29.10.17

Mutazioni. Il calcio ha perso l'epica, ormai è uno show da vendere (Darwin Pastorin)

Ammetto subito le mie colpe: appartengo a una generazione cresciuta con il calcio da immaginare (grazie alle radiocronache), ho fatto tanta televisione puntando, soprattutto, sul “racconto”, tra un libro e un programma televisivo preferisco, di gran lunga, il primo. Ho scritto (e scrivo) molto di pallone: navigando, di preferenza, sulle onde adulte della memoria e riportando sul prato verde (che fu l’inizio, per noi ragazzi, di una nuova avventura dopo Mompracem) gli eroi tragici, i campioni memorabili e, per riabbracciare Osvaldo Soriano, «i perdenti vestiti di sogno». Sono letteratura le gambe storte di Mané Garrincha, i dribbling poetici di Gigi Meroni, il sinistro omerico di Gigi Riva, la rovesciata proletaria di Anastasi, ma anche l’urlo di Tardelli, l’innocenza di Scirea e, su tutto e tutti, il romanzo popolare di Diego Armando Maradona: un cronista, in un pomeriggio di temporale, a Soccavo, dove si allenava il Napoli di tutti i sogni possibili, giura di aver visto Dieguito, uno-due-tre, palleggiare una goccia d’acqua. Qui il mito supera ogni confine, allontanando ogni Itaca.
Nel tempo, il narrare di football – in special modo in televisione – è cambiato. Jorge Luis Borges sentenziò, in epoca non sospetta: «Il calcio comincia a essere una menzogna ben raccontata dai mezzi di comunicazione». Più che menzogna, sicuramente una rappresentazione, spesso, surreale, dove il vedere tutto, con mille telecamere, annulla e mortifica la fantasia. Il prodotto televisivo deve essere venduto, a qualsiasi costo e a tutti i costi: dalla finale di Champions League alla noiosa amichevole estiva; signore e signori, ecco lo Spettacolo: dove ogni partita diventa “formidabile”, “fenomenale”, “fantastica”. Siamo all’epica senza epica. Il rito domenicale è stato sostituito dal match quotidiano, a qualsiasi ora, pranzo, pomeriggio, cena, un frullatore di immagini, di emozioni che si consumano in un attimo perché è già tempo di pensare al prossimo match. Si è spenta, da tempo, la domanda di Marc Augé: «Possiamo, ad esempio, amare il calcio, guardare la televisione e renderci conto del fatto che, per la prima volta nella storia dell'umanità, a intervalli regolari e ad orari fissi, milioni di individui si siedono davanti al loro altare domestico per assistere e, nel vero senso della parola, partecipare alla celebrazione di un medesimo rituale?» (Football. Il calcio come fenomeno religioso, traduzione dal francese di Eleonora Montagner, EDB, 2016).
Oggi siamo sommersi dagli eventi, dalle voci e dalle seconde voci (così inutili e ripetitive, talvolta), dalle discussioni, dal calciomercato giornaliero ovvero la grande fiera del poco o del niente, molti giocatori comunicano soltanto attraverso i social o i procuratori, si sono trasformati in un brand, per i giovani cronisti è diventato difficile intervistare, a tu per tu, i protagonisti, gli allenamenti sono a porte chiuse, le stanze degli spogliatoi blindate, entra soltanto chi possiede i diritti in esclusiva. Ai tempi miei, l’unico “filtro” per un giocatore era rappresentato dalla segreteria telefonica, parlavi con chi volevi, ricordo un’intervista con Paolo Rossi (reduce dai fasti del mundial spagnolo dell’82), fatta con il collega e amico Marco Bernardini, per un’emittente privata torinese alla mostra di Calder: mezz’ora a discutere di tutto meno che di calcio. Zero lire, appuntamento preso direttamente con Pablito senza passare dall’ufficio stampa o marketing. Era un calcio di “vicinanza” e non di “lontananza”. Leo Junior suonò il pandeiro (una specie di tamburello) per noi, parlammo con Causio al circo e con Tacconi a teatro.
Conoscevi i giocatori nella loro vita privata, fuori dalle luci della ribalta, oltre la gloria, in taluni casi effimera, della partita. Dominava, sui giornali e in tv, il racconto. E in Spagna, a celebrare Enzo Bearzot e gli azzurri capitanati da Dino Zoff, c’erano, in tribuna stampa, Giovanni Arpino, Mario Soldati, Oreste del Buono e il “principe della zolla” Gianni Brera. E tu, debuttante bracconiere di storie, crescevi all’ombra di quei giganti.
Certo, non bisogna (soltanto) demonizzare il football moderno: mio figlio Santiago, dal Piemonte, può seguire, gara dopo gara, la sua squadra del cuore, che è il Cagliari e io, a volte, ho la possibilità di vedere in diretta il Palmeiras, la società di San Paolo del Brasile fondata da emigranti italiani nel 1914 e da me amata nella mia infanzia paulistana. E nei varchi delle dirette, nelle feritoie dei bar sport ecco il miracolo di una narrazione d’autore (vedi Federico Buffa su Sky). Troppo poco, però.Serve un maggior raccontare, servono più inchieste, un ritorno alla poetica, a un “come eravamo” senza retorica o enfasi. Soprattutto recuperare l’epifania del pallone: i prati di periferia, dove – poco lontano – passa il treno, gli allenatori di provincia, i migranti che inseguono sogni e palloni, gli aspiranti apprendisti campioni e gli imberbi arbitri che, malgrado tutto, non mollano. E capire cosa spinge tanti, troppi genitori a diventare gli “agenti” dei figli, trasformando un piacere in un incubo. Mi disse, una volta, Giovanni Lodetti, che fu scudiero di Gianni Rivera in un Milan intercontinentale: «Sai, ho intenzione di mettere su una scuola calcio. Tre campi e un cinema», «Perché un cinema, Giovanni?», «Semplice, per mandarci padri e madri quando i loro figlioli giocano o si allenano».
Non esiste soltanto Neymar, che abita su un altro pianeta: ci sono vicende che sanno di sport e di vita intorno a noi, basta sapersi fermare e guardarsi attorno. Riprendere per mano la magia letteraria del pallone. Una favola che appassionò scrittori e poeti. Camus giocò in porta in Algeria e Nabokov a Cambridge, faceva il portiere anche Che Guevara e Pier Paolo Pasolini fu una superba ala destra, come Antonio Tabucchi. Gabriel García Márquez si appassionò alle vicende dell’irresistibile e stravagante attaccante brasiliano Heleno. Jorge Amado scrisse una favola per bambini con protagonista il portierino Go-gol. Beppe Fenoglio e Giorgio Bocca giocarono contro in una amichevole nelle Langhe. E Socrates, il filosofo dal colpo di tacco “che la palla chiese a Dio”, mi chiese, in una tardo pomeriggio a Montevideo, un regalo: spedirgli dall’Italia Le lettere dal carcere di Antonio Gramsci. Perché per Socrates, Gramsci fu il vero fuoriclasse italiano. Altro che Rivera o Sandrino Mazzola! Già, quante belle storie da raccontare in televisione...


Pagina 99, 8 settembre 2017

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