo la più massiccia opera di distruzione di templi indù e pagode, la cacciata in esilio degli yogi, il divieto delle feste religiose locali, il licenziamento dalla burocrazia imperiale di chi rifiuta la conversione all'Islam. La misura più impopolare, che cancella ogni consenso verso il sovrano Moghul, è il ripristino della famigerata jezya, la "tassa sugli infedeli", un'imposta che era stata prelevata dai primi conquistatori musulmani ma abolita da Akbar. Le manifestazioni di protesta vengono schiacciate nel sangue dalle truppe di Aurangzeb con i blindati antisommossa del suo tempo: divisioni di elefanti. Tra gli oltraggi che si tramandano figura un episodio celebre nella guerra tra l' imperatore e il principe rajput Rana. Aurangzeb subisce una disfatta, al comando delle sue truppe cade in un' imboscata tesa da Rana. Il principe rajput sceglie la clemenza, salva la vita dell' imperatore e lascia che torni a Delhi con i suoi soldati, chiedendogli un gesto di rispetto: i musulmani nella loro ritirata risparmino le mandrie di vacche sacre. Aurangzeb in segno di spregio per quella che considera solo una debolezza del nemico dà ordine ai soldati di sventrare tutte le mucche che incontrano sulla via del ritorno. Lo scontro militare non piega però le resistenze rajput e marathi, né restaura la potenza Moghol. «Aurangzeb», scrive Talboys Wheeler, «nascose la sua decadenza agli occhi del popolo con una esibizione di lusso e magnificenza che sarebbero state ricordate per generazioni. Si spostava tra l' Hindustan e il Deccan con lo splendore e la scenografia di un Dario di Persia. Il ricordo della sua grandiosità durò più a lungo della dissoluzione dell' impero. I tumulti e le rivolte minarono la vitalità del regime, lo resero facile preda degli invasori stranieri». Gli inglesi infatti si sono affacciati in India fin dal 24 agosto 1600, data dello sbarco a nord di Bombay del primo galeone mercantile inviato dalla East India Trading Company, la società privata a cui la regina Elisabetta I ha dato in appalto i commerci con questa parte del mondo. Ma all' epoca del primo contatto fra i britannici e la dinastia Moghol l' impero indiano è al massimo del suo sviluppo, una superpotenza in confronto alla quale l' Inghilterra è una nana. Un secolo dopo i rapporti di forze sono cambiati. Grazie alle divisioni create da Aurangzeb già sul finire del Seicento un direttore della East India, Josia Child, intuisce il dissolvimento della potenza
Moghol, suggerisce che gli inglesi superino la loro presenza puramente mercantile nei porti di Bombay, Calcutta e Madras e trasformino l'immenso Paese in un protettorato. La disgregazione che segue la morte di Aurangzeb apre varchi agli inglesi, pronti ad approfittare di tutte le rivalità locali e a soffiare sul fuoco dell' odio fra indù e musulmani. L' ultimo atto nella storia degli eredi di Tamerlano ha un protagonista patetico, centocinquant' anni dopo la morte di Aurangzeb, quando ormai gli inglesi controllano gran parte dell' India. La rivolta dei soldati indiani, i sepoys, che divampa nel maggio 1857, è in cerca di un leader e in mancanza di meglio lo designa nell' ultimo discendente dei Moghul, l' ottantunenne Shah Zafar II, un re-fantoccio privo di poteri che conduce una placida esistenza nel Forte Rosso di Delhi scrivendo poesie e maneggiando aquiloni colorati con i suoi nipotini. Zafar obbedisce a un istinto regale, accetta l'investitura a capo della ribellione. Sembra ricordare la lezione dei suoi antenati, l'apoteosi della civiltà indiana con Akbar e la rovina sotto Aurangzeb. Nei pochi mesi in cui è leader dei rivoltosi, l' ultimo dei Moghol respinge le richieste dei musulmani più fanatici e contro gli inglesi riesce a mantenere unito un fronte composito di indù e islamici. Un'intuizione giunta troppo tardi. Nel settembre 1857 vince la controffensiva e scatta la feroce repressione britannica. Dopo una barbara strage degli abitanti di Delhi gli inglesi catturano re Zafar e lo esiliano in un loro territorio coloniale, la Birmania. Morirà nell' oblio. Per rivedere l'ecumenismo e la benefica tolleranza di Akbar bisognerà aspettare ancora quasi un secolo, fino all'avvento di Gandhi.


“la Repubblica”, 22 aprile 2007  

Amy Johnson, l’aviatrice dei record (Paola Rinaldi)

La storia è solcata da passi femminili.
Le donne di ogni epoca hanno viaggiato in lungo e in largo per passione, necessità o missione: le regine per intrecciare relazioni politiche e diplomatiche, le fondatrici di istituti religiosi per portare nel mondo il proprio zelo missionario, le antropologhe per studiare la realtà di Paesi lontani, le esploratrici per un desiderio di avventura, le esuli perché costrette ad abbandonare la patria.
Per Amy Johnson, l’aviatrice inglese che stabilì numerosi record di percorrenza negli anni Trenta del Novecento, sono stati soprattutto la distanza e il mezzo di trasporto ad accendere la sua passione per i viaggi.
Dopo essersi laureata alla Sheffield University, Amy diventa segretaria dell’avvocato londinese William Charles Crocker, covando segretamente il desiderio di volare.
Inizia a esercitarsi presso il London Air Club di Edgware e, sotto la guida del Capitano Valentine Baker, è la prima donna britannica a conseguire la licenza C.
Grazie al sostegno di suo padre, che l’aiuta a comprare un aereo di seconda mano battezzato “Jason”, nel 1930 Amy sfida se stessa e raggiunge Karachi in sei giorni, battendo il record mondiale per la distanza.
Nello stesso anno, si spinge fino all’Australia dopo aver volato per 11 mila miglia.
Nel luglio 1931, insieme al co-pilota Jack Humphreys, raggiunge Tokyo attraversando la Siberia e stabilendo un tempo record per volare dall’Inghilterra al Giappone.
L’anno successivo, realizza un record personale per il volo da Londra a Città del Capo, in Sud Africa.
Nel 1940, nell’ambito della Seconda Guerra mondiale, si presta nel trasporto aereo ausiliario (ATA) e, infine, non fa ritorno da un volo nel gennaio 1941: finita fuori rotta a cause delle condizioni climatiche avverse, il suo corpo non è mai stato ritrovato.
A renderla famosa sono state le sue imprese di pilota, le fotografie che documentano i suoi viaggi, ma soprattutto il coraggio, abbracciato in un momento storico in cui erano pochissime le donne a volare.
Ancora oggi, numerosi edifici e strade sono intitolati a lei: un dipartimento presso l’Università di Sheffield e diverse vie importanti, tra cui Darwin (Australia), Bridlington (Yorkshire), Blackpool (Lancashire) e Londra.

Dal sito “L'uomo con la valigia”, 26 aprile 2012

Moda. C’è sempre un vestito tra noi e il mondo (Emanuele Coccia)

Emanuele Coccia, maître de conférence all’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, ha tenuto il 16 settembre a Carpi – all’interno del festival filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo – una lezione magistrale sulla moda come supplemento del corpo, che venne pubblicata da “Pagina 99” e che qui riprendo. (S.L.L.)
1936.   Amy Johnson, dopo il  volo solitario tra Londra e Città del Capo
indossa un completo in lana ideato e realizzato per lei da Schiappparelli
Non è un’arte come tutte le altre. La moda è la più universale delle arti. È la natura particolare delle sue opere a renderla così diversa. A differenza degli oggetti prodotti dalle belle arti tradizionali, gli abiti non hanno bisogno di rivendicare nessuna autonomia, nessuna separazione, nessuna indipendenza dall’uso. Non solo li usiamo, ma li usiamo tutti i giorni, tutto il giorno, fino alla fine dei nostri giorni. Per questo sono costretti a ritmare il nostro tempo, a incarnarlo e a dargli forma molto più di qualsiasi altro artefatto umano. Le arti hanno sempre preteso di produrre oggetti che si oppongono al tempo e ai suoi capricci, di partorire artefatti più perenni del bronzo. La moda ha preferito assecondare il tempo in tutti i suoi eccessi e le sue ubbie, le sue fantasie storiche e i suoi arbitri climatici, e per questo ne è diventata la più fedele interprete, fino a farsi l’arte del tempo per eccellenza.
L’abito è il tempo che si fa carne e aspetto del nostro corpo: non solo la primavera o l’autunno, ma improvvisamente gli anni ’50 o gli anni ’70 cessano di essere realtà atmosferiche o storiche per farsi attributo e forma della nostra anatomia. Fu Yves Saint Laurent, all’inizio dei Settanta, a distruggere per sempre l’idea che la haute couture e la moda in generale debbano essere il mero strumento di riproduzione dei gusti e dell’egemonia culturale dell’aristocrazia o dell’alta borghesia, assegnandole il compito di farsi lo strumento più raffinato di comprensione e produzione della storia, dello spirito del tempo.
Quanto si prova a costruire e trasmettere attraverso una composizione inedita di scampoli di seta, pelle, lana o cotone non è certo il gusto incerto di uno stilista, né il desiderio di distinzione individuale o di classe: è il volto che ciascuno di noi crede di percepire nella trama spesso incomprensibile degli eventi e delle azioni. Fare (o indossare) un abito significa cercare di rendere intelligibile il nostro tempo, fornire strumenti di orientamento in un mondo di cui nulla e nessuno ormai pretende di conoscere il segreto.
Non è un’arte come tutte le altre. La moda è la più onnipresente delle arti. Non c’è bisogno di varcare la soglia di musei, le gallerie o le piazze pubbliche per farne conoscenza. Il suo luogo è la materia stessa che ci dà vita e di cui siamo forma: il nostro corpo. I vestiti aderiscono alla sua pelle, lo seguono in ogni suo gesto, sostengono ogni suo respiro. Nessun’altra arte può rivendicare questa prossimità all’umanità, nessun’altra potrà mai disporre dello stesso potere di liberare o imprigionare uomini e donne. Prima ancora di manipolare questo giornale o posarvi su questa scrivania, prima ancora di vedere i colori del paesaggio che vi circonda e gustare gli odori che vi penetrano, c’è una porzione di mondo di cui siete appena coscienti che ha rinunciato alla propria forma per seguire la linea delle gambe e del vostro petto, che si aggrappa ai vostri piedi e al vostro bacino, come a voler costringere il mondo a diventare la vostra pelle.
La moda crea il primo mondo di ciascuno di noi, quello in cui ci immergiamo ogni giorno, e lo costringe ad adeguarsi ai nostri bisogni, ai nostri sogni, alle nostre fedi così fragili e arbitrarie. Prima ancora di costruire case, abbiamo imparato a trasformare le cose nella nostra pelle, a fare del mondo il nostro stesso volto. Proprio per questo, come nessun altro oggetto d’arte, gli abiti sono capaci di modificare e trasformare non solo la nostra identità, il nostro modo di vivere e d’essere, ma la realtà stessa della Terra. Quanto uno stilista ha nelle sue mani non è solo uno specchio con cui alimentare il narcisismo delle masse, ma la tecnica che rende possibile l’equilibrio tra umanità e mondo.
Non è un’arte come tutte le altre. La moda è la più sociale delle arti. A differenza delle opere d’arte tradizionali, gli abiti non sono riservati a un’élite di connaisseurs. Tutti ne hanno e ne debbono avere, quale che sia la classe sociale, il ceto, il contesto da cui provengono o la situazione in cui sono immersi.
Miti antichi raccontano che, prima ancora di inventare e fabbricare tessuti, l’uomo abbia ricavato i primissimi vestiti dalla caccia: le vesti erano le spoglie degli animali uccisi, i mantelli dei viventi di cui l’uomo si era nutrito o da cui si era difeso. È per questo, forse, che la moda custodisce da sempre una malcelata crudeltà: indifferentemente dai tagli e dalle misure che impone al corpo umano, v’è qualcosa di demonico nei suoi gesti e nelle sue opere. Ed è probabilmente a causa di questa lontana origine, soprattutto, che tutti gli abiti sono maschere: vestirsi significa da sempre, alla lettera, mettersi nella pelle degli altri, incarnarsi in un altro corpo. Solo la pelle, del resto, può divenire abito: un vestito non è un oggetto appoggiato casualmente su un corpo, ma materia che aderisce talmente al corpo fino a diventarne il respiro più intimo. È questa la lezione dell’opera dello stilista Azzedine Alaïa: la moda non è forma, non è disegno, è il tessuto che diventa pelle, un pelle a pelle con il corpo di uomini e donne.
Ciò che chiamiamo morale, forse, non è che una conseguenza della necessità di indossare abiti: vestirsi deve significare, ogni volta, la pelle altrui nel nostro privatissimo, illeggibile, incomunicabile tatuaggio.

Pagina 99, 15 settembre 2017

Anniversari. Franco Fortini, in nome del futuro (Paolo Di Stefano)

«Che sant’uomo, ma che tormento!». Fu la sua amica Grazia Cherchi a trasferire su Franco Fortini la frase che don Abbondio rivolse al Cardinale. Un sant’uomo fin troppo inquieto. Fortini diede ragione all’amica, al punto che ricordando la sua presenza nel comitato della rivista «Officina», formato da Pasolini, Roversi, Leonetti, Scalia, Romanò e altri, ammise con (insolita) autoironia: «Quanto a me, ero un seminatore di scandali e di scismi, su questo non c’è dubbio; e credo veramente che la pazienza di quegli amici io la portassi al limite». È così, naturalmente, Fortini ha portato al limite la pazienza della cultura italiana, perché non era mai contento di nulla, tantomeno del presente che viveva. Come ha scritto Giovanni Raboni, fino all’ultimo giorno della sua vita Fortini si è rifiutato di smettere di sognare, ovvero di seguire il consiglio pressante che ci viene dal nostro tempo: finirla, una buona volta, di sognare. Consiglio, peraltro, su cui gran parte della cultura (non solo politica e non solo italiana) si è ampiamente allineata molto più di quanto lo stesso Fortini potesse temere o immaginare.
Per questo il poeta (grandissimo), critico, saggista è oggi più che mai fortemente «inattuale», parlava del presente «in nome del futuro» (sempre Raboni): con l’atteggiamento mentale dell’educatore che ha e vuole trasmettere l’ossessione di distinguere (il bene dal male). Comunque sempre scomodo, eretico, non ortodosso come marxista, non istituzionale come letterato, anticonfessionale come intellettuale sensibile al pensiero religioso. Già in vita Fortini è stato descritto non solo dai suoi numerosi avversari come una specie di Savonarola, un predicatore perennemente con il dito puntato. Pasolini lo accusò di essere «malfidato» nell’accezione romanesca, non nel senso di malfido ma di malfidente. «È piuttosto vero», disse Fortini, che era orgoglioso della «fredda ira» (Berardinelli dixit) che traspariva persino dalla sua poesia: fermo restando che tra poesia e ideologia o critica della società e del mondo per lui non c’era alcuna soluzione di continuità. «La mia grinta mortuaria, di ghiaccio-represso», per usare parole sue, si indirizzava ovunque sentisse profumo di conformismo, di opportunismo da chierici, di specialismo asettico da «logotecnocrati» (per usare il sarcasmo del suo amico Cesare Cases).
Polemizzò con tutti, Fortini, anche e soprattutto con gli amici. E anche questo massimalismo infaticabilmente dialettico lo rende prezioso in un tempo in cui la polemica non c’è o si riduce a insulto sterile: basta leggere la sua Verifica dei poteri, un libro del 1965 riproposto adesso dal Saggiatore con prefazione di Alberto Rollo. Dove si parla di padri e di figli (tensione tra passato e futuro, appunto): anche di padri ingombranti, come osserva Rollo, a cominciare da Lukács, per continuare con Auerbach, Spitzer, Goldmann… Leggendo Pasternak, Proust, Kafka, Mann, Brecht, Fortini «verifica» la distanza dalla grandezza e cioè dalla verità, che è il (sottinteso) obiettivo utopico verso cui non si stanca di tendere chi vorrebbe, come lui, trasformare radicalmente il mondo. In definitiva verificare è il suo atteggiamento costante, qualcosa che somiglia a un «mandato» sociale sia quando è poeta sia quando è filologo sia quando è moralista, ed è per questo che non c’è separazione neppure tra il critico letterario e il saggista etico-politico che comunque instaurano un rapporto necessariamente conflittuale con la propria materia e con la propria contemporaneità.
Come fa presente Pier Vincenzo Mengaldo (il massimo lettore di Fortini), «certamente sua non è quell’arte della mediazione che era somma in Lukács», essendo, al pari di Pasolini, «uomo dell’impazienza e non della tessitura, del fulmine e non del fuoco lento». Amici e nemici, Fortini e Pasolini, simili e opposti. Romano Luperini definisce benissimo i due caratteri: «L’uno è poeta di un’inibizione, l’altro di un’esibizione. Fortini tende al distanziamento razionale e quasi classico (…); Pasolini alla visceralità. Il primo ha in orrore ogni eccesso vitalistico, odia l’intemperanza e la mancanza d’equilibrio sia nel comportamento sia nelle scelte linguistiche, e ha sempre rifiutato lo sperimentalismo; il secondo trovò in una disperata vitalità l’unica ragione della sua esistenza…».
Da queste prospettive divergenti nascerà nel novembre 1956 il celebre (e rude) confronto in versi, ospitato da «Officina», sul rapporto intellettuale-realtà tra il militante socialista ma intimamente comunista (Fortini) e il «compagno di strada in crisi e scomodo» (Pasolini), lontano da ogni schieramento diretto. L’incontro tra Fortini e la «nuova sinistra» dei «Quaderni piacentini» allargherà la distanza, tant’è vero che in Verifica dei poteri, la «disarmata sincerità» di Pasolini, definita «inutile coazione a ripetere», viene collocata tra i tanti bei gridi «così sterili, rauchi — e confusi» contro la meschina infamia dell’Italia. La rottura diventa quasi insanabile con le barricate del Sessantotto, quando i due ex sodali si ritroveranno su sponde avverse. Ma quella lunga burrasca intellettuale verrà poi rivissuta, a bocce ferme, nel 1993 in un libro, Attraverso Pasolini, in cui Fortini fa i conti con se stesso: «Aveva torto e io non avevo ragione». L’assassinio di Pasolini, secondo l’amico, conferì valore profetico agli stessi scritti corsari la cui visceralità ingenua (o finto ingenua) non gli era mai piaciuta.
Avrebbe potuto avvicinare Fortini a Pasolini la nuova temperie del Gruppo 63, che li vedeva ugualmente ostili, ma non avvenne, benché Pier Paolo, proprio in quella fase, provò a coinvolgere Franco nella rivista che dirigeva con Moravia e con la Morante, «Nuovi Argomenti». Le ragioni del rifiuto erano inequivocabilmente politiche: Pasolini a Roma, con i suoi film, da Accattone al Vangelo secondo Matteo, appariva come il protagonista di un centro di potere, una figura precipitata nel discredito dei giovani intellettuali che circondavano Fortini (Panzieri, Solmi, Bellocchio, Cherchi, Fofi…). Il quale nel frattempo aveva aperto un conto con la neoavanguardia di Sanguineti che, sempre in Verifica dei poteri, viene individuato come il fautore dell’avanguardia come «arte da museo e da atelier di moda», il teorico dell’«altra faccia della chiacchiera di massa», ovvero della neoavanguardia come saldatura tra letteratura e ordine borghese-capitalistico. Né in questo caso, diversamente dal rapporto con Pasolini, Fortini ha avuto ripensamenti, se è vero che in un ritratto degli anni Novanta appare ancora più duro, parlando di «fastidioso culturalismo poliglotta» e, peggio ancora, della «posizione politica di parlamentare, per così dire, “normalizzato”», in cui Sanguineti «sembra trovare un contenitore per i frantumi psichici del suo passato»: «Una ironia depressiva fra crepuscolarismo, comunismo e liberty».
Per la verità, non è che dal suo nemico gli siano mai mancate durissime repliche pan per focaccia. Analogo trattamento fortiniano nei confronti delle sperimentazioni di Giorgio Manganelli, colpevole, con il suo «spreco e fasto lessicale», di immergere il lettore nei «piaceri della pubblicità televisiva». E così non meravigliano le riserve, contraddittorie, nei confronti del padre ideale della neoavanguardia, Gadda, verso il quale Fortini dichiara senza mezze misure: «Mi è sempre stato antipatico», «certe laceranti delusioni non mi commuovono affatto». Ma su un altro versante, si ricorderanno la netta repulsione per La storia di Elsa Morante o le ironie acide a proposito del successo ottenuto dalle Lezioni americane dell’amico Calvino: «Un decennio di “pensiero debole” e di relativismo da morale laica hanno disposto moltissimi ad accogliere queste pagine».
Sono discussioni e prese di posizione lontanissime, ben più remote di quanto la cronologia esterna farebbe credere. Talmente anacronistiche da risultare sempre indispensabili. In fondo oggi verificare sarebbe più urgente che mai.


Corriere della sera, 7 settembre 2017  

29.10.17

Giuseppina Vittone. La partigiana deputata che rifiutò i soldi dell'Ars (Amelia Crisantino)

Partigiana, comunista, deputata e, soprattutto, esempio di etica politica con pochi precedenti e ancor meno epigoni.
«Mia madre è stata protagonista, ma non è stata una primadonna», riflette Luciano Li Causi, il figlio di Giuseppina Vittone Li Causi, la militante, siciliana adottiva, moglie di Girolamo Li Causi, morta pochi giorni fa. Giuseppina era molto riservata, anche in casa: luie la sorella Renata non hanno mai saputo come si sono incontrati i loro genitori. E solo adesso diventa pubblica la notizia che Giuseppina Vittone Li Causi, eletta all'Ars nel 1955, ha rifiutato lo stipendio da deputata perché in casa c'era già quello del marito. Un caso probabilmente unico in Italia, che rimanda a un alto profilo etico e a un'idea della politica come servizio per cui non ricevere alcun beneficio, ben lontano dagli sperperi abituali di Palazzo dei Normanni.
«Lei era sempre sobria, il suo non è stato un gesto pubblico», racconta il figlio Luciano. In quegli anni l'Ars aveva piena autonomia amministrativa, bastava un semplice deliberato del Consiglio di Presidenza a sistemare la faccenda dal punto di vista contabile: in quei verbali, oggi chiusi in cassaforte, non si avanzano certo analisi o ipotesi sull'insolita rinuncia. Né Giuseppina Vittone ha mai commentato la sua scelta in uno scritto o nelle rare interviste. Semplicemente, la ragazzina che tante volte aveva rischiato la vita come staffetta partigiana decide di rimanere per sempre una volontaria. E, in silenzio, radicalmente abbatte i costi della politica con un gesto ignorato ma esemplare. Da cui tanto ci sarebbe da imparare. 
Giuseppina Vittone aveva conosciuto il siciliano Girolamo Li Causi nel 1943. Lui era un prestigioso capo comunista, aveva 47 anni; lei era solo ventenne, ma aveva la determinazione dei ragazzi entrati nella Resistenza. Di famiglia operaia, su incarico del partito aveva frequentato un corso di stenografia per potere trascrivere i comunicati di Radio Londra e Radio Mosca. Inoltre assicurava la diffusione de "l'Unità", pubblicazione mensile e poi quindicinale stampata a Milano. Pare niente, ma era un'attività clandestina e pericolosa. 
Una volta, nel marzo del '43, a Mirafiori si organizzava uno sciopero e Giuseppina era andata a Milano, a prendere le copie del giornale: le portava strette intorno alla vita, tenute da uno spago che si ruppe per strada e fortuna che finì bene.
Ma il pericolo era qualcosa con cui convivere, al Nord come al Sud. Cambiavano solo le vicende e lo sfondo, alle fabbriche torinesi seguivano i latifondi siciliani. Divenuta compagna di Li Causi, nel 1945 Giuseppina Vittone arriva in Sicilia. Il partito la utilizza per la campagna elettorale, molti anni dopo lei avrebbe ricordato quei giorni con Miriam Mafai: «Mi mandarono subito a fare un comizio a Bisacquino. Fu un incontro che ricordo con terrore. Non capivo nulla di quello che dicevano quei compagni... ricordo ancora questa piazza di Bisacquino che le donne non attraversavano mai, frequentata solo dagli uomini. Avrò forse parlato della Resistenza e della guerra di liberazione, ma il comizio venne interrotto dal prete che fece suonare le campane». 
Forestiera e compagna di un leader molto amato, Giuseppina rischia di rimanere soffocata nell'ombra ma riesce a costruirsi una personalità autonoma. Intanto nel '46 si sposa con matrimonio civile a Termini Imerese, il paese di Li Causi, perché nel Pci moralista di quegli anni non bisognava suscitare scandalo. Poi decide di essere siciliana. E ci riesce. Sino al punto di lanciarsi a parlare il dialetto durante i comizi, lei che a Bisacquino non aveva capito una parola. Ritroviamo Giuseppina Vittone in tutte le battaglie di quegli anni: la città e il suo entroterra vivono problemi enormi e lei è sempre presente. Nella primavera del '46 è con le donne dell'Udi - Unione donne italiane - nei paesi dell'entroterra, per spiegare alle contadine il significato del referendum istituzionale del 2 giugno. È una dirigente comunista, organizza le altre militanti: Lucia Mezzasalma ricorda l'abituale convocazione del lunedì mattina, per fare il punto sui quartieri popolari di Palermo.
Giuseppina partecipa all'occupazione delle terre e alcuni anni dopo, intervistata da Marcello Cimino, afferma di stimare le contadine siciliane: «Soprattutto per il loro senso di dignità,e per la forza morale con cui resistono ad episodi talvolta feroci». Le campagne siciliane sono molto distanti da Torino, ma lei vive così profondamente la Sicilia da diventare un capopopolo. Nei vicoli di Palermo e nei latifondi non è sola, fa parte di una pattuglia di donne che guidano le lotte per i diritti più elementari: Anna Grasso, Maria Fais, Giuliana Saladino, Lina Colajanni, Maria Conti e tante altre: sono loro che prendono su di sé il compito storico di avvicinare le donne del popolo alla politica.
Gioacchino Vizzini, nel 1959 segretario della palermitana Federazione giovanile comunista - la Fgci - ricorda Giuseppina Vittone che tiene comizi nei vicoli dell'Albergheria o affacciata a un balcone di Ballarò: «Era una trascinatrice. Io, studente liceale, ho visto le donne che l'ascoltavano e piangevano commosse». Nel centro storico ancora brulicante di residenti Giuseppina parla della lotta per l'acqua, del lavoro, del diritto alla casa. Siamo in una città dove il popolino vota i monarchici che fanno campagna elettorale con i pacchi di pasta o di zucchero, lei comprende che il grande problema del partito comunista coincide col mettere radici. Allora insiste sui diritti, cerca di mostrare che non si tratta di parole astruse. E moltiplica i comizi «di strada e di quartiere» che si tengono nei vicoli, sono l'unico modo per raggiungere le donne che in piazza non vanno.
L'8 marzo 1953 Giuseppina Vittone lancia la "Settimana della donna che vota", insedia gruppi di lavoro nei vicoli e nei caseggiati. È all'Ars dal 1955 al '59, da deputata regionale si intesta battaglie sulla parità salariale e il diritto al lavoro. Continua a essere una volontaria-dirigente anche quando, nel 1960, assieme alla famiglia lascia la Sicilia per trasferirsi a Roma. «Mi chiede se era rimasta legata alla Sicilia? - conclude il figlio - Lei ormai era diventata siciliana, tanto che parlava ancora con un forte accento».


“la Repubblica”,10 settembre 2013