Sono bastati meno di
trent’anni per stravolgere le regole del capitalismo che hanno
dominato negli ultimi due secoli lo sviluppo economico
dell’Occidente. Due gli attori principali: la globalizzazione e le
nuove tecnologie. Una rivoluzione che ha prodotto crescente
disuguaglianza e l’affermarsi di grandi monopoli digitali. Un mix
che potrebbe risultare fatale per gli strati sociali più deboli così
come per le nostre democrazie, sostiene Joseph Stiglitz, premio Nobel
per l’economia del 2001, del quale Einaudi ha appena pubblicato
L’Euro – Come una moneta comune minaccia il futuro
dell’Europa. Pagina99 ha incontrato Stiglitz una settimana fa,
a margine del ciclo Milano Talks, incontri sul futuro del lavoro,
organizzato dalla Fondazione Feltrinelli.
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Manhattan, New York - Il premio Nobel Stiglitz alla finestra |
In un articolo scritto
un anno fa su Social Europe, lei sottolineava che anche i cinque
colossi del digitale – Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft
– contribuiscono ad aumentare le ineguaglianze. Perché?
I motivi sono diversi.
Cominciamo da quello tecnologico. Se ci si muove sulla stessa
piattaforma, è logico che chi si è assicurato la posizione migliore
tenderà a concentrare su di sé il maggior numero di utenti. Da qui,
per esempio, la posizione di monopolio di Facebook. Il fatto è -
seconda considerazione - che questo predominio è in mano a un
privato che determina i prezzi, potendoli far lievitare a proprio
piacimento. Così tutti pagano di più, mentre i profitti finiscono a
un unico soggetto. Infine c’è una terza considerazione che non
avevo fatto nell’articolo di un anno fa, ma che risulta non meno
allarmante. Questi cinque colossi oggi veicolano notizie,
informazioni, conoscenza, decidendo cosa diffondere e cosa no. Questo
loro potere è un pericolo per le democrazie e al tempo stesso
produce ineguaglianza. Siamo in una fase di profonda trasformazione,
che spinge verso una società dell’apprendimento in tutti campi,
economia e innovazione comprese. L’accesso alle conoscenze deve
essere libero e garantito a tutti.
Ma c’è anche una
gestione monopolistica del know how da parte di questi big?
C’è questa storia che
mi pare interessante raccontare. Apple tempo addietro era riuscito a
convincere gli altri attori della Silicon Valley – a sua volta un
attore monopolista nell’ambito dell’information technology
– a sottoscrivere un accordo con il quale tutti si impegnavano a
non sfilarsi reciprocamente i collaboratori. L’obiettivo era tenere
basse le remunerazioni. Solo che sono proprio le conoscenze e le
capacità creative a costituire la base remunerativa di questi
collaboratori. Detto altrimenti, queste compagnie cercavano di
derubare surrettiziamente e per conto dei loro azionisti questi
lavoratori. La giustizia è intervenuta solo nel momento in cui c’è
stata una denuncia.
Sommando i valori di
capitalizzazione di borsa dei Big Five si ottiene una cifra
che corrisponde al Pil del quinto Stato più ricco al mondo, prima di
Italia, Francia e Regno Unito e dopo la Germania.
Si tratta di una
altissima concentrazione di potere economico che permette di
influenzare in senso più lato anche le politica. A Cupertino sono
più o meno convinti di poter dettare loro la politica fiscale. Di
poter dire: «Se non cambiate la legge sulla tassazione, noi non
riportiamo indietro i nostri soldi». Un potere che un normale
cittadino non ha. Non peccano di presunzione, questo potere ce
l’hanno veramente e ciò costituisce un pericolo.
Dunque ci sarebbe
bisogno di una normativa aggiornata?
Certo, ci vorrebbe per
gli Stati Uniti così come per l’Europa. Meglio ancora se Usa e Ue
ne elaborassero una comune. Ci sono però tre motivi per cui fino a
oggi ciò non è avvenuto. Il primo è che, fino a non molto tempo
fa, non era così evidente questo potere. In secondo luogo gli Usa, e
in particolare i repubblicani, così come in Europa i partiti di
centro destra, non hanno mai creduto veramente nella necessità di
una regolamentazione. Infine, come già detto, queste compagnie sono
potenti. A provarlo è stato Apple quando ha dovuto rendere conto
davanti al Congresso per non aver pagato le tasse in Irlanda. Anziché
essere considerato un evasore, l’amministratore delegato Tim Cook è
stato trattato con tutte le attenzioni che si riservano a un
corporate leader.
C’è da supporre che
l’attuale amministrazione americana guidata da Donald Trump non
abbia alcun interesse a cambiare le cose?
No, proprio no. Anche se
i repubblicani, difensori da sempre di una bassa tassazione, sanno
bene che una simile fiscalità presuppone che tutti paghino il
dovuto. Con questo voglio dire che anche tra i repubblicani c’è
chi non è contento che queste aziende la facciano franca perché
così finiscono per pagare di più i cittadini. Per questo sono
convinto che sarebbe possibile arrivare a definire una normativa
quadro che costringa i Big Five a fare la loro parte. Certo
per arrivare a questo risultato dovrebbe nascere un movimento dal
basso.
Nell’articolo
pubblicato nel volume Ripensare il capitalismo, curato da
Mariana Mazzuccato e Michael Jacobs e appena pubblicato in Italia,
lei sostiene che un eccesso di diseguaglianza frena la crescita.
Capitalismo ed eguaglianza non sono una contraddizione in termini?
Non intendo
un’eguaglianza totale. Quella non esiste. Mi riferisco alle
distorsioni che hanno portato a un sistema economico sempre meno
inclusivo negli Usa, così come in altri Paesi. E che queste
distorsioni non siano inevitabili lo dimostrano Paesi come quelli
scandinavi, che hanno sì, economie di mercato, ma più eque.
Quello dei Paesi
scandinavi è un esempio che lei fa spesso, spiegando che alla base
di questi risultati c’è una maggior apertura verso l’esterno.
Apertura economica o di mente? Tenendo conto che siamo in un momento
in cui si assiste a un ritorno di nazionalismi.
Sia economica che
mentale, direi. Gli scandinavi sono partiti dalla constatazione di
essere Paesi piccoli e che dovevano aprirsi alla globalizzazione se
volevano avere successo. Questa apertura implica però una certa
volatilità del mercato. E per evitare di ritrovarsi un giorno con
cittadini che si ribellano perché si sentono dei perdenti, era
necessario far sì che nessuno rimanesse indietro. Da qui la
decisione di sostenere questo modello di sviluppo con l’introduzione
di meccanismi di protezione sociale.
Lei sostiene che non
sia la globalizzazione di per sé a essere negativa, ma il modo in
cui è stata gestita finora. Cioè, svuotando il potere contrattuale
dei lavoratori, abbassando i salari e indebolendo i sindacati. E
questo è uno dei motivi alla base della nascita dei movimenti
populisti. Ma come si può ora invertire la rotta?
C’è bisogno di forme
di protezione sociale per sostenere persone che hanno perso il lavoro
o i cui salari si sono drammaticamente ridotti. Inoltre vanno
introdotte opportunità di riqualificazione. Dobbiamo essere
consapevoli dell’incredibile rivoluzione tecnologica avvenuta negli
ultimi decenni. Penso agli operai dell’industria automobilistica
americana. Per vent’anni hanno lavorato, avuto una vita
assolutamente decente. E oggi, arrivati alla soglia dei 50 anni, non
è che li si possa accusare di non aver imparato a usare il computer
a scuola. Ai loro tempi il computer non c’era. Sono stati travolti
da questa rivoluzione tecnologica e abbiano il dovere di dare loro
una mano.
Anche la Commissione
Ue ha preso finalmente preso atto della necessità di correggere le
storture della globalizzazione e contrastarne le ripercussioni
soprattutto sugli strati sociali più deboli. Ma la Germania continua
a essere inflessibile sui conti pubblici. Esiste una via di uscita?
I tedeschi sono convinti
– odio dirlo, ma è così – che i popoli mediterranei, greci,
italiani e via dicendo, siano tendenzialmente fannulloni. E dunque
non bisogna aiutarli perché ciò non farebbe che incentivarli nei
loro comportamenti. Si tratta di una visione totalmente sbagliata,
moralistica, priva di qualsiasi empatia. Se poi vogliamo vederla da
un punto di vista squisitamente economico, è fuori dal mondo. Basta
ricordare che addirittura i repubblicani in America sono convinti che
in presenza di una recessione c’è bisogno di incentivi.
Anche la politica
della Bce, cioè di Mario Draghi, come specificherebbero i tedeschi,
ha prodotto ineguaglianza in Europa?
Una domanda difficile.
Perché il quantitative easing, cioè l’allentamento
monetario, ha normalmente due effetti principali. Spinge in alto il
prezzo di certi beni, assets, generando maggior ricchezza per
chi li possiede. Il che significa un ulteriore allargamento della
forbice della diseguaglianza. Inoltre bisogna tener presente che i
titoli di stato non vengono comperati indiscriminatamente. Quelli più
richiesti sono quelli più sicuri. Così, anche in questo caso a
essere svantaggiati sono i Paesi già deboli. Certo, alla base della
strategia di Draghi c’era la speranza di incentivare la domanda e
far ripartire il mercato del lavoro. Detto ciò, è innegabile che se
Draghi non fosse venuto in soccorso alla Grecia o all’Italia, le
conseguenze sarebbero state drammatiche.
Tornando ancora una
volta sui Big Five e alla loro posizione di monopolio che va
espandendosi in tutti gli ambiti, dall’informazione e comunicazione
alla logistica, all’industria automobilistica, alla sanità. È
realistico immaginare un futuro nel quale questi colossi avranno in
mano anche tutto il potere politico?
Non userei mai
l’espressione “tutto il potere”. Perché non vi sarà mai un
grado di concentrazione tale da rendere possibile uno scenario
simile. Ciò non toglie però, che stanno già esercitando una
influenza fatidica. Prendiamo il dibattito sulla privacy che
contrappone il Vecchio Continente agli Usa. Mentre in America
l’attenzione è più concentrato sui profitti, che crescono in
proporzione inversa alla privacy, in Europa l’enfasi è sulla
protezione della sfera privata e dunque sulla necessità di una
normativa antitrust. Personalmente sono dell’avviso che gli europei
facciano bene a preoccuparsi. Bisogna ridefinire la normativa
antitrust, non partendo però da un sistema di mercato tradizionale,
come l’abbiamo conosciuto fino a ora, ma tenendo conto di queste
nuove forme di potere, di influenza a 360 gradi, che hanno i colossi
digitali. Certo c’è ancora bisogno di un ampio dibattito. Un
dibattito già in corso in Europa, non così negli Usa.
pagina 99, 19 maggio 2017