2.10.17

Marco Aurelio e la Colonna Antonina. Un monumento alla ferocia vana (Claudio Strinati)

Quando nel 1988 della Colonna di Marc'Aurelio, detta anche Antonina o Aureliana, posta a piazza Colonna, fu completato il restauro ed essa ritornò alla visione dei romani e dei visitatori dell'Urbe, Claudio Strinati scrisse per il “manifesto” un ampio saggio sui misteri artistici che in essa sono racchiusi. La ripropongo qui. (S.L.L.)

Non si sa con esattezza né quando fu cominciata né quando fu finita, ma un’epigrafe ha lasciato memoria del fatto che, nell’anno 193, il proba bile custode della zona, un certo Adrasto, liberto di Settimio Severo, ottenne l’autorizzazione a utilizzare parte dei legnami, già montati per il ponteggio intorno alla Colonna, per fabbricarsi una casetta prospiciente. Erano passati più di dieci anni da quando, morto il 17 marzo del 180 l’Impera tore Marco Aurelio, Senato e Popolo Romano avevano inteso onorarne la memoria con monumenti idonei.
È probabile che il concepimento e la prima fase, almeno, dell’esecuzio ne siano avvenuti durante il primo periodo del regno di Commodo, quando il potere era gestito dal gruppo dei più stretti amici di Marco Aurelio. Ma non sappiamo niente di più e, a onor del vero, non sappiamo bene nemmeno che cosa sia esattamente rappresentato nell’immane fregio, a differenza della Colonna Traiana in cui il percorso delle storie è ricostruibile con maggiore chiarezza.
Certo, sono le conquiste di Marco Aurelio oltre il Danubio, le guerre per le quali assunse prima il nome di Germanicus e poi di Sarmaticus. Ma la vita dell’Imperatore scritta da Giulio Capitolino non consente di chiarire i punti oscuri, e le altre scarse fonti, come i frammenti di Dione Cassio, non conten gono elementi utili. Le storie della Colonna resteranno sempre un enigma perché quello che si vede non è un’epopea organicamente sviluppata attra verso tappe successive ma un continuo andirivieni di una situazione immu tabile. Una sorta di stasi narrativa incombe cupamente sulla colossale co struzione e gli storici non hanno mai capito fino in fondo se gli episodi siano stati raffigurati secondo un criterio di reale successione narrativa o non piuttosto come altrettante evocazioni dove il prima o il dopo non hanno più la stessa evidenza. Erano passati circa settanta anni dalla inaugurazione della Colonna Traiana e un mutamento complesso, non più controllabile in tutte le sue componenti, si era verificato nella produzione artistica romana.
Trapelava uno dei grandi temi scaturenti dal rapporto oriente-occiden te, di cui la Colonna istoriata è un indiscutibile esito. L’arte figurativa può essere il luogo della fabbricazione di prototipi sapienziali, come fu l'arte del Gandhara; può essere iterazione di strutture narrative, riscontrabile in certi monumenti dell’Egitto prossimi a questa fase dell’arte romana come il Tem pio di Horus a Edfu; può essere strumento di celebrazione e trionfo, amplifi cazione retorica, specchio che riflette la costruzione ideologica con la quale un’epoca intera o un ristretto ambiente culturale vogliono fissare la propria immagine.
Ma la Colonna istoriata è vera mente l’oggetto su cui sosta, per bre ve tempo, il fenomeno gigantesco di transizione dall’oriente all’occidente che il mondo romano, impossessato si dei tesori della Grecia, aveva potu to attivare. Nel contempo la Colonna è gravata dall’ossessione fondamen tale che mina tale tendenza: lo spo stamento ulteriore, la perdita del centro e la necessità, insita nella di namica storica, di scomparire, di essere annientati. È la dimensione che, oltre trecento anni prima, ave va informato l'opera di Polibio, il cui senso ultimo sembra ancora struttu rare il tragitto degli eserciti che si arrampicano lungo la Colonna antonina, ignari di quella rovina da essi stessi in parte provocata, in parte prove niente dalla disfatta di un mondo che ha perso quasi ogni connotato di ricono scibilità.
Si suppone che la vicenda cominci nel 172. Marco varca il Danubio a Carnuntum e la scena è similissima (con l’immagine del Dio Fluviale che si erge per favorire il transito delle truppe) all’Incipit della Colonna Traiana. È una somiglianza che resterà immutata fino alla fine, somiglianza contenu tistica e stilistica, malgrado l’ovvia distanza che sempre separa due mo menti della storia dell’arte, a settanta anni l’uno dall’altro. Ma sembra evidente la volontà di stabilire il confronto e renderlo perspicuo alla posteri tà. La Colonna antonina sarà come la Traiana e così dovranno avvertirla i posteri. Ma così non è. Il cammino è troppo accidentato e subito lo si percepi sce. Marco passa sul ponte di barche, paludato e affiancato da due tribuni. Avanti vanno i suonatori con un loro tipico strumento, il Lituus, una tromba ritorta che chiama i soldati alla battaglia. Lo segue il Cavallo loricato e l’idea di una cerimonia che si sta per compiere definisce il senso della scena. Passano i soldati della legione detta Fulminata sotto l’arco e viene in mente il confronto col Corteo trionfale di Tito al ritorno dal saccheggio di Gerusa lemme, nell’Arco eretto all’imperatore sulla riva Sacra. Il tempo, però, non si è ancora compiuto.
Comincia subito la narrazione per folgorazioni successive. Celeber rimo è il Miracolo della pioggia e quello del fulmine. Sono episodi che si riferiscono all’attacco contro i Quadi, la cui datazione esatta non è stata stabilita ma che potrebbe cade re appunto nel 172. È rimasta famosa l’immagine del Dio della Pioggia, una sorta di Padre eterno la cui lun ghissima barba non è altro che l’ac qua cadente dal cielo. Una sorta di intervento metafisico che protegge le armate romane, sommergendo i Barbari e dissetando le Armate. E, subito accanto, la burocratizzazione del racconto. L’Imperatore romano riceve l’omaggio dei Quadi sconfitti; si accalcano i genitori a proteggere i figli intorno ai vessilli romani.È già tutto finito, la guerra è vinta.
Ma no. Senza soluzione di continuità, si assiste al più violento scatenarsi della lotta. I cavalieri assaltano un villaggio, lo bruciano, massacrando i nemici che non hanno cavalli né corazze. È veramente il Pagus, fatto non di muratura ma di strutture lignee che prendono immediatamente fuoco. Da una di queste casette, un uomo prega, con il gesto, che diverrà familiare, dell’orante cristiano. È volto verso il cielo, non chiede pietà a un particolare nemico. Mentre, in basso un soldato trascina per i capelli una donna e il Bellori commenta: «come, narra Euripide, accadde a Andromaca, e Virgilio dice di Cassandra».
Tanta dottrina è giustificata? Difficile dirlo. Certo lo scultore della Colonna è un sapiente che riprende e ricompone innumerevoli iconografie dell’Antico. A ben maggiore distan za rispetto all’autore della Colonna Traiana, ma ancora immerso in quella cultura, continua a avere a suo riferimento quel neo ellenismo che dall’Ara Pacis era arrivato fino ai rilievi dell’Arco Aureliano, oggi collocati lungo lo scalone del Palazzo dei Conservatori in Campidoglio.
È una guerra che sembra svol gersi senza spazio e senza luogo. Ir un momento immediatamente suc cessivo, però, si vedono le armate romane che passano un fiume. Marco si avvicina a cavallo e incita i suoi all’azione. L’acqua è pensata dall’anti co scultore come una fluida cornice che circonda le piccole imbarcazioni di cui narra Vegezio, costruite scavando un tronco d’albero e trasportate, col resto degli armamenti, sui carri che seguivano le truppe. E subito l’impeto bellico esplode nell’immagine del soldato che non ha ancora posato il piede sulla riva e già si accinge a colpire, mentre altri della Legione si schierano a aggredire nemici, in sostanza inermi.
Come nella donna paragonata a Andromaca, c’è un intenso pateti smo che si incunea dentro la rigida descrizione degli armati che concul cano, distruggono e straziano i nemi ci, ogni qual volta uno squarcio di ambiente naturale emerge dalle ma glie serrate o opprimenti dell’Historia. Complessa è la mediazione sullo spazio e la resa dell’ipotesi prospetti ca lungo uno svolgimento, in salita dal punto di vista della realtà percet tiva, ma sempre pensato come fron tale.
Nel passaggio del fiume si risen te lo stesso tipo di concepimento ri scontrabile in un’opera appena pre cedente, il basamento della Colonna di Antonino Pio, oggi nei Musei Vaticani. Qui le due facce costituiscono veramente i due momenti, contrastanti e compresenti, della scultura roma na del II secolo. Così l’Apoteosi di Antonino e Faustina ha ancora un aspetto truce e «barbarico» ma irregimentato nella logica razionale del classicismo fidiaco, leggibile in tanti prodotti dell’età augustea e in quell’estremo «revi val» del classicismo riscontrabile in età adrianea. La scena del Decursio (il carosello funebre dei cavalieri intorno alla tomba dell’Imperatore) è pensa to e formulato, invece, secondo l’idea di uno spazio in cui la illusività prospet tica consiste nell’innalzamento del punto di vista, dove la sfera e il cerchio hanno lo stesso significato.
È la quintessenza del concepi mento spaziale della Colonna di Mar co Aurelio. Questa è l’esorcismo massimo contro l’idea della deca denza e del crollo. È una montagna figurata che rappresenta la solidità indiscussa della potenza militare e celebra la guerra, o meglio la violen za e l’atrocità dell’aggressione, qua le valore supremo e indiscutibile del la vita umana. Un monumento eretto all’orrore, appunto, ma che sta in piedi massacrando il tempo e la filo sofia, eretto, naturalmente, a gloria di uno spregiatore delle fatiche belli che.
Si è discusso sulla provenienza culturale dell’autore della Colonna, se romano o situabile in un’area provinciale. Si è discusso sulla molteplicità degli esecutori, fatto ovvio, trattandosi di un’impresa di queste dimensioni, ma in realtà più limitato di quanto si potrebbe credere. Le fonti figurative possono essere forse individuabili nelle pitture trionfali di cui le testimonian ze letterarie molto ci dicono anche se nulla è sopravvissuto. Si è pensato, addirittura, a una derivazione dell’iconografia da un diario di guerra del l’Imperatore.
Ma in realtà è una serie di figurazioni cerimoniali che non tanto intendono raccontare una storia quanto riprodurre, con un mezzo stilistico con gruente e diretto, una concezione etica e estetica nel contempo. Arte in tempore belli, scaturita dall’allucinazione e dalla impossibilità della guer ra di sfuggire, in ogni tempo, a uno stato di inestinguibile travaglio emotivo.
L’azione, nelle raffigurazioni della Colonna, è sempre coordinata al momento dell’Allocutio imperiale che sistematizza gli eventi. Così celebrata è la scena della Testuggine, dove emerge l’idea figurativa, latente in tutta la Colonna e qui pienamente riscontrabile, delle sequenze simmetriche degli schieramenti, un’ottica di concepimento delle immagini già orientata verso quello che sarà il mondo bizantino.
I Germani, dall’alto del villag gio, scagliano lance o oggetti contun denti mentre le truppe romane oppongono, secondo una simmetria marcata e ricercata, gli scudi. Ac corrono cavalieri e altri due militi recanti le torce con cui bruceranno il villaggio. Ma subito dopo si vede Marco che, dall’alto di un Fortilizio, parla ai vincitori. Si suppone che sia qui rappresentata l’altra campagna di guerra che seguì alla vittoria sui Quadi, quella contro i Marcomanni.
E a breve distanza, una dotta citazio ne, di una inquieta classicità, sem bra suggellare la fine definitiva della storia. Si vede (oggi in modo para dossale perché un terremoto alla fine del Cinquecento, oltre a alcune consistenti rotture riparate poi dagli abili restauratori di Sisto V, provocò lo spostamento dei rocchi sovrapposti su cui è scolpita questa scena) la figura della Vittoria che scrive VICTORIA GERMANICA.
Sarebbe l’assoggettamento dei Marcomanni e la data dell’evento è an cora una volta incerta. Ma si tratta di una grande cesura in una narrazione che, di fatto, non c’è stata. Accanto alla immagine simbolica che riempie tutto lo spazio con la sua altezza, in contraddizione con il convulso costipa mento di molte zone precedenti, si vede una panoplia fatta di armi romane e di strumenti bellici strappati al nemico, un trofeo che ha qualche punto di contatto con quelli di Domiziano oggi sulla sommità della scalinata al Campidoglio.
Un’opera d’arte non è di necessità un manifesto ideologico. Si potrebbe lire che entro certi limiti può non esserlo mai.
Eppure il senso di assurdità e proprio di non significato promanante da queste logoranti e abominevoli «guerre difensive», che Marco avvertì quale dovere ineluttabile e autentica dannazione in vita, potrebbe giustificare la sostanza stilistica e espressiva delle immagini, che il colto incisore seicentesco Bartoli, mo derò e, solo paradossalmente, classi cizzò in senso augusteo. Certo oggi il giudizio sugli originali, pur magi stralmente restaurati della Soprin tendenza archeologica di Roma coa diuvata dall’Istituto Centrale del Re stauro, tramite l’opera di numerosi specialisti, è difficile. Siamo ad esempio impressionati dalle lavorazioni col trapano che tormenta le superfici, o dall’uso di piani scabri, di approfondimenti tormentosi sulla materia, dalla potenza di un rilievo che pure contrasta con la gracilità dell'impianto prospettico. Ma è arduo formulare una valutazione estetica circostanziata.
Più si sale e più il tema della ferocia e del terrore, di una sorta di amalgama in cui tutti gli uomini si travolgono l’un l’altro, andando incontro a un destino cieco, si acuisce. Superata la Vittoria che scrive i Fasti sulle scudo, dilaga una scena di allucinante evidenza. Davanti alle donne devastate dal dolore, si compie la decapitazione del Re dei Quadi (così almeno la vide il Bellori) e di altri eminenti uomini germanici.
Poi si ricomincia. Le truppe si accalcano di nuovo lungo il fiume e il ritmo sembra contrarsi anche se, ancora una volta, l’Imperatore appare tra i suoi. Ma il tempo della cerimonia è scomparso. Non c’è il cavallo imperiale che segue solenne. E, all'uscita del ponte, si inciampa sui nemici morti e uno, caduto da cavallo, precorre un Savio folgorato sulla Via di Damasco e consente di interrogarci un poco sugli albori della prima formazione di ciò che, a distanza sovente di secoli, diventerà il sostrato classico dell’iconografia cristiana.
La seconda parte della colonna è più dedicata alla descrizione delle varie funzioni della vita militare. Passano i legionari con le loro corazze segmentate e passano i carri, su cui ci sono grandi pacchi contenenti le tende ripiegate che verranno poi utilizzate nelle brevi soste.

Più avanti altri soldati costruiscono un accampamento «lapide quadrato» e sembra già di assistere al Trionfo ordinato dalle armate imperiali. Ma la vicenda che non ha mai avuto inizio, non ha mai fine. E così veramente fu, alternandosi la conquista e la ribellione, mentre i confini dell'Impero, allargati in misura non più sostenibile da uno solo, appaiono troppo fragili per permettere una ritirata stabile delle guarnigioni di frontiera. Le interpretazioni sono, anche qui, molteplici. Si volle rappresentare, a questo punto, una serie di vicende di repressione (come quella dei Cotini, avvenuta nel 173) o non piuttosto la fase della guerra posteriore sulla rivolta di Avidio Cassio governatore d'Oriente auto-proclamatosi imperatore fino a che, sconfitti gli oppositori e ridotti alla pace i bellicosi Iapigi, Marco Aurelio, nel 176, celebra il trionfo come Sarmaticus?
Non è dato saperlo ma le figurazioni dicono qualche altra cosa: che, nell’apparente procedere degli avvenimenti, le cose tornano su se stesse così come vuole proprio lo sviluppo della colonna la cui salita non può più essere paragonata al dotto «volumen», come nel caso della Traiana, posta tra due biblioteche e visibile in una ascesa, mista, è da crederlo, di colloquio, commento e meditazione storica, filosofica e speculativa. Non si sa bene come si vedesse in antico la Colonna antonina e quale fosse la sua esatta situazione urbanistica. La base originaria fu scalpellata al tempo di Sisto V. Conteneva scene di sottomissione, ne resta soltanto un piccolo frammento. Si sa che si trovava al centro di una piazza, in modo non del tutto dissimile dalla situazione attuale. Ma questa costruzione, fatta di 19 blocchi di marmo lunense, alta (con la statua dell’Imperatore, oggi sostituita dalla statua cinquecentesca di S. Paolo) 52 metri, come veniva percepita? È da credere con riflessione meno pacata rispetto alla Traiana ma con altrettanta spasmodica attenzione.
I Barbari fuggono verso le paludi e riappare il tema della donna, indifesa e sola, catturata dal soldato. E, ancora una volta, dal marasma tumultuante di figurazioni che, all’opposto, sono costruite con studiosa simmetria, emerge l’Imperatore, continuamente evocato, mentre rivolge l’allocutio ai suoi fidi, affiancato dal fido Pompeiano e forse da Pertinace.
Ma qui appare l'episodio figurativamente più singolare e sconcertante dell'intera Colonna. Marco è nel Pretorio e la sua figura spunta dall'alto mentre un messaggero si presenta alla porta e sulla destra una donna col figlio assiste all'incendio del piccolo villaggio vicino. Le proporzioni si fanno più grandiose, la struttura architettonica conferisce reale solennità e senso narrativo a un evento di cui, a ogni buon conto, non conosceremo mai il contenuto. È però come una grande pausa, un richiamo a quella dimensione filosofica, sapienziale e meditativa con cui Marco Aurelio consegnerà se stesso a una storia futura presunta immemore per antonomasia. Il messaggero, se tale egli è, resta, forse annunciato, sulla soglia.
Il Castrum così reso e concepito, sembra l’allegoria dell’Hortus conclusus, simbolo sovrano della classicità. Luogo bellico ma separato, al di fuori del quale si perpetrano gli orrori che hanno attraversato tutta la Colonna ma al cui interno sembra potersi svolgere solo una conversazione, alta e solenne. Ma l’ultimo atto della storia riporta all’ambientazione generale della colonna.
Passano rifornimenti e masserizie, armature. Sembra un ritorno mentre altri soldati restano asserragliati nel Castrum. Nell’estremo lembo appaiono le scanalature che fanno pensare a una immane colonna dorica, relitto mostruoso di un’antichità che pensa solo secondo la misura di un gigantismo che non ha altri confronti se non nel mondo egizio e in quello assiro. Marco appare per l’ultima volta a cavallo, dispensatore di quella Pace che non può avere alcuno spazio figurativo, essendo per principio estranea a questo tipo di struttura estetica. Questa è l’arte della guerra, anche se non è l’arte di fare la guerra. Le ultime immagini sono quelle delle donne e degli uomini prigionieri sulle barche.


“il manifesto”, domenica 3 luglio 1988

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