19.10.17

Togliatti, chi era costui? Se la sinistra perde la memoria... (Luciano Canfora, 1989)

Nell'estate del 1989, prima della cosiddetta “caduta del muro di Berlino” e della “svolta” di Occhetto che portò allo scioglimento del PCI, una vera e propria campagna contro Togliatti e l'eredità comunista caratterizzò su “l'Unità” il dibattito politico all'interno di quel partito: un articolo di Claudia Mancina per cui il comunismo era “un cumulo di macerie” e poi un saggio semiufficiale di Biagio De Giovanni.
Il testo che segue è un intervento nella polemica non di un politico di professione, ma di uno storico, Luciano Canfora, che si occupava prevalentemente di antichistica ma non rifuggiva da incursioni nella contemporaneità. Fu pubblicato su “Avvenimenti”, un settimanale cui aveva dato vita con altri Diego Novelli, giornalista di vaglia, già sindaco di sinistra a Torino, molto legato a Berlinguer e inviso ai socialisti di Craxi dei quali aveva denunciato alcune magagne e alla corrente “migliorista” di Napolitano, filocraxista. Canfora lascia intendere quale sia la vera posta in gioco di quel dibattito: non solo e non tanto il Pci e il comunismo, ma l'esistenza in Italia di una sinistra degna di questo nome.
L'articolo viene pubblicato nei primi giorni d'ottobre del 1989. Poco più di un mese dopo arriverà la Bolognina. (S.L.L.)
Nenni e Togliatti in treno
Togliatti, Stalin, lo stalinismo. «Il socialismo in un solo paese», «la via italiana al socialismo». Gli equilibri di Yalta, il memoriale di Yalta. Nenni, Parri, De Gasperi, la Costituente; Truman, Khrusciov, il rapporto Khrusciov; l’Ungheria. Gli operai della Fiat e i portuali; il luglio ’60 e Reggio Emilia; le cooperative emiliane, la Cgil; Di Vittorio, Li Causi, Vittorini, e gli anni in cui si andava in bicicletta. Una preistoria, di cui nessuno sembra voglia più parlare seriamente: eppure è alle radici non solo della sinistra italiana, ma dell’intera Italia. Cosa si muove all’interno del dibattito su Togliatti
Togliatti con Pompeo Colajanni, Bufalini e Li Causi
Il primo procedimento della storia consiste, presa una serie arbitraria di avvenimenti continui, nell'osservarla separatamente dalle altre, mentre non esiste né può esistere l'inizio di nessun fatto, ma un fatto deriva sempre dall'altro senza discontinuità. Il secondo procedimento consiste nel considerare le azioni di un uomo, re o condottiero, come la somma delle volontà degli uomini, mentre la somma delle volontà degli uomini non si esprime mai nell'attività di un solo personaggio storico. Così Tolstoj, al principio della terza parte del III libro di "Guerra e pace", commenta gli sforzi poco felici di Napoleone — nel "Memoriale di Sant'Elena" — di spiegare la propria sconfitta nella campagna di Russia. È una riflessione che prende le mosse da un punto di partenza che non è facile deglutire appieno, con tutte le sue conseguenze: «per la mente umana è inconcepibile l'assoluta continuità del moto».
Nell'interpretazione corrente della mezza cultura, questa formulazione può apparire come la trappola ovvia dello storicismo per cui tutto quello che è stato ha avuto una ragione per essere (cito da una pretensiosa divagazione su Togliatti» pubblicata su «l'Unità» lo scorso 20 agosto, in prima pagina). Lì si legge una strana contorsione concettuale: «Certo — scrive il saggista scritturato dall'Unità — la storia e gli uomini vanno capiti, ma attenzione a non cadere nella trappola ovvia dello storicismo etc., e subito dopo: «Bisogna guardarsi da un simile atteggiamento. Usiamo invece l'arma della critica, e dove è necessario il rigetto; e noi (chi?) rigettiamo tutto ciò che è coinvolto nell'eredità di Stalin, non con spirito difensivo e rinunciatario ma come atto di responsabilità eticopolitica dovuto a noi stessi e alla società italiana». Il fine empirico di questa teoresi del «rigetto» è chiarito subito in apertura: si tratta di «rigettare» Togliatti profondamente coinvolto nella storia del comuniSmo nell'età di Stalin; anzi del comunismo tout court: «il comunismo reale è giunto al termine di una storia e con esso tanta parte della cultura e dei protagonisti che lo produssero». Togliatti è dunque sicuramente fra questi, e il giudizio politico (forse voleva dire «il giudizio storico», strano essendo un giudizio politico retroattivo) deve fermarsi su questo passaggio essenziale. Verrebbe voglia di dire: proviamo a tradurre per esempio in inglese quest'ultima frase, e vediamo che vuol dire.
Non metterebbe conto tentare di decifrare «il saggio che "l'Unità" ha chiesto a Biagio De Giovanni» (così veniva definito il carattere per così dire ufficiale ed «ispirato» del saggio in questione, due giorni dopo, martedì 22 agosto, pagina 2, sulla stessa «Unità»), se esso non avesse assolto pienamente alla sua funzione, nonostante la pioggia di critiche pubblicate nei giorni successivi dallo stesso giornale del Partito comunista (Foa, Libertini, Magri, Gozzini, Chiaromonte ecc.). La funzione era di far sapere che noi — cioè, par di capire, l'attuale gruppo di consiglieri del neo-segretario del Pci — la pensano così.
La lotta politica, anche la più spregiudicata, merita la massima considerazione. Ed è ben noto che la rilettura del passato — gli «argomenti» tratti dalla storia — fa parte delle frecce nell'arco di ogni politico: dall'antica Grecia ai nostri giorni. Trovo sempre molto ingenua la deplorazione che alcuni fanno «dell'impiego della storia a fini politici». Questo impiego è invece una delle ragioni principali per cui è nata la storiografia: figuriamoci se c'è da scandalizzarsi per il fatto che la rilettura «di parte» o «strumentale» del passato rientra nello scontro politico quotidiano! Il problema è, piuttosto, del modo in cui lo si fa e dei fini che ci si propone. Un modo sbagliato è, certamente, quello dell'autofustigazione in vista di un premio da parte degli avversari: nulla si regala, in politica; gli avversari non danno premi, al massimo potranno dire con più forza: dunque avevano ragione! E nello scontro politico è assolutamente prioritario aver ragione. Ma se si guarda all'indietro la vicenda storica cercando di distribuire ragioni e torti si precipita in un ginepraio in cui tutti, prima o poi, hanno avuto una parte di ragione: Lutero contro la corruzione della chiesa cattolica, Erasmo contro il fanatismo di Lutero; ed anche Bruto e Cassio contro Giulio Cesare, sia pure dopo alcuni secoli di vitale durata della costruzione politico-statale voluta dalla loro vittima. Ma a che serve — cosa mai significa — «aver ragione» retroattiva in riferimento al passato storico? Evidentemente nulla.
D'altra parte il politico sa bene che prima o poi sarà «mangiato», e per ragioni politiche. Togliatti stesso ha lucidamente valutato che il radicale ridimensionamento della figura di Stalin era un prezzo politico necessario quando il ciclo storico dello stalinismo (sopravvissuto troppo a lungo a se stesso nei difficili anni dell'immediato dopoguerra) era ormai concluso. E non è casuale che la grande crescita del Pci come forza politica in Italia si sia avuta proprio dopo la resa dei conti con lo stalinismo. Poiché la stella polare del pensiero e della prassi politica di Togliatti è stata la capacità di cogliere il cambiamento, non v'è dubbio che la rilettura di Togliatti stesso come personaggio storico e dunque non come dogma per l'oggi è, se non si riduce ad un vacuo e gratuito hara-kiri, operazione a sua volta squisitamente togliattiana.
Ma esiste il problema della comprensione storica e del giudizio storico. Beninteso non in una prospettiva eterna, che sarebbe pura metafisica. L'osservatore che, di epoca in epoca, si rivolge al passato per intenderlo, darsene ragione, vederne lati che le generazioni precedenti non hanno veduto è sempre il benvenuto: a patto che non assolutizzi se stesso ed il suo mondo di valori: è infatti egli stesso un oggetto storico «condizionato». Il suo sforzo dev'essere semmai di calarsi nelle categorie e nei dilemmi dell'età che intende studiare e comprendere, giacché per l'operazione opposta — quella che consiste nel misurare la distanza tra noi e il passato — basta il succedersi delle mode. In riferimento all'età dell'imperialismo aggressivo e guerrafondaio dei fascismi sarebbe assolutamente ridicolo dolersi che il movimento operaio non abbia adottato come proprio architrave operativo e ideologico la non-violenza. Ma nel mondo venuto dopo Auschwitz e Hiroshima, e per decenni sull'orlo dell'autodistruzione nucleare, la pace è passata al primo posto nella lista delle priorità del movimento operaio: il «discorso di Bergamo» di Togliatti ne è testimonianza eloquente e duratura.
Proviamo allora a ragionare sul passato storico, su questo secolo che stiamo per lasciarci alle spalle, fuori del misero battibecco quotidiano. A considerarlo nel suo insieme, non è chi non vede uno spartiacque fondamentale nel terribile conflitto terminato nel 1945: un conflitto che veniva da molto lontano, il cui primo colpo era stato sparato probabilmente nell'agosto 1914 e che, nei «vent'anni tra due guerre» caratterizzati dal dilagare del fascismo soprattutto nei paesi che la cosiddetta «prima guerra mondiale» aveva penalizzato, ha avuto soltanto una parentesi foriera di ancora maggiore tempesta. È un'epoca in cui vengono al pettine tutti i nodi lasciati irrisolti dal secolo precedente: dalla crisi dello stato liberale all'allarme dei ceti possidenti per l'avanzata del movimento operaio (cui si rispondeva pur sempre — da parte dello Stato liberale — con le cariche dei carabinieri), dal crescente contrasto inter-imperialistico acuito dalla inarrestabile crescita della Germania, alla scelta delle borghesie europee di imboccare nel '14 la strada della carneficina, dalle promesse elargite alla leggera da quelle stesse borghesie al fine di ottenere un consenso di massa alla guerra, alla delusione delle promesse disattese, da cui nascono l'aggressiva inquietudine dei movimenti fascisti e la spaccatura del movimento operaio.
La rivoluzione russa non fu un accidente della storia; fu l'epilogo di quella miscela incendiaria innescata nel '14 dall'incoscienza delle borghesie d'Europa. Col precipitare degli eventi — accelerato dal dilagare del fascismo in tutto il continente — la contrapposizione fascismo/ bolscevismo polarizzò di fatto lo scontro per un'intera fase storica: anche per gli altri movimenti democratici finì con l'imporsi una scelta di campo tra quei due poli. La grande novità del nuovo conflitto — dovuta essenzialmente all'entrata in campo dell'America rooseveltiana — fu la saldatura di un fronte tra sovietici e alleati occidentali, sorretti e guidati dall'America del New Deal. Questa spaccatura del vecchio e compatto «cordone» antisovietico cambiava tutto: l'occidente schiacciava la componente fascista, che esso stesso aveva generato; l'Urss ed il movimento comunista entravano in una nuova fase storica, presto però raggelatasi se non stroncata dalla «guerra fredda». Guerra fredda di cui viviamo oggi la fine, in un mondo profondamente mutato rispetto agli equilibri di Yalta.
De Gasperi con Nenni e Togliatti in una riunione di governo
Il momento-chiave dell’azione politica di Togliatti è appunto in quel passaggio storico fondamentale e ricco di potenzialità che si suole chiamare unità anti-fascista. Definizione riduttiva e logora perché solo «negativa»; ma che non deve ridurre ai nostri occhi la portata della novità. Dopo la bufera, la convinzione maturatasi in Togliatti era che nella fase apertasi con il crollo del fascismo il compito del movimento operaio (italiano) fosse di portare alla luce e valorizzare al meglio le potenzialità democratiche che anche le forze borghesi più avanzate fattesi avanti nella lotta contro il fascismo avevano dimostrato di avere. Una società politicamente ed economicamente articolata, di «democrazia progressiva», non era per lui un «ripiego» in mancanza della opportunità pratica di conquistare un palazzo d'inverno; era il miglior programma politico che il movimento operaio lì e allora potesse proporsi. Perciò Togliatti ha combattuto con piena e profonda convinzione per quel progetto e per quegli obiettivi: tutt'altro che «agevoli» a giudicare dalle controspinte reazionarie (scelbismo e maccarthismo) che la guerra fredda produsse in Occidente ed in Italia. E nondimeno — è qui la prova di quanto quella fosse una scelta strategica e non strumentale —, e nondimeno nè la guerra fredda né lo scelbismo, né gli eccidi di lavoratori — così frequenti nell'Italia che abbiamo alle spalle e che non era una arbitraria creazione del cinema neorealista —, nulla di tutto questo (e neanche il Kominform e la repressione all'Est) indussero Togliatti a deflettere mai dalla scelta di fondo della democrazia progressiva come orizzonte strategico del movimento operaio italiano. Nessuna tentazione di sovversivismo, nessuna impazienza, nessuna indulgenza verso il partigianato deluso (e che aveva molte buone ragioni per sentirsi deluso e tradito) disturbò mai in Togliatti la lucidità e la linearità di quella scelta messa in atto al momento stesso del suo rientro in Italia nel 1944: a costo di apparire fin troppo moderato ai Nenni, ai La Malfa, ai Parri.
Attribuire però a Togliatti — o pretendere retroattivamente da lui — una opzione «eterna» in pro della democrazia parlamentare come punto d'arrivo dell'evoluzione umana sarebbe evidentemente idiota: come idiota è pensare che la nottola di Minerva abbia ormai spiccato il suo volo, che cioè questo sistema politico costituisca l'approdo definitivo di quell'incessante sperimentare che è l'esistere politico, che è il funzionamento e l'evolversi delle società. È penoso che sull'eternità di questo modello si chiedano oggi, ai comunisti, giuramenti per il futuro e condanne retroattive: proprio oggi che la crisi del modello, a quasi mezzo secolo dal suo decollo in Italia, è sotto gli occhi di tutti: non già dei nostalgici giaculatori dell'ortodossia marxista-leninista, ma degli osservatori più accorti della stampa liberal-democratica, indipendente ecc. Lo stato democratico — fondato dai costituenti — è diventato un «doppio Stato» controllato dall'intreccio malavita-potentati economici - ceto politico di mestiere. Non so se si possa parlare di degenerazione irreversibile del sistema democratico-parlamentare (come pensa Cazzola sul «Corriere della sera» del 28 agosto) : certo non si tratta del Palladio della democrazia compiuta.

"Avvenimenti", 5 ottobre 1989

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