6.10.17

Buzzati scrittore, giornalista, pittore. E un solo precetto: «Non inventare» (Marzio Breda)

Nella casa milanese di Alberto Cavallari, firma di punta e direttore del «Corriere della Sera» in anni difficili, tra un disegno di George Grosz con i suoi avidi borghesoni dalla nuca grassa e un ritratto scarnificato dal segno fitto di Alberto Giacometti, c’è un quadro a olio di Dino Buzzati. Raffigura la fuga notturna di un soldat à cheval — che era poi lo stesso Cavallari, cui la tela è dedicata — rincorso da un branco di lupi e da un’enorme e livida luna, minacciosamente sospesa sul deserto intorno.
È un’immagine che pochi conoscono e che incuriosisce perché conferma come gli spazi desolati, spopolati e aridi fossero, al pari delle montagne (basta pensare al Duomo di Milano, dipinto come fosse un monumento dolomitico), quasi un’ossessione per Buzzati. Sia quando scriveva sia quando dipingeva.
Del resto, le steppe e i paesaggi arcaici hanno ispirato molti autori: da Borges, che vi collocava l’idea del labirinto, a Zanzotto, il quale paragonava i suoi ultimi versi alla flebile voce dei fiumi asiatici che evaporano di colpo nelle pianure sabbiose del Gobi. Insomma: in quanto luoghi metafisici e onirici, i deserti sono stati lo sfondo perfetto per certe storie buzzatiane, cariche di magia, angoscia, solitudine, mistero. A partire dal suo Deserto dei tartari, romanzo fra i più riconoscibili e amati della letteratura europea novecentesca.
Buzzati diceva spesso che i suoi testi avevano ottenuto il riconoscimento di pubblico e critica «solo a scoppio ritardato, cioè dopo quindici o vent’anni». Una recriminazione che non faceva mirando alla gloria («è polvere e sabbia», ripeteva, mutuando il portoghese Fernando Pessoa, secondo il quale «ogni uomo che meriti d’essere celebre sa che non ne vale la pena»), ma nella convinzione di aver prodotto qualcosa di «bello dal punto di vista poetico». Questo era, sempre con il condizionamento di infiniti dubbi e timidezze, il suo primo obiettivo, confessato con casta ingenuità a un’insegnante che lo intervistò nel 1969 per i propri alunni. Che lo abbia raggiunto è provato dal suo ingresso tra i classici, senza che mai cadesse l’oblio su di lui.
Frustrazione per la vuota routine quotidiana, senso di allarme davanti a una natura che a volte si presenta con aspetti oscuri e maligni, attesa della grande occasione che non arriva, ansia di battersi quando sembra incombere una minaccia: ecco i temi che lo scrittore si impose fin dal suo libro più importante, il Deserto, appunto. Temi che alimentarono, più o meno esplicitamente o sottotraccia, altri suoi lavori, in parte perfino i più eccentrici. Così, non a caso il tenente Drogo che consuma inutilmente gli anni nella sperduta fortezza Bastiani, invecchiando diventerà (con una semplice dilatazione di vocali) l’architetto di mezz’età Dorigo, elegante e malinconico, impaurito dalla morte e accecato da un sentimento totale, protagonista dello scandaloso Un amore.
Si sa che Buzzati indicava la genesi del suo romanzo più noto, e divenuto termine di confronto, nella vita quotidiana del «Corriere della Sera», dov’era entrato a 22 anni e al quale rimase fedele fino a quando la malattia lo vinse. «Mi sai dire un luogo qualsiasi del mondo che, più di un giornale, possa esser considerato lo specchio fedele della fuga del tempo?», spiegò a Giulio Nascimbeni, responsabile della Terza Pagina e amico, per allontanare il dubbio che la sua invenzione narrativa fosse un frutto, magari involontario, dell’albero di Kafka.
È dunque nelle stanze di via Solferino che vanno cercate le chiavi per capirlo, pensando alla prodigiosa congiunzione tra la sua vasta opera plurale. Di scrittore, pittore e giornalista in cui tutto si tiene, sulla base del comandamento di «non inventare». Lo ripeteva con l’aria di confidare una disciplina interiore, affinata in particolare sui tavoli della redazione o sul bancone della tipografia. «L’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura e quindi non esiste differenza tra giornalismo e letteratura», diceva, riferendosi sia alla qualità del linguaggio sia al complicato rapporto tra la realtà della cronaca e le spinte simboliche che gli venivano dalla fantasia. Rapporto che Il Deserto dei tartari, maturato nelle notti al «Corriere», tiene in un equilibrio prodigioso.

Corriere della sera, 1 ottobre 2017

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