19.10.17

Molleggiato super. Intervista a Celentano sul set di “Joan Lui” (Giorgio Casadio, Bruno Perini)

I dizionari del cinema dicono tutto il male possibile di Joan lui, il costosissimo film che Adriano Celentano realizzò per Cecchi Gori nel 1985, parlano di delirio di onnipotenza, di sciatteria, di assoluta mancanza di senso della misura. E questo giudizio negativo mi pare confermato dalle programmazioni delle reti tv che quasi mai hanno ripreso quel brutto film. Penso che per rivederlo sul piccolo schermo sia necessario aspettare la morte di Celentano e la curiosità che la morte induce: i programmatori televisivi cercheranno di recuperare anche i cascami della sua storia artistica. Quanto a me tra i miei ritagli ho rintracciato questa intervista che il Molleggiato rilasciò sul set di Joan Lui a due cronisti del “manifesto” quasi in ginocchio davanti a lui e che presenta qualche curiosità. (S.L.L.)

We are the world, we are the children», prima sommesso poi sempre più forte il coro si alza dalla penombra. Lui, anzi Joan Lui, appollaiato su di uno sgabello piazzato in mezzo al palco, tutto in nero con una mise a metà tra il judoka e il cantante rock, osserva incuriosito. All’improvviso scatta e in equilibrio precario sul trespolo prende a dirigere le improvvisate coriste — esseri meravigliosi piovuti da Broadway— fino a che la musica si trasforma in un’esplosione di risate.
Sono le due di notte e l’accenno di tensione all'interno del grande studio di Cinecittà si dilegua, le antenne di Adriano Celentano hanno colto il momento e trovato la soluzione giusta.
Osservare Celentano al lavoro sul set del suo ultimo film, di gran lunga il più impegnativo della sua carriera, è per certi versi sorprendente. Non c’è nulla in lui che faccia pensare al «maestro», non c'è nessuno, dall’attrezzista all’aiuto regista, che faccia le cose che deve fare con atteggiamento di soggezione o di preoccupazione. Eppure tutto ruota attorno a lui, è «Adriano» che detta i tempi e condiziona gli umori di decine e decine di persone che lo attorniano. Il suo carisma, evidentemente fortissimo, è però qualcosa di impalpabile, difficile da afferrare e interpretare.
Sul set di un film che costerà alla fine quasi 20 miliardi, la più colossale produzione italiana da almeno vent'anni, Celentano si comporta come chiunque l'abbia visto almeno una volta, in concerto o nelle rare apparizione televisive, potrebbe immaginarselo: spontaneo, divertito, mai in preda all'agitazione, il volto atteggiato a quella sintesi strana che coniuga occhi malinconici ad un sorriso perennemente allegro.

Il grande traguardo
L’idea di un’intervista sul set gli piace, ma anche in questo caso è lui a dettare i tempi, ritagliati per forza di cose tra un ciak e l’altro.
«Fare questo film su Gesù è un grande traguardo per me, un traguardo che inseguivo da tempo. Certo traguardo starebbe a significare che dopo non c'è più niente, però è bello tagliare il traguardo prima. E poi potrebbe essere anche un modo per vedere che cosa viene dopo. Era un film che dovevo fare, prima o poi. E l'ho fatto prima. È un film molto, molto complesso, un concentrato di tutto quello che è cinema, dagli effetti speciali alle scenografie alle musiche. No, della trama non dico niente, deve essere una sorpresa per gli spettatori. Ti dico solo che nei finale c'è una catastrofe, succede quello che non dovrebbe mai succedere.
Pessimista? Sì, forse, anzi l'unica cosa ottimistica è che per fortuna si tratta di un film. Ma che cosa c'è da essere ottimisti con tutto quello che succede attorno a noi, me lo dici? Siamo alle soglie di una catastrofe, la natura si ribellerà a tutto l'inquinamento che gli abbiamo imposto. Un inquinamento che ha rovinato anche le menti».
«Forse è vero che suono sempre la stessa musica ma gli strumenti cambiano. E' la musica di un credente, che odia la speculazione edilizia, che odia l’inquinamento. Ecco perché io sento che questo film qui ha il merito di voler dire una cosa importante: tanto abbiamo fatto che siamo arrivati alla soglia del punto critico. Io mi immagino due forme di catastrofe: quella provocata dagli uomini e quella della natura che si ribella. Loro non si rendono conto di quello che hanno fatto, del punto cui hanno portato il mondo. Loro chi sono? Sono gli americani, i russi, tutti quelli che vogliono fare i furbi con l'amico, tutti quanti noi insomma».
Mentre spiega la sua mistica, Celentano lascia correre gli occhi per il set, controlla, capisce dallo sguardo degli altri che è venuto il momento di tornare a lavorare. È l’occasione buona per dare un'occhiata in giro, al grande studio trasformato nella casa di Joan Lui, Gesù Cristo tornato in terra secondo Celentano. Immaginate una grande platea degradante di poltroncine rosse, sovrastata da una immensa cappa — ciminiera con uso di cucina, qua e là macchine tipografiche. In alto enormi vetrate colorate con grandi immagini umane. Abbandonati sulle poltrone, distribuiti per la platea, stanno gli apostoli (diciassette questa volta) cui hanno prestato le sembianze ballerine e ballerini di un corpo di ballo americano, lo stesso, mi dicono, che ha lavorato in Cohrus Line. Distaccati. professionali, bellissimi. Proprio come piacciono a Celentano che della professionalità pare avere una specie di culto. Adriano intanto dà l'ok alla scena e saltella giù dal palco. Si ricomincia.
«Sì, succede proprio di tutto in questo film, vengono toccati tutti i tasti della tastiera del cinema. C’è anche la violenza, naturalmente. Ti stupisci? Ma quando si parla di Gesù non si può non essere violenti, a causa sua la gente si accanisce ancora oggi. Questo film è importante per un'altra ragione, può fare da traino al cinema italiano per il mercato americano. Sì che ho sentito parlare di Jesus Christ Superstar, l'ho visto quattro volte, è il più bel film che sia mai stato fatto su Gesù. Devo dire la verità, un film che ho apprezzato è anche il Gesù di Pasolini, magari lui Gesù l'aveva umanizzato, sconsacrato un po’ troppo. Io mi diverto anche se qui c'è da lavorare sodo. In più io sono un fifone. Ma sapendo che faccio un lavoro per Lui sono tranquillo. Sapere che a Lui interessa mi dà le forze».
«Il mio modo di lavorare è un po’ un fatto di famiglia. Mi ricordo lo zio Amedeo, era un tipo straordinario. Era un grande musicista, ha fatto anche delle canzoni, io volevo fargliele incidere, c’ero quasi riuscito, purtroppo lui non ha fatto in tempo. Amedeo era un barbiere bravissimo, tutti volevano andare da lui a farsi la barba, ma si sentiva soprattutto un musicista, gli piaceva tanto cantare, e col mandolino era un maestro. A cantare e suonare andava la sera nei locali, ma dopo due giorni si stancava e la piantava lì, era troppo scostante. C’è stata una storia tra noi due, lui voleva a tutti i costi essere il padrino al mio battesimo, ma mia madre non voleva proprio perché era un tipo troppo scostante, e, sai come si dice, il carattere del padrino condiziona il bambino. Alla fine ha vinto mia madre, e magari ha avuto ragione. Sì, io sono più determinato, anche se credo che il modo di fare alla fine dei conti sia sempre quello. Forse sono solo stato più fortunato.»
«No, non credo di aver composto la colonna sonora di questi ultimi venticinque anni, sono successe troppe cose importanti.»

24 mila baci
«La ragione del mio successo prolungato? Io la conosco, ma non posso dirla. Posso dire che il discorso è sempre uno ma va diluito nel tempo. Certo che di tappe importanti nella mia vita ce ne sono state tante ma se proprio devo indicare i momenti di svolta, adesso me ne vengono in mente tre. Il primo è legato a 24 mila baci. Ero militare in quel periodo quando seppi di essere stato ammesso a Sanremo. Ottenni un permesso di sei giorni, allora ministro era Andreotti. Ero contento anche perché quell’anno avevo creato una rottura con Il mio bacio è come un rock. In quel periodo tutti andavano in scena con il frack, io, il pomeriggio in albergo, avevo deciso che questa cosa mi dava fastidio, non mi vedevo proprio così acconciato. Mi sono guardato allo specchio, ho slacciato il nastrino e ho scoperto che stavo meglio. Poi ho pensato che in scena dovevo voltarmi, fare uno scarto, una mossa. Fu una specie di scandalo, un deputato voleva denunciarmi».
Per scoprire gli altri due punti di svolta della Celentano story bisogna aspettare. La scena sul set è cambiata, gli attrezzisti hanno creato, mentre noi parlavamo un complicato gioco di luci. Alle luci il regista Celentano tiene molto, le fa cambiare e ricambiare. Finalmente si gira, una battuta, un’altra pausa.
«Nel racconto vado all’indietro, torno a un festival del rock ’n’ roll a Roma. Mi avevano chiamato con altri tremila cantanti, c'erano tutti i big, Villa, la Tornelli, tutti insomma. Ho preso la valigetta e sono arrivato a Roma la sera prima dello spettacolo. È successo che mi hanno dato tre canzoni da imparare per l’indomani: io gli dico guardate che non ce la faccio, loro insistono. Studio la notte e naturalmente non le imparo a memoria. Allora ho pensato una cosa, mi sono scritto i testi su un grande foglio e con quello sono andato in scena. Solo che arrivato a metà non potevo più leggerlo, dovevo girare il foglio. Lo girai e mi accorsi che in quel modo la scrittura era all’incontrario. Feci finta di nulla e andai avanti lo stesso, fu un grande successo, anche se l'impresario mi voleva fare causa. Mi videro altri due impresari più intelligenti che mi chiesero di andare a un festival ad Ancona. Anche là ci volevano tre canzoni, era una fissazione. Le preparai e arrivai primo, con Il tuo bacio, secondo e terzo».
«Ancora prima ci fu il festival del rock ’n’ roll al palazzo del ghiaccio di Milano. Lo organizzava Bruno Dossena, che mi volle a tutti i costi. Ho saputo che c'è un cantante rock a Milano, mi disse, e finalmente ti ho trovato. Mi viene anche in mente il mio primo gruppo, eravamo i Rock boys, con Gaber e Jannacci; in una tournée in Germania, venne anche Tenco».
«Da allora sono passati più di venti anni ma ancora, tra i tanti Celentano, l’attore, il regista, il cantante, preferisco quest’ultimo. A parte l’origine, mi piace la reazione immediata del pubblico a quello che fai. Mi diverto a scrivere e a raccontare con il cinema, solo che in questo caso devi aspettare per avere le reazioni, anche se poi magari la soddisfazione è più ampia, più profonda.
Il mio primo scudetto? Beh, ne ho vinti tanti, quando un film incassa più di tutti o quando vendi un milione di copie di un disco. Ma come effetto sul pubblico forse il primo scudetto è stato 24 mila baci. No, Ti ricordi Dolly Bell non l’ho visto, non sapevo nemmeno che esistesse quel film. Adesso devo procurarmi la cassetta».

Sincerità di Berlinguer
«Sono tante le cose che non rifarei, anche se in questo momento non me ne viene in mente nessuna. Una cosa che mi è rimasta impressa nella mente, è il ricordo di un giorno che ero nervoso in casa. Saranno passati più di vent'anni. Mi era capitato di arrabbiarmi con mia madre e all’improvviso ho visto il dolore nei suoi occhi. Ho riflettuto e mi sono bloccato. Poi sono uscito e mentre passeggiavo mi sono detto che in futuro avrei dovuto sempre evitare di arrabbiarmi in quel modo. Ma in fondo quella volta mi sono represso, quindi non posso nemmeno dire che si tratta di una cosa che non rifarei. Non mi piace arrabbiarmi con gli altri, anche se devo dirti che non è sempre facile essere Celentano, è anche faticoso».
«Della politica proprio non me intendo, e devo dirti che non conosco nemmeno il tuo giornale, non riesco quindi a immaginare quali possano essere i suoi lettori. Nella politica, ma non solo nella politica, c’era uno solo che mi piaceva e ho sofferto molto quando è morto, Enrico Berlinguer. Anche se era di una dottrina diversa dalla mia, vedevo in lui una sincerità che non vedevo in altri. Devo dire che quando compariva in televisione, qualunque cosa facessi in quel momento, la piantavo li e mi mettevo a vederlo. Mi piaceva molto Berlinguer».
«Sì, lavoro parecchio, ma non mi piace far fare indigestione alla gente, io credo che uno non debba mai strafare. Per questo vado poco in tv, non si può esagerare. Ho sempre avuto questo pudore, anche con le donne delle quali ero innamorato, se mi accorgevo che diventavo troppo insistente e pesante cercavo di limitarmi. Capisci perché non mi può piacere il bombardamento della pubblicità? È il vero inquinamento totale. No, no. questo film non andrà mai in quelle televisioni inzeppate di pubblicità, se andrà da qualche parte andrà alla Rai che almeno non interrompe i film».
Mancherebbero poche battute per costruire un finale, prima che Celentano si decida a girare l’ultima scena della nottata, ma la pausa per un’abboffata di anguria è obbligatoria. Le ragazze meravigliose hanno finito la loro parte e se ne vanno quando sono ormai le tre. Celentano accenna una mossa e dall’auto in partenza erompe il coro «ciao supermolleggiato». Sul set rimane solo un ballerino, adesso tocca a lui. C’è bisogno del regista per sistemare la macchina da presa.
«Non so cosa farò dopo, forse andrò in campagna, ma qualunque cosa dicessi sarebbe probabilmente una bugia, davvero non lo so. Adesso penso solo a finire Joan Lui, sai ho paura, ho paura di non farcela a finire. Per guadagnare tempo giro di giorno e la notte monto. Ma la paura di non finire in tempo resta. Anche se io credo che Lui, questo film, ci tiene a farlo uscire per Natale».

"il manifesto", 14 luglio 1985

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