9.10.17

Craxi che tradì le promesse (Paolo Flores d’Arcais)

All'inizio del 2010 Paolo Flores d'Arcais fu invitato a dire la sua su Bettino Craxi di cui la destra berlusconiana, nel decennale della morte, celebrava il “martirio”, associandolo a quello che stava sopportando Berlusconi, al tempo capo del governo e invischiato in storie giudiziarie di varia natura. Neanche a sinistra ci si sottraeva: Fassino rilasciava dichiarazioni compiacenti che davano ragione a Craxi e torto a Berlinguer e Napolitano si apprestava a ricevere i reduci dai riti svoltisi ad Hammamett.
Flores, piuttosto che scrivere qualcosa di nuovo, incorniciò sul “Fatto quotidiano” tra una premessa e una conclusione il saggio che aveva pubblicato su “Micromega” nel 1986, senza peraltro segnalare tipograficamente lo scarto. In esso si rappresentava la delusione precoce di un intellettuale di sinistra che aveva salutato come un nuovo corso la prima stagione di Craxi alla segreteria del PSI.
Nel racconto del direttore di “MicroMega” c'è di sicuro una grande ingenerosità verso il PCI di Enrico Berlinguer, ma – a mia memoria – il primo Craxi suscitò attenzione anche dalle nostre parti, la sinistra del PCI, e perfino Pintor, sul “manifesto” gli diede un po' di credito nella speranza di non morire democristiani. Io stesso mi illudevo che un Psi più competitivo, più esigente, più “di sinistra” potesse rappresentare una sfida positiva per il mio partito. Mantenni qualche vana speranza anche dopo il 1979, quando il segretario socialista scelse la linea della “governabilità” e del governo a ogni costo. Ma tra i missili a Comiso e il decreto su punti di scala mobile dovetti presto abbandonarla e convincermi che quello di Craxi era stato un bluff. (S.L.L.)

Un coro unanime chiede che si discuta del Craxi politico, anzi statista, in modo equanime e senza proiettare sulla sua intera vita pubblica le vicende giudiziarie di cui diventa protagonista dopo il ’92 con l’inchiesta “Mani Pulite”. D’accordo, è quanto proverò a fare, sine ira et studio.
Il craxismo è stata la politica egemone in Italia per un’intera fase, quella successiva al crepuscolo del ‘68, esattamente come furono egemoni la politica di De Gasperi prima e di Moro poi. Al Midas hotel, nel 1976, non si consuma semplicemente un mutamento di segreteria ai vertici del Psi. Craxi, energico fino all’arroganza, esprime una certezza: che le circostanze politiche, malgrado ogni apparenza, schiudano ai socialisti italiani un destino da protagonisti. Un’intuizione ad alto tasso di realismo. Che viene immediatamente articolata in un disegno politico dettagliato, inedito, coerente.
Craxi non si rassegna all’anomalia del “caso italiano” e intende porvi fine, avvicinando il paese alla normalità europea, dove in politica si alternano al governo destra e sinistra, chiare maggioranze conservatrici e altrettanto autosufficienti maggioranze “progressiste”. L’Italia era l’unico paese del vecchio continente dove un governo della sola sinistra (e dell'intera sinistra) non si annunciava neppure nell’orizzonte degli ipotizzabili. Bizzarra eccezione, che Craxi non intende subire. Nessun destino cinico e baro, però. La sinistra italiana è anche l’unica, infatti, a persistente egemonia comunista, e “riformista” è aggettivo screditato, adibito allo scherno e all’insulto. Si tratterà, allora, di ribaltare radicalmente la situazione. L’alternativa di sinistra, che diviene il dichiarato obiettivo del nuovo Psi, si legittima, del resto, quale strumento per un programma che risponda alle inevase domande del paese in termini di equità ed efficienza. L’orizzonte è quello d’un divario crescente fra i valori della Costituzione e la pratica materialmente vigente. Lethos dominante è informato alle regole dell’arte di arrangiarsi piuttosto che al criterio della certezza del diritto e della buona amministrazione, e (come osserverà Norberto Bobbio) vera Grundnorm è il manuale Cencelli per la lottizzazione.

LA GRANDE RIFORMA ISTITUZIONALE
Perché il Psi abbia un futuro, dunque, le ostilità vanno aperte su due fronti: contro la Dc, responsabile di una mancata modernizzazione a carattere europeo, e verso il Pci responsabile, per dottrina e prassi ancora estranee alla sinistra occidentale, del congelamento di un terzo dell’elettorato. Per sbloccare la situazione, tuttavia (altra intuizione decisiva), non può bastare un programma riformista coerente (e la corrispondenza dei fatti alle parole): e ineludibile anche una “grande riforma” delle regole elettorali e dei meccanismi istituzionali. Le norme esistenti garantiscono assoluta proporzionalità nella rappresentanza parlamentare ma sottraggono al cittadino la scelta fra definite maggioranze di governo poiché impongono il formarsi di una coalizione “al centro”. Il cittadino, rappresentato fedelmente, conta sempre meno. L’anticomunismo del nuovo gruppo dirigente socialista è di solida tempra ma, soprattutto, esce fuori dagli schemi ordinari. Viene combattuto il carattere rivoluzionario e insieme conservatore della cultura comunista. Viene messo a fuoco l’essenziale: la cultura dell’attesa “millenaria”, che disprezza il finito delle riforme in nome dell’infinito della rivoluzione, consente i più mediocri compromessi con l'esistente.
Lo zucchero di una obsoleta filosofia della storia, quale risarcimento nell’immaginario per la rinuncia a trasformare e progredire hic et nunc, è l’ideologia che tiene insieme i militanti comunisti e unito il suo gruppo dirigente. Il centralismo democratico ne rappresenta la proiezione procedurale. Craxi avverte, tuttavia, che la questione “partito” riguarda anche il Psi, frantumato nel caleidoscopio di correnti, cordate, personalismi, e cementato poi dalla mentalità del “partito degli assessori”. Di qui l’ipotesi di un proliferare di club, l’idea stessa di una “area socialista” addirittura privilegiata rispetto al partito, dove l’intellettuale e il militante pratichino la virtù della disorganicità. Proponimenti ambiziosi, quelli sommariamente richiamati. Il nuovo gruppo dirigente socialista fa proprio solennemente il “progetto” elaborato dagli intellettuali giolittiani, radicale e realistico, capace di offrire concretezza ai valori della più seria (ancorché marginale) tradizione della sinistra italiana: quella azionista.
Il craxismo si annuncia, insomma, quale sfida riformista. Si tratterà, nei confronti di una parte almeno dell’elettorato moderato (quella “moderna”, “produttiva” , meno legata a clientelismo e confessionalismo), di mostrare che il riformismo offre chance superiori anche in tema di efficienza e di sviluppo. Si tratterà, sul versante della base comunista, di dimostrare come solo la scelta riformista costituisca un’alternativa praticabile al regime democristiano. E non già in termini di tattica, schieramenti, occupazione di stanza dei bottoni, ma di effettiva promozione del benessere, delle libertà, del potere di quanti lavorano, sono emarginati, risultano comunque dei non privilegiati. Questa strategia craxiana, benché arrischiata, può essere vincente. Ad una condizione: che il suo referente resti quell’ipotetica e virtuale nuova aggregazione di consensi da suscitare giorno per giorno con la coerenza del riformismo. Abbassare il tiro, concedere al piccolo cabotaggio, vorrebbe dire restare invischiati nella mera redistribuzione partitocratica della rappresentanza. Sotto questo profilo, fin dalle origini, il craxismo esprime l’esigenza di una Seconda Repubblica. I movimenti del ’68 e dell’Autunno caldo, ma anche quello per i diritti civili promosso a più riprese dai Radicali, esprimono disagio per la crescente estraneità e chiusura dei partiti macchine e manifestano evidenti istanze di cittadinanza. L’acquisita maturità democratica esige vita politica attiva. Una Seconda Repubblica, più democratica “più repubblica”, appunto (e meno partitocratica). All’epoca il craxismo viene giudicato politica irresponsabile, destabilizzante, avventurista. I più benevoli si domandano se tanto “estremismo” non sia solo astuzia tattica transitoria.

L’IMPERATIVO: PSI AL GOVERNO A TUTTI I COSTI
Veniamo, al craxismo “secondamaniera”. Craxi si fa paladino della governabilità. Con due stringenti conseguenze. Che il Psi dovrà essere governativo a tutti i costi e dovrà, in modo altrettanto ineludibile, garantirsi egemonia all’interno del governo. Il pentapartito diviene l’unica formula praticabile. Ad essa è ora condannato Craxi. Il carattere “corsaro” di tante iniziative socialiste nasce da qui. Dentro la camicia di Nesso del pentapartito i socialisti devono sfruttare a fondo, con micidiale spregiudicatezza, la rendita di posizione che deriva loro da una collocazione di frontiera.
Momento tattico in vista dell’alternativa, il pentapartito diviene per i socialisti un cul de sac. E infatti. Risibile la minaccia di rovesciare le alleanze. Un accordo col Pci priverebbe Craxi delle vaste simpatie moderate che potrebbero domani trasformarsi in voti, e le restituirebbe alla più stretta osservanza democristiana. (Risibile, reciprocamente, ogni velleità democristiana di aprire ai comunisti, scavalcando i socialisti. Sarebbe, per Craxi, il più opulento dei doni). Resta il ricorso alle elezioni anticipate. O la speranza di più favorevoli rapporti di forza in una prossima legislatura. Ma i dilemmi, in un quadro di esacerbata rissosità, resterebbero i medesimi. Fino a che il Pci resta il primo partito della sinistra, il Psi può sceglierlo per alleato solo collocandosi all’opposizione. Una collocazione di entrambi al governo esige preliminarmente un Psi superiore al Pci per risultato elettorale. Fin quando, almeno, ci si comporterà col Pci secondo la logica degli esami che non finiscono mai. Una volta finiti quegli esami, però, la rendita di posizione socialista dileguerebbe, poiché anche la Dc sarebbe legittimata al giro di valzer con i comunisti. Paradossalmente, tuttavia, il craxismo può vantare il più clamoroso e inedito dei successi. Craxi, infatti, non solo diviene il capo del governo ma anche, e contemporaneamente, il capo effettivo dell’opposizione. Se i democristiani si mostrano incapaci a contrastarne l'iniziativa, i comunisti giocano di rimessa (o non giocano affatto), avendolo come solo punto di riferimento. Dal punto di vista scacchistico, Craxi li ha pressoché paralizzati entrambi. In compenso, si governa poco (e male) e non ci si oppone affatto. Paralizzate risultano, in altri termini, le due funzioni essenziali della democrazia occidentale.
Vincere a scacchi in politica non basta, se si tratti d una politica di riforme. Il corso craxiano costituisce un simulacro e un surrogato della politica di alternativa. Il privilegio accordato alla politica in chiave di spettacolo, diventa ingrediente obbligato, poiché si tratta di sostituire, col luccichio delle apparenze, la cosa stessa. Il criterio del successo non può essere assunto come decisivo. In termini di riformismo i dieci anni della segreteria Craxi, e i tre anni di presidenza del governo, vanno giudicati come un bilancio magro. I due provvedimenti governativi che più hanno inciso (e incideranno ancora a lungo) nella vita concreta del paese, restano il nuovo Concordato (arretratissimo) e la legalizzazione degli abusi edilizi (un autentico scandalo). La riforma dei Codici di procedura penale, il rinnovamento del processo civile, la riforma delle carceri, restano nei cassetti. Tutto fermo, insomma, nel pianeta Giustizia, malgrado l’urgenza da tutti riconosciuta. A surrogato, tre referendum di lega dubbia, uno dei quali, certamente, lesivo dell’autonomia dei magistrati.
Nessuna azione sul terreno dell’istruzione scolastica, benché lo scadimento abbia raggiunto livelli di guardia per un paese che intenda restare nel “primo mondo”. A compenso, confusi accenni di privatizzazione buoni solo a stringere sodalizio con Comunione e liberazione. Nulla in fatto di alloggi, sanità, ambiente. Di trasformare il partito non si parla più. Una resa al “partito degli assessori”, insomma. Invece di puntare alla leadership dell’opposizione, rovesciando all’interno di essa l’egemonia comunista e rendendo per questa via plausibile un governo di alternativa (è quanto accade in Francia e Spagna), Craxi decide per la rendita di posizione, punta tutto sul ruolo di ago della bilancia di un sistema immobilistico. Poteva replicare Mitterrand e Gonzales. Preferisce Ghino di Tacco. Lucra sui difetti dell’attuale sistema politico, ma in tal modo li perpetua e se ne fa garante.

ILLEGALITÀ E QUESTIONE MORALE
Ma soprattutto: della Grande riforma elettorale e istituzionale resta un topolino, l’abrogazione del voto segreto in Parlamento, contro il malcostume dei franchi tiratori. Effettivo malcostume, e censurabilissimo, ma anche ultima e pallida (benché distorta) garanzia dell'indipendenza del deputato rispetto al proprio partito. Le misure previste, da sole, rendono trasparente il comportamento degli onorevoli allo sguardo vigile delle segreterie, più che al controllo del cittadino, e annientano la speranza che il deputato torni ad essere il rappresentante della nazione (secondo l’articolo della Costituzione). Resta in piedi, e si perpetua, il “caso italiano’’, inteso in tutta la sua negatività. Quale luogo geometrico dell’inefficienza amministrativa (dal fisco agli ospedali, e via enumerando), della illegalità a macchia d olio, della eclissi del cittadino. Intere zone del paese obbediscono a quel vero e proprio ordinamento “giuridico” (così Kelsen) rappresentato da una criminalità organizzata capace non solo di far rispettare la propria “legge” ma anche di ottenere consensi di massa (oltre che complicità nei partiti e negli organi-semi pubblici). Uno Stato nello Stato, insomma, con il quale lo Stato tout court, in mano ai partiti, sembra rassegnato a convivere, benché mafia e Camorra rappresentino un’emergenza e una sfida di gran lunga più pericolosa di ogni terrorismo. Del resto, quale possibilità di lotta contro la criminalità se i partiti che governano (compreso il governo delle autonomie locali), a fronte del taglieggiarnento mafioso su gioco d’azzardo, droga, appalti e commercio, vantano il taglieggiamento da tangente, a tariffe pubblicamente note, più trasparenti delle quotazioni in Borsa?
E non si parli di moralismo e di demagogia. Perfino verbiage sociologico del Censis, apologetico cantore delle magnifiche sorti del “sommerso” (in lingua volgare: imprenditori che non pagano tasse e sfruttano lavoro nero), scopre la questione morale. Parla di decine di migliaia di amministratori pubblici dediti alla tangente, denuncia l’incalcolabile inefficienza, gli sprechi l'altissimo danno economico, insomma, della violazioni del Codice in nome della “ragion di partito”. Panorama levantino, eterna Italia dei “furbi” e dei sudditi, altro che avvicinamento all’Europa. La partitocrazia sottrae al cittadino la politica e, insieme, lo addestra alla irrisione della legalità. In nome, magari, di “legge e ordine”.
Amara la conclusione. Il Partito socialista rinuncia a quelle novità che potevano renderlo protagonista. A farsi promotore di una Seconda Repubblica fondata sulla rinascita del cittadino e sull’equità sociale. Solo privilegiando il cittadino e ridimensionando il potere dei “padroni della politica”, infatti, potevano mutare in profondità anche i rapporti di forza fra i partiti e le relative quote elettorali. La scelta fra riformismo e immobilismo non si giocava in termini di schieramento e l'incontro fra socialisti e comunisti non metteva affatto al riparo - di per sé – dal rischio di un profilo basso di accordi (parziali e non) che pur maturassero. Conta poco, infatti, che cambino le élite, gli uomini nelle stanze dei bottoni, il partito che occupa il “centro”, se il gioco rimane lo stesso e i cittadini continuano a restarne esclusi, spettatori apatici la cui disaffezione ed estraneità viene magari spacciata per consenso. E perfino un radicale mutamento di alleanze, una ritrovata unità a sinistra, non garantiva affatto dal pericolo della deriva conservatrice, priva di energia riformatrice, interna alla logica della Repubblica dei partiti, incapace di por mano alla indilazionabile opera di rifondazione tanto della Repubblica che della sinistra. Quest’ultima non immune da mentalità e vizi tipici della sindrome dorotea. L’interlocutore privilegiato va cercato fuori, nella gente, sulla base di un programma e di uomini credibili e affidabili (anche moralmente) per realizzarlo con coerenza.
Solo questo scenario avrebbe consentito la speranza, poiché le ragioni della sinistra, come ragioni di un riformismo coerente, restavano più che mai all’ordine del giorno, per una Seconda Repubblica dei cittadini.

SEI ANNI PRIMA DI MANI PULITE

Tutto quello che avete letto fin qui non l’ho scritto in questi giorni ma agli inizi del settembre 1986, oltre 23 anni fa. Con qualche taglio (e un paio di inevitabili cambiamenti nei tempi dei verbi) è la riproduzione di un saggio uscito sul numero 3 di “MicroMega”. Parola per parola, senza cambiare un aggettivo o una virgola. Sei anni prima di “Mani Pulite”, che allora nessuno immaginava. Eppure, era chiaro a chiunque volesse vedere che la questione morale diventava ogni giorno di più la questione politica per eccellenza, la cartina di tornasole dirimente fra statisti riformisti e gaglioffi della partitocrazia. “MicroMega” ribatterà su questo chiodo, quasi in solitudine, per tutti quei sei anni. Non c’era insomma bisogno di aspettare “Mani Pulite” per vedere che la spinta riformatrice del Craxi innovatore si era esaurita da tempo. Nel 1979, per l’esattezza, quando non a caso l’alleanza lombardiana e giolittiana che lo aveva fatto eleggere al Midas tre anni prima decide di sostituirlo affidando ad Antonio Giolitti la segreteria. Anima di quella niente affatto “congiura” era Giuliano Amato, e tutto il gruppo della rivista “Mondoperaio”. Il Comitato centrale della svolta era convocato agli inizi del 1980. I numeri c’erano. L’intervento di Giolitti era stato quello del nuovo segretario, ma un momento prima del voto il lombardiano De Michelis passa armi e bagagli (alcuni membri del Comitato centrale) con Bettino. Che negli anni lo ripagherà lautamente. Il craxismo di cui si discute oggi nasce quel giorno. Quello dei tre anni precedenti era stato tutt’altra cosa, politicamente incentrato sul “Progetto socialista” di Lombardi Giolitti e Ruffolo, ideologicamente in ammirazione di un padre nobile come Norberto Bobbio. Quel craxismo prima maniera, non a caso, fu inviso a quanti diventarono “laudatores” sperticati (Lucio Colletti, per dire il nome più autorevole) del craxismo anni Ottanta. Di questo secondo craxismo credo non ci sia proprio nulla da salvare, neppure la mitica Sigonella 1985 (ben stigmatizzata da Tabucchi). Ma è proprio questo craxismo, non quello del “Progetto” e di Bobbio, che oggi si vuole indicare come innovazione. Era invece la fine della brevissima stagione davvero liberal-socialista, azionista, del Psi. Che fosse mera tattica in vista di un ritorno al governo è possibile, lo affermano intimi di Craxi come Massimo Pini (che naturalmente dà un giudizio opposto al mio), sulla scena pubblica furono però due cose (due Craxi) completamente diverse. Opposte. Il primo grande convegno internazionale del nuovo Psi, dal titolo “marxismo, leninismo, democrazia”, nel 1978, ebbe come relatori Gilles Martinet (rocardia-no di sinistra), Cornelius Castoriadis (post-trotzkista libertario) e Rudy Dutschke (la bandiera del ’68 a Berlino), tutti “anticomunisti”, ma da sinistra. Ripeto: non a caso tantissimi, con Colletti, che detestarono il primo Craxi divennero alfieri del secondo (e finirono coerentemente con Berlusconi). L’unico craxiano ad aver affrontato con onestà intellettuale, e dunque con lucidità, il tema del Craxi statista, è stato anche il “più craxiano” nel senso delle idee e degli ideali: Luciano Pellicani. Che fu il ghost writer del famoso saggio di Craxi su Proudhon (e contro Marx). In un’intervista del 6 gennaio a “Il Riformista”, alla domanda “perché l’esperienza craxiana si concluse con una sconfìtta?” ha risposto senza cincischiare: perché “Craxi permise il dilagare della corruzione nel partito, la accettò come un fatto fisiologico. Fu la sua più grave responsabilità. Nel 1987 scrissi un articolo in cui avvertivo che senza affrontare la questione morale il Psi non sarebbe decollato” . E allora nulla ancora si sapeva di “conti protezione” e dei fiumi di denaro rubati per il partito e per sé, e le condanne definitive che ne seguirono. Perciò, che il Senato, altissima istituzione della Repubblica, dedichi a Craxi, condannato dalle istituzioni della stessa Repubblica a oltre dieci anni di carcere, dunque a un h, fuggito per sottrarsi alla pena e morto latitante, una commemorazione, è un oltraggio alle istituzioni stesse. Che il presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità della nazione, voglia in qualsiasi forma, anche la più soft, avallare questo oltraggio, non dovrebbe far parte neppure dell’orizzonte del pensabile.

"Il Fatto quotidiano", 17 gennaio 2010

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