2.10.17

Antonio Banfi. Il partito è il mio dio (Antonio Gnoli)

"Caro Remo, grazie per la tua lettera che vorrebbe in risposta un bel lungo discorso. E lo faremo a voce. Per ora mi preme che tu senta vicino il mio affetto e che tu veda qual è il punto di vista che l'esperienza mi mostra come il più giusto. Forse può essere utile anche a te".
È l'incipit di una lettera fino ad oggi inedita che il filosofo Antonio Banfi scrive in data 28 dicembre 1948 all'amico e allievo Remo Cantoni. C'è stima e affetto ma anche una puntigliosa disamina di che cosa significhi essere militanti di un partito operaio. L'occasione di questa missiva è fornita dalle dimissioni che Cantoni ha dato dal partito comunista. "Non dirmi", si legge a un certo punto, "che si può essere marxisti fuori dal partito. A breve scadenza si diventerebbe antimarxisti e anticomunisti... Tu mi dici, per esempio, ed è vero, che contro il marxismo volgare Marx e Lenin hanno parole di fuoco. Rimane da vedere se oggi il riferire queste parole... non vada ad indebolire la lotta stessa a vantaggio dell'avversario. E soprattutto se oggi il nostro compito sia, piuttosto che combattere in generale il marxismo volgare, quello di fare del marxismo concreto che, come tale, è anche un rafforzamento della lotta. Insomma noi non possiamo mai dimenticare la lotta in cui il partito e la classe sono ingaggiati e non solo perché è qui attorno a noi, ma perché dimenticando quella, perderemmo di vista la base stessa del marxismo e la sua portata etica in cui si giustifica lo stesso sforzo per la libertà della ragione".
Pensatore diverso Banfi, allievo di Edmund Husserl, è un filosofo di statura internazionale, il solo probabilmente ad aver organizzato un pensiero filosofico alternativo all' idealismo crociano e gentiliano. Alla sua scuola, negli anni Trenta, si forma una generazione di intellettuali di primissimo piano, fra gli altri: Giulio Preti, Enzo Paci e lo stesso Cantoni (su quest'ultimo è appena uscito un bel libro per l'editore Guerini a cura di Carlo Montaleone e Carlo Sini). Il cielo della speculazione non appaga Banfi. Nella carne e nel sangue egli avverte di essere un pensatore diverso, attratto dalle ragioni del comunismo. Dal 1943 egli è iscritto al partito comunista. È un intellettuale autorevole e ascoltato. Dirige la “Rivista di Studi filosofici”, un periodico finanziato dal partito e che il partito considera uno strumento utile alla causa. Nel partito Banfi vede il solido punto di appoggio dal quale può prendere avvio l'emancipazione dell'uomo: "l'uomo copernicano" (quello che rivoluziona il mondo), come lo definisce in un celebre articolo che dà anche il titolo a una raccolta di saggi. Quel partito che oggi non c'è più per Banfi è l'essenza stessa della diversità, che poi vuol dire: la nostra etica è migliore della vostra, le nostre ragioni più persuasive delle vostre, la nostra morale superiore alla vostra. Quel partito è insomma fonte di certezza, ma anche di doloroso confronto che Banfi risolve con la fedeltà del militante, anteponendo i valori dell'ortodossia a quelli della critica, l'obbedienza al rifiuto.
La lettera da cui siamo partiti e che fino ad oggi era conservata nelle carte di Clelia Abate, fedele segretaria di Banfi, è la riprova di quanto forte sia la sudditanza dell'intellettuale organico alle ragioni della politica. È un legame talmente profondo che neppure la vicenda Cantoni riesce a scalfire. La storia è in parte nota e ben raccontata da Nello Ajello nel suo libro Intellettuali e Pci. Nel maggio/agosto del 1948 compare sulla rivista “Studi filosofici” la recensione di Remo Cantoni a L'existentialisme n'est pas un humanisme di Jean Kanapa che è il responsabile culturale del partito comunista francese. È un libro acrimonioso e provocatorio. Kanapa attacca violentemente Sartre e Camus, bollandoli come "fascisti", "rivoluzionari da caffè", "cricca di borghesi infrolliti dall'occhio amaro e le braccia flosce". Alle bordate di Kanapa replica Cantoni: "Sarà anche vero, ma avremmo desiderato che le ragioni della critica avessero sostituito questa pioggia di accuse". E conclude: "La cultura non è autonoma perché nulla è autonomo nel mondo dove le cose sono in una rete di infinite relazioni, ma non è lecito confondere la politicità della cultura con la politicità della stampa di partito, dei parlamenti, delle lotte sindacali". È una presa di posizione inequivocabile, che mette Cantoni automaticamente fuori dalle ferree regole impartite dal Pci. Se ne accorge ad esempio Luigi Longo, che nel rapporto al comitato centrale del 23 settembre 1948 dichiara allarmato: "Ci troviamo di fronte a manifestazioni ristrette per la loro importanza ma indicative del disorientamento ideologico... Si è ad esempio riscontrato il caso di un iscritto al Partito che dileggia su di una rivista filosofica diretta da un membro del Cc (Comitato centrale, n.d.r.) la lotta dei comunisti francesi contro l'esistenzialismo e l'irrazionalismo religioso che si mascherano da marxismo e da socialismo".
Un'altra lettera
Come reagisce Banfi alla violenta reprimenda del compagno Longo? C'è un'altra lettera inedita, conservata anch'essa da Clelia Abate, che il filosofo spedisce al comitato centrale e che precede quella indirizzata a Cantoni. Il tono della missiva qui è meno alto, fa spicco uno spiacevole senso di autocritica, anche se riscattato alla fine dalla dolorosa denuncia della condizione di isolamento in cui a volte opera l'intellettuale militante. Banfi sposa in pieno le posizioni censorie del partito, pur salvando il diritto a una critica onesta e costruttiva all'opera dei compagni. "Ritengo anch'io", egli scrive, "che la pubblicazione della recensione, per il tempo e l'occasione in cui venne a cadere sia stato un errore, errore che io avrei evitato se avessi avuto conoscenza del testo e riveduto il fascicolo che fu pubblicato in mia assenza (Banfi in quel momento è in viaggio in Unione Sovietica, n.d.r.). Tanto più mi dolgo di tale pubblicazione e dell'impressione che può avere suscitato in quanto io fui il primo in Italia ed in Europa a denunciare il pericolo dell'esistenzialismo". Il che è anche vero, ma per l'amico e allievo del fenomenologo Husserl una simile caduta di stile la dice lunga sulle abiure e il gioco al massacro che il partito esige dai suoi iscritti, anche quando costoro per talento e cultura appaiono ben diversi dal tipico funzionario comunista.
Quelle due lettere, insomma, sebbene esprimano il disagio di Banfi di fronte all'offensiva con cui il partito reagisce alle posizioni di Cantoni, fanno toccare con mano la totale mancanza di autonomia del filosofo nei riguardi delle gerarchie comuniste. La questione fra l'altro ha un pendant nel dicembre del 1948 alla casa della cultura milanese. "Di quell' incontro cui partecipano sia Banfi che Cantoni", ci dice Adolfo Scalpelli che al ruolo che svolse in quegli anni la casa della cultura milanese ha dedicato un' esemplare ricostruzione, "non abbiamo purtroppo testimonianze. Non sappiamo se il tono del dibattito fu quello dello scontro filosofico o della diatriba ideologica. Ma conosciamo il clima in cui si svolse la prima riunione della commissione culturale diretta da Emilio Sereni, circa un anno dopo la comparsa della recensione di Cantoni al pamphlet di Kanapa. Dal verbale di quella riunione arrivano segnali sui metodi del lavoro culturale. A posteriori si censura la casa editrice Einaudi rea di aver pubblicato un pericoloso libro per l'ambiente comunista di Georges Lefevbre sulla Rivoluzione Francese. In quella seduta Sereni si chiede anche se un articolo di Carlo Muscetta dedicato a Goffredo Mameli sia o no marxista. È il metodo manicheo di dividere il bene dal male, gli autori cattivi da coloro che sono vittime quasi inconsapevoli di costoro. Nella lista dei proscritti c'è naturalmente Cantoni, mentre Banfi", ricorda Scalpelli, "è accusato per il suo atteggiamento di debolezza nella battaglia contro le eresie ideologiche che avrebbero turbato anche i buoni rapporti tra i due partiti comunisti".

Dissidio ideologico
Nonostante il dissidio ideologico, fra l'allievo e il maestro continua il dialogo. Ma le strade della politica e della cultura ormai divergono. Cantoni è sempre più attratto dall'antropologia, dalla vita quotidiana nei suoi segnali da decifrare, collabora a “La Stampa” e in seguito è tra i fondatori del Giornale di Montanelli. Laico e conservatore. Banfi rimane nel partito sino alla morte che lo coglie nella primavera del 1957. Ha ancora il tempo di schierarsi in difesa dell'intervento sovietico in Ungheria l'anno prima. Continua a credere che il marxismo solleverà l'umanità dal torpore religioso e dal dogmatismo scientifico. E più che all'esegesi delle fonti, più che alla discussione teorica egli guarda al movimento operaio definendolo momento della coscienza contemporanea. "Il marxismo di Banfi non fu dal punto di vista teorico una creatura complessa", ha scritto Fulvio Papi, il suo massimo studioso. Fu qualcosa di molto più elementare cui il filosofo si sottomise rinunciando a una pur minima distanza critica, sacrificando per un malinteso senso di diversità talento e giudizio.


“la Repubblica”, 22 maggio 1993  

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