6.10.17

La giovane Gerusalemme. La miseria dei palestinesi nella Città Santa (Michele Giorgio)

Giovani palestinesi si scontrano con la polizia israeliana nella "Spianata delle moschee"
Un viaggio nel quartiere di Bab Hotta 
tra povertà e occupazione militare

A Bab Hotta si respira l’umore della città vecchia di Gerusalemme. È l’anima più vera della zona araba, almeno di quella racchiusa dalle mura antiche. Non è la più povera.
Quartieri come Issawiyeh, Silwan, Abu Tur la superano in questa triste classifica ma qui si vive di lavoretti, occupazioni saltuarie spesso di espedienti. Fare il manovale o il cameriere in una trattoria nella zona ebraica è il massimo al quale possono aspirare i giovani di Bab Hotta da quando la Gerusalemme palestinese, con la costruzione del Muro israeliano, è stata isolata dal resto della Cisgiordania.
«Mio fratello fino a qualche tempo fa lavorava a Ramallah, poi ha dovuto rinunciare. Io nemmeno ci provo», dice Alaa T„ 23 anni, mentre spazza la strada davanti al negozio di souvenir dove fa il commesso da una settimana.
Salendo da Bab Hotta si arriva nella via Dolorosa, invece dall’altro lato c’è la Porta dei Leoni con accanto l’ingresso per la Spianata delle Moschee.
«È troppo complicato e costoso lavorare a Ramallah - prosegue il giovane palestinese - Per andare e tornare da lì con i mezzi pubblici si spendono anche 30 shekel al giorno (circa otto euro, ndr) e in un mese sono tanti soldi. E poi ci sono i posti di blocco israeliani da superare. Per passare (quello di) Qalandiya delle volte ci vogliono anche due ore. Alla fine del mese hai sgobbato tanto e in tasca ti resta poco. Perché a Ramallah o a Betlemme ti pagano poco».
Dalle parti di Bab Hotta in verità si fanno anche soldi facili, vendendo hashish e, più di tutto, droghe sintetiche.
Per cultura e religione lo spaccio di droga, oltre al consumo, è condannato con forza dalla comunità palestinese. Però degrado, disoccupazione e impoverimento spingono a scegliere questa strada più facile per sopravvivere. E non pochi palestinesi ora che quelle pilloline le prendono. Non Alaa che, almeno così ci spiega, con gli stupefacenti non vuole avere niente a che fare. Si proclama un credente vero.
Il mese scorso pregava in strada, davanti alla Porta dei Leoni, assieme ad altre migliaia di palestinesi per boicottare i sistemi di controlli predisposti da Israele agli ingressi della Spianata delle Moschee dopo un attacco armato avvenuto proprio a Bab Hotta.
Giorni di tensione e scontri con la polizia in cui sono rimasti uccisi, tra Gerusalemme Est e la Cisgiordania, almeno quattro dimostranti. Poi il governo Netanyahu ha fatto retromarcia. Per i palestinesi è stata una «vittoria».
«Abbiamo lottato insieme, tutti uniti. E con noi c’erano anche (palestinesi) cristiani. E alla fine abbiamo vinto. Netanvahu ha capito che per al Aqsa siamo disposti a morire», ci dice Nabil Q., 22 anni, amico sin dall’infanzia di Alaa. Anche lui è cresciuto a Bab Hotta.
Cosa vuol dire essere un giovane palestinese a Gerusalemme, gli chiediamo. Nabil ci pensa su qualche secondo. «Vuol dire amare al Aqsa, odiare Israele e disprezzare l’Autorità nazionale palestinese (Anp)», risponde prima di esplodere in una fragorosa risata assieme ad Alaa. una battuta? Forse ma Nabil ha rappresentato in poche parole ciò che hanno dentro i giovani di Gerusalemme Est: la Spianata come pilastro al quale aggrapparsi non tanto o non solo per difendere un luogo santo, quanto per riaffermare l’identità palestinese e il senso di appartenenza a una città che Israele sta trasformando radicalmente e che la debole Anp del presidente Abu Mazen non è in grado di proteggere.
«Gli israeliani ci possono cacciare via (da Gerusalemme) in un attimo, ti revocano la residenza e sei costretto a trasferirti in Cisgiordania. E l’Anp cosa fa? I suoi capi non aprono bocca», protesta Alaa non riconoscendo sincerità alle posizioni prese da Abu Mazen contro i recenti provvedimenti israeliani a Gerusalemme. «L’unica strada è rimanere uniti come nei giorni scorsi quando abbiamo lottato e vinto per al Aqsa. Solo se ci mostreremo un popolo unito potremo difenderci», aggiunge Nabil.
La «vittoria» di Al Aqsa è già lontana e la «sconfitta» di Netanyahu non modifica la condizione dei circa 350mila palestinesi di Gerusalemme Est, specie di quelli più giovani.
La mancanza di prospettive politiche e la dipendenza dal lavoro manuale in Israele ora spingono sempre più famiglie a prevedere per i figli un livello d’istruzione inferiore quando nota il docente universitario ed esperto di Gerusalemme Kamel Hawwash, i palestinesi hanno sempre considerato «l’istruzione come un bene fondamentale per il loro sviluppo sia come individui che come società sotto occupazione».
La miseria è diffusa, aumenta la dipendenza degli abitanti palestinesi dai sussidi governativi e comunali israeliani.
Nel 2012 l’Associazione per i diritti civili (Acri) riferiva che il 78% dei palestinesi, tra cui 1*84% bambini, vive al di sotto della soglia di povertà. La necessità di aiutare le proprie famiglie convince molti adolescenti a non proseguire gli studi e non pochi genitori approvano questa scelta.
L’abbandono scolastico oscilla tra il 26% e il 33% tra il penultimo e l'ultimo anno delle superiori. L’uscita dalla scuola però non vuole dire trovare un lavoro dignitoso. «Anche quando i giovani decidono di gestire il negozio di famiglia nella città vecchia - spiega Hawwash - poi fanno i conti con le politiche fiscali di Israele che non poche volte li costringono a rinunciare a causa di una tassazione eccessiva». Tanti perciò finiscono per lavorare part-time in Israele, aggiunge il docente, «sperando di guadagnare quanto serve per sposarsi e per possedere una casa. Ma ciò accade sempre di meno e questo costringe (i giovani) a vivere con i loro genitori in condizione di sovraffollamento».
Alaa e Nabil ci salutano. Il primo va ad occuparsi di alcuni turisti russi che mostrano interesse per le icone false che espone il negozio.
Il secondo si avvia verso il quartiere ebraico nella città vecchia. Forse troverà un commerciante disposto a pagargli 40-50 shekel per scaricare le merci nel magazzino.


“il manifesto”, 6 agosto 2017

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