7.10.17

Ferdinando Galiani. Un abate caprone e scimmia (Lucio Villari)

Ferdinando Galiani si può inscrivere in quella schiera, ormai ristretta e sempre rimpianta, di uomini di cultura, di scrittori tipicamente italiani, dotati di intelligenza intuitiva, di permanenti curiosità interdisciplinari, di disponibilità ironica e partecipe a tempi, luoghi, idee e problemi dai più futili ai più impegnativi; personaggi naturalmente libertini, sensuali, talvolta ribelli, talvolta docili, pronti sempre a giocare con le parole e a divertire con la loro conversazione. Immaginiamo però che a una persona così dotata si aggiungano altre qualità, questa volta tipicamente napoletane, sia per lo spirito, la grazia, il gusto per la battuta, sia in relazione all' aspetto fisico, al portamento (una gestualità surreale alla Totò o una comicità seria alla Peppino De Filippo, per capirci), e avremo il ritratto più o meno verosimile dell' abate Galiani, del petit abbé che per dieci anni, dal 1759 al 1769, deliziò i salotti parigini; del joli petit arlequin che ebbe l'amicizia e l'ammirazione di Diderot e di Voltaire e l'inimicizia di altri intellettuali illuministi, i quali non si divertivano affatto agli sfottò che Galiani rovesciava, a parole o per iscritto, su di loro. Ammirazione e inimicizie destinate a durare a lungo nella ampia letteratura su Galiani e a rappresentare, anzi, una pietra di paragone simbolica del disorientamento che può generare l'incontrarsi, in una stessa persona, della cultura e della sua negazione buffonesca (non è accaduto lo stesso anche per Mozart?) e che, ad esempio, Nietzsche ha espresso molto bene in un passo di Al di là del bene e del male: “Si danno persino dei casi in cui alla nausea si mescola la fascinazione: tutte le volte, cioè, in cui il genio sia legato, per un capriccio della natura, a un siffatto indiscreto caprone e scimmia, come è accaduto all'abate Galiani, l'uomo più profondo, più acuto e forse più sporco del suo secolo. Parole certamente eccessive, ma indicative di un giudizio contraddittorio che ha sempre accompagnato la figura e l'opera di Galiani, la sua duplice personalità: che egli stesso, del resto, sottolineava rivendicando in ogni occasione il valore dell'individualismo edonistico, a volte cinico, e dell'utilitarismo; sentimenti e comportamenti da lui definiti come l'unica molla dell'agire umano. Lo chiamavano, per queste sue convinzioni, Machiavellino, e della cosa egli non si adontava affatto.
Di questa suggestiva figura si ricordano ora i duecento anni dalla morte in un convegno di studi che si apre oggi a Chieti (la città in cui Galiani nacque nel 1728), patrocinato dal Comune, dall' Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli e dalla Società italiana per gli studi sul secolo XVIII. Il convegno proseguirà nei prossimi giorni a Napoli e se ne prevede, tra qualche mese, un prolungamento nella città di elezione di Galiani, Parigi. Galiani fu, come è facile capire, un poligrafo. Si occupò di economia, di politica, di scienza del linguaggio e di problemi sociali relativi al Regno di Napoli. Negli anni dal 1770 al 1787 fu infatti consulente del governo durante la reggenza illuminata di Bernardo Tanucci. Fra le sue più importanti consulte rimangono attuali quelle dedicate alle Calabrie devastate dal terremoto del 1783. Fu anche scrittore di teatro (ancora oggi si mette in scena il suo Socrate immaginario) e di Dialoghi famosi; dai Dialogues sur le commerce des blés a quello sulle donne. Di lui resta anche un ricco epistolario, i cui principali corrispondenti furono Tanucci e madame d'Épinay, sua amica e ammiratrice, nonché tramite principale della vita mondana di Galiani a Parigi (dove l'abate napoletano era segretario di legazione) e dei suoi rapporti con Diderot, Grimm e altri esponenti del movimento illuminista francese. L'amicizia della d'E' pinay ha un posto rilevante nella biografia di Galiani per i motivi cui accennerò più avanti. C'è quindi da rammaricarsi che delle 136 lettere da lei inviate all'abate, tra il 1769 e il 1772, esista, se non erro, solo l'edizione curata nel 1928 da Fausto Nicolini, sulla cui attendibilità filologica (vi sono tagli arbitrari) ci sarebbe molto da dire.
La fama di Galiani, in Italia e nel mondo, dura inalterata da due secoli, ed è dovuta quasi esclusivamente agli scritti economici. Il primo è l'opera giovanile Della moneta, pubblicata nel 1751, che ha avuto riconoscimenti ed elogi da grandi economisti quali Marx, Schumpeter, Einaudi, Bohm-Bawerck, Loria e altri. Seguono i Dialogues sopra ricordati, abbozzati a Parigi alla fine degli anni Sessanta e pubblicati, in lingua francese, nel 1770 quando Galiani era ormai tornato a Napoli. In Della moneta vi sono intuizioni sul ruolo che ha il lavoro nella misurazione del valore di scambio (tesi che in qualche modo anticipano quelle di Adam Smith e di David Ricardo) e sul posto dell'interesse nel processo di trasformazione del valore in prezzo. Un problema, quest'ultimo, che come sanno gli studiosi del pensiero economico non è stato mai veramente risolto e che, ad esempio, Marx considerava fondamentale nel modo di produzione capitalistico.
Meno semplice è invece il giudizio sui Dialogues sur le commerce des blés. Ho detto di un manoscritto allo stato di abbozzo lasciato da Galiani a Diderot e a madame d'Épinay al momento di lasciare la Francia. C'è un mistero in questa vicenda. Tutto fa pensare che il vero autore dei Dialogues sia Diderot e che, in definitiva, trattandosi di un attacco violento e sarcastico, e del tutto ingiustificato, alle tesi della fisiocrazia (la scuola economica fondata da Francois Quesnay nel 1758, alla quale si deve il Tableau économique, la più geniale teoria economica moderna), Diderot abbia voluto attribuirne la paternità a Galiani, famoso a Parigi per la sua causticità e, in ogni caso, attendibile come economista.
Tutto fa pensare, in realtà, che né Galiani né Diderot potessero capire fino in fondo la teoria fisiocratica, che è rimasta enigmatica (tranne, ovviamente, ai fisiocratici) per più di un secolo; e che proprio questa impotenza interpretativa sia stata, per loro e, in genere, per i non fisiocratici, un motivo di forte irritazione. La richiesta fisiocratica della liberalizzazione del commercio interno e di esportazione dei grani non poteva infatti essere estranea al modo di pensare di Diderot. Ma certo lo era per un uomo come Galiani, imbevuto ancora di idee mercantilistiche e vincolistiche e, in politica, sicuramente conservatore. Cosa che i fisiocratici non erano se non, come avrebbe poi detto Marx, per ingannevole apparenza. Scrivendo parte dei Dialogues, dandogli il suo tocco, Diderot voleva forse suscitare polemiche, come era nel suo stile, che investissero il territorio dell'economia e delle teorie economiche verso le quali egli aveva (ma non era il solo) una forte diffidenza intellettuale. Ma la polemica divampò oltre il previsto: i fisiocratici con in testa Morellet, risposero con numerosi scritti di notevole rilievo teorico e politico ai quali non era facile rispondere.
Galiani, tenuto al corrente, cercò di intervenire con un pamphlet sarcastico che inviò a Diderot e a madame d'Épinay e che essi molto opportunamente fecero sparire: il titolo era Bagarre. Diderot, preso dal gioco, rispose con una Apologie de l'abbé Galiani, che rimase però inedita. In realtà, come scrisse a Galiani l'ambasciatore di Napoli a Parigi, il marchese Caracciolo, i Dialogues avevano recato un grave danno alla politica economica liberista che si tentava faticosamente di introdurre in Francia. Non è un caso tuttavia che lo scritto di Galiani avesse suscitato il consenso di tanti oppositori della cultura illuminista. L'immagine forse più autentica di Galiani è quella di un uomo sostanzialmente inquieto, desideroso di fare qualcosa nel clima euforico di un secolo attraversato da ansie riformatrici e da saette rivoluzionarie, ma come trattenuto dalle ideologie dell'ancien régime che egli credeva di esorcizzare e insieme di difendere con esilaranti mots d'esprit.


“la Repubblica”, 5 novembre 1987  

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