4.10.17

Panem et circenses. Paul Veyne e l'evergetismo (Carlo Franco)

Paul Veyne
«Adesso c'è crisi, e mica solo qui da noi. Ma non dobbiamo fare i difficili (...).Ci aspettano tre giorni di spettacoli magnifici per la festa (...). Il nostro Tito pensa in grande (...). Metterà in campo i migliori combattenti, con duelli all'ultimo sangue, e il gran massacro finale al centro, che tutti possano vedere. Di mezzi ne ha». Così si parla, nel Satyricon di Petronio (45), degli spettacoli offerti dal magistrato di una città romana: una prassi molto diffusa nell'impero. A questa prassi è dedicato Il pane e il circo - Sociologia storica e pluralismo politico di Paul Veyne, tornato in libreria a quasi trent'anni dalla prima edizione (il Mulino): un lavoro ormai classico tra gli studi sul mondo antico, apparso nel 1976, tradotto in italiano, tedesco e inglese. L'autore, già professore al Collège de France, è ben presente nel panorama editoriale italiano, e ogni suo intervento merita riflessioni e discussioni: già da Come si scrive la storia (1970), che scosse con il suo ‘scetticismo' le certezze della storia quantitativa e dell’approccio marxista, avviando un’importante ridefinizione della ricerca storica. Mettere in discussione idee pigramente trasmesse è un punto caratteristico di Veyne: Il pane e il circo lo conferma. Certo, non è un libro ‘reader-friendly', a differenza da altre sue opere: il volume conta oltre 600 pagine(l'originale quasi 900),e appare arduo, non per mole o scrittura, ma per la struttura zeppa di cose e di teorie. Un libro digressivo, ma che vale l'impegno richiesto al lettore.
L'evergetismo fu una pratica sociale durata dall'ellenismo all'età imperiale: l'élite donava alle comunità strutture pubbliche, cibo, giochi o feste. Il termine è moderno, con radici nella lingua greca (euergètes, ‘benefattore'). L'esteso arco cronologico, con incursioni in altre epoche, è affrontato qui con una impressionante documentazione antica (testi storici e letterari, iscrizioni), e l'ausilio delle scienze sociali. I riferimenti fondamentali vanno all'epigrafista Louis Robert, a Raymond Aron e Michel Foucault: in Veyne la tradizione filologica si intreccia così con la sociologia storica. Il titolo riprende la famosa lamentela di Giovenale sulla folla di Roma, che chiede ormai solo panem et circenses (Satire, 10, 81): ma nel libro, senza moralismi e piagnistei sulla decadenza, senza sbrigative liquidazioni, il sistema che distribuiva pane e giochi (e molto altro ancora) è preso molto sul serio. Con una cautela però: che è difficile comprendere sistemi, valori e rappresentazioni remoti da noi, e non basta guardare gli antichi ‘con i loro occhi’, perché «le società come tali non si curano di conoscersi». Necessario dunque usare ‘reagenti’ capaci di restituire il senso di comportamenti e mentalità, ora distanziandosi dagli antichi (‘diversi’ da noi), ora accostandoli per analogia. La spinta che portava i ricchi a donare edifici, svaghi o cibo nasceva da un obbligo percepito, indotto dallo status sociale, e che quello status sociale superiore confermava e rafforzava. Era un dono simbolico, senza valore redistributivo: non si dava ai poveri (forte la distanza rispetto alla ‘carità’ cristiana), né si provvedeva sempre al necessario, ma spesso al superfluo. L’evergetismo era segno di un’età economicamente prospera, che praticava spese sontuose e ‘sperperi’: era la manifestazione di una ‘magnificenza’, un obbligo indotto dalla notabilità, un segno di superiorità politica.
Quanto ai destinatari, Veyne li studia a partire dalla presunta ‘spoliticizzazione' delle masse. Il motto di Giovenale mette in chiaro una «verità crudele», la «naturale apoliticità» dei governati, che avvantaggia i governanti. Oggi conosciamo bene una relazione tra notabili e folla, fatta di spettacolo e non di partecipazione, di scambio e non di confronto politico: così si rapportavano alla massa dei cittadini i ricchi greci, i re ellenistici, i senatori romani, gli imperatori.
Il sistema delle liberalità è studiato lungo sei secoli. Per la Grecia, si esamina il passaggio dalle contribuzioni obbligatorie della città classica alla ‘generosità spontanea' dell'evergetismo, libero oppure legato a un incarico pubblico. Il quadro ha qualche squilibrio, e ha suscitato importanti messe a punto, ma le riflessioni sulla trasformazione della democrazia diretta in ‘amministrazione di notabili' sono oggi illuminanti. Strano è il meccanismo che prevedeva spese dei pochi per i molti, ma «è più facile suscitare l'evergetismo che fondare un sistema fiscale, poiché nessuno ha mai avuto voglia di pagare le tasse, mentre si può aver voglia di fare delle evergesie».
Nella città greca i benefattori erano onorati di contribuire al bene comune, anche quando il dono si rivelava rovinoso. In Roma repubblicana invece l'evergetismo spettava ai senatori. Il loro ruolo sociale era diverso da quelli dei notabili greci: la dignitas connessa con il potere e la struttura oligarchica della società non richiedevano loro, come in Grecia, di dimostrare con il dono il proprio ‘disinteresse' per la politica. L'offerta di giochi, banchetti, edifici, doni alimentari confermava la superiorità dei donatori e ne sanciva il prestigio, ma era un vero atto politico. Quanto agli aspetti economici, Veyne è primitivista (e scettico): la gestione finanziaria a Roma era confusa, la società era «inerte» e orientata verso il superfluo. Le distribuzioni di grano, vero ‘evergetismo di stato' nella fase repubblicana, poi trasformate in ‘privilegio' della plebe romana, non risolvevano il problema dell'approvvigionamento.
Nella città di Roma l'imperatore era l'unico benefattore della folla; nelle provincie restava ai notabili qualche visibilità: ‘mecenate' dell'impero restava però solo l'Augusto. Secondo prospettive sociologiche Veyne analizza il rapporto tra imperatore e popolo, l'immagine del ‘buon re', il culto (i Cesari ‘si lasciavano' adorare, senza implicare una credenza),e sottolinea il carattere ‘spontaneo' dell'evergetismo. Ma certo i benefattori avevano il loro compenso, e la loro generosità era meno disinteressata di quanto i documenti lascino vedere. Lo sapeva già un convitato di Trimalcione: «Dice: ‘Ma io lo spettacolo te l'ho offerto'. Giusto, e io ti batto le mani, ma fa' il conto, e io ti do più di quel che ho ricevuto» (Satyricon, 45). Importanti le considerazioni sulla propaganda e la ‘pompa' come espressione del potere. L'ideologia è rivalutata come ‘espressione', non maschera o specchio delle società, ma veicolo di rappresentazione del potente: giacché egli non è solo ‘volpe' o ‘leone', ma anche ‘pavone'.
Non è facile render conto di un'opera come questa che, nonostante la mole, non è un'indagine esaustiva, ma un laboratorio di ricerca: già la discussione di J. Andreau-P. Schmitt-A.Schnapp (in «Annales-ESC» 1978, pp. 226-31) notò ambiguità e contraddizioni, omissioni e sottovalutazioni. In Italia il libro è valso come introduzione al fenomeno evergetico più che come strumento di lavoro: lo provano anche le grandi opere einaudiane della Storia di Roma e dei Greci. In anni recenti gli studi sull'evergetismo si sono moltiplicati. Il mot-to di Giovenale è stato ripreso (C.W. Weber, Panem et circenses, Milano 1985), e molti temi hanno avuto sviluppi importanti: così il pane (C. Virlouvet, Tessera frumentaria, Roma1995),il circo (W. Letzùner, Der romische Circus, Mainz 2009) o il mondo romano occidentale (M. Cébeillac-Gervasoni, ed., Le quotidien municipal dans l'Occident romain, Clermont-Ferrand 2008). Numerosi lavori apparsi sul mondo greco hanno posto un dubbio: davvero la vita delle città imperiali si compendiava nelle donazioni e negli spettacoli? Quale spazio avevano i contrasti sociali, che l'evergetismo smorzava, marcando soprattutto l'opposizione cittadini/noncittadini? Il problema esisteva: è errato dire che «il pane e il circo assicurassero la pace sociale, quando invece essi permettevano che non si guastasse».Quanto al regime dei notabili, «avrebbe potuto funzionare benissimo» anche senza l'evergetismo.
La ristampa è accompagnata da una nuova introduzione, curata ancora da A. Dal Lago, ma avrebbe dovuto comprendere migliorie: informare sui modi di riduzione del testo (vari paragrafi, note), migliorare la traduzione, inserire rinvii, correggere refusi che oscurano la comprensione. Chi sospetta che per «l'uomo che possiede mille argenti» (p. 96) in realtà s'intende una proprietà agricola di «mille argents»? Chi sa che «aureola di Thunen»(p. 388) rinvia alle teorie di un economista ottocentesco? Quanti indovinano che i contributi alimentari imperiali per Velia (pp. 572 s.) si riferiscono in realtà a Velleia, presso Parma? Nelle note, incoerenti nell'editing, il numero di refusi è altissimo, e le storpiature rendono spesso inutilizzabile l'apparato: l'oscura «nematistica» di Aristotele (p. 150, n. 143) è, in effetti, la «chrématistique»!

“Alias il manifesto domenica”, 22 settembre 2013

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