10.10.17

Yeats verso Bisanzio. Tensioni visionarie di un pragmatico su sfondo irlandese (Enrico Terrinoni)

William Butler Yeats (Dublino 1865 - Roquebrun 19399
«Ci stiamo preparando, si spera, al giorno in cui in Irlanda si parlerà gaelico, proprio come in Galles si parla gallese all'interno dei suoi confini»:così scriveva Yeats in un articolo non troppo noto del 1899. A restituire nuova eco a queste parole è ora un libro che si rivelerà tra i più importanti nei cosiddetti Irish studies per le generazioni a venire, ovvero the Handbook of the Irish Revival (a cura di Declan Kiberd e P.J. Mathews, Abbey Theatre Press, pp. 227, e 18,99). Presentato per la prima volta al pubblico il 22 giugno scorso, proprio in quell'Abbey Theatre di Dublino che Yeats contribuì a fondare, include quasi duecento interventi di grandi firme irlandesi appartenenti agli ambiti più disparati (letteratura, teatro, politica, sindacalismo), affiancate a nomi meno noti provenienti dal Revival irlandese.
Per molto tempo concepito come un fenomeno di matrice protestante e quasi aristocratica, il Revival è qui declinato dai due curatori, in sintonia con tanti altri studiosi, in senso più apertamente inclusivo e nazionale, abbracciando quasi tutti gli scrittori e intellettuali irlandesi del periodo, senza divisioni settarie o confessionali. Tra queste pagine Yeats figura con ben sedici contributi: poetici, di critica letteraria, ma anche di riflessione culturale e politica. Del resto, l'Irlanda di oggi è, per molti versi, un'invenzione di Yeats, che non soltanto ne ha reimmaginato il passato, andando a scavare nei suoi miti, ma ne ha segnato con la sua opera il futuro, e ha contribuito al suo ruolo politico all'interno del Senato dello Stato libero.
Yeats è dunque, anche in una prospettiva internazionale, una figura chiave per la comprensione del novecento irlandese. Fu in contatto con Pirandello, di cui lesse molto, quasi tutto. E poi con Pound, Eliot, e innumerevoli altri, soprattutto dopo avere vinto il nobel per la letteratura, nel 1923. Gira ancora in Irlanda un aneddoto secondo il quale l'allora potentissimo direttore dell'“Irish Times”, Robert Smiley, chiamò Yeats peravvertirlo del Nobel, ma non riuscì a trovare le parole per l'emozione. Al che il grande poeta gli venne in soccorso: «Per l'amor del cielo, Smiley, tagli corto, mi dica a quanto ammonta il premio».
Una importante rassegna di poesie di W.B.Yeats esce ora da Marsilio a cura di Dario Calimani, Verso Bisanzio (pp. 249, e17,00): vi figurano componimenti da ben tredici sue raccolte, le più significative, pubblicate tra il 1889 e l'anno della morte, il 1939. Include gran parte dell'opera poetica maggiore di Yeats, dalle prime prove della fase mistica e celticista («Il bimbo rapito», «L'isola sul lago di Innisfree»), alle poesie più sperimentali del periodo modernista e estetizzante («Lapislazzuli», «Bisanzio»), passando per uno stadio più pronunciatamente politico e legato alle sorti della nazione nascente («Settembre 1913», «Pasqua 1916»).
A ben vedere, l'interesse per l'azione politica percorre, nelle sue varie materializzazioni, tutta l'opera di Yeats, e lo fa con incredibile apertura critica, mostrando tuttavia la sua ambivalenza: perché, se da una parte il poeta aborriva anche la sola vista della violenza, ne restava affascinato da un punto di vista estetico. Lo spiegava già Giorgio Melchiori nel suo primo libro inglese, mai tradotto in italiano, The Whole Mystery of Art, del 1960. Yeats era per natura un conservatore, ma come il conterraneo Swift - il cui spettro non a caso infestò la sua tarda produzione poetica e teatrale - potrebbe essere definito, almeno dal punto di vista caratteriale, un Tory anarchist; questo nonostante i suoi clamorosi e infelici abbagli, come la vicinanza al movimento fascista delle camicie blu, o la fascinazione per il testone di Predappio.
Proprio questa ambivalenza ereditata dall'altro irlandese suo coetaneo e conoscente, Oscar Wilde, che si interessava di magia nera e esoterismo quanto di riforma agraria e di legge di autogoverno, anima costantemente l'opera di Yeats estendendosi persino alle sue «sistematizzazioni» teoriche. Basterebbe pensare alle teorie della maschera, del self e dell'anti-self, oppure alle spirali storiche contrapposte, cui dedica il suo maggior libro occulto, Una visione, ma anche una nota poesia, The Gyres, «Le spirali» appunto, inclusa nella preziosa raccolta di Calimani. Questo perché la sua predilezione per l'incontro, l'incrocio, l'attrito degli opposti, quasi in sintonia con la materialista coincidentia oppositorum di Giordano Bruno, è di per sé un programma politico. Il drammaturgo Brendan Behan ricorda come, durante la famosa settimana di Pasqua del 1916, palcoscenico della rivoluzione antiinglese poi soffocata nel sangue, una vecchietta provò in tutti i modi a convincere Yeats a prendere le armi. E per poco venne meno quando scoprì, a rivolta finita, che quello, invece di combattere, aveva scritto una poesia sulla insurrezione.
Definito nel 1899 da uno dei padri della rivolta, Patrick Pearse (Pàdraic Anrai Mac Piarais) un «poeta inglese di terzo o quarto rango», Yeats possedeva la personalità tipica dei visionari: non a caso, uno dei suoi modelli era Blake, di cui curò l'opera. Era capace di assorbire ogni stimolo esterno, culturale o politico, senza pregiudizi. E quegli stimoli riusciva a tramarli in un sistema di più ampio respiro, storico ed estetico al tempo stesso, essendo in grado di partire, in maniera quasi scientifica, dal dato apparente - fosse anche soltanto un'allucinazione - per poi restituirlo trasfigurato, cristallizzato, in una cornice di nessi. Ne è testimone il suo forse maggiore convincimento occulto, quello riguardante l'esistenza di un'anima mundi, una sorta di memoria eterna, ricettacolo di ogni stimolo, idea o pensiero mai pensato, percepito o prefigurato da mente umana. Un debito diretto di quei «registri akasici» di cui parlano e scrivono tanti sodali di Yeats nelle sette ermetiche di cui ha fatto parte. Ma sarebbe sbagliato non proiettare tutto ciò su uno sfondo irlandese. Nonostante in maniera un po' schematica si sia talvolta inclini a distinguere la sua opera in periodi - dando a intendere che la prima sua fase, quella celticista e mistica, sia stata poi superata - Yeats, come Joyce, dall'Irlanda non si distanzia davvero mai.
Anzi, attraverso l'attenzione per i fatti politici e i problemi sociali, vi torna assiduamente, nel ruolo di intellettuale pubblico, di fugura nazionale. E lo fa anche nelle poesie più eteree, sperimentaliste, e sfuggenti. Non a caso, nell'accettare il Nobel, uno Yeats quasi sessantenne decise di declamare, e con una voce che pareva venire dall'oltretomba, proprio quella sua «Innisfree» composta all'età di ventitré anni, nel 1888. E pensare che nell'ottobre del 1890 aveva scritto, in una rivista inglese, di provare conforto nel rendersi conto di come l'Irlanda non avesse ancora incontrato le nefaste trasformazioni subite dall'Inghilterra a causa del capitalismo industriale, reo d'aver deprivato la società di mistero e immaginazione: «Il mondo, credo conservi molto più significato per un contadino irlandese che per uno inglese; e questo grazie al popolo di folletti e fate che vivono nelle colline, per i boschi e sui laghi. Infondono vita ai morti pendii, e circondano gli agricoltori, intenti ad arare e a scavare, di tenere ombre poetiche». Tenere ombre poetiche che rendono, di Yeats, quella complessità rispecchiata nelle tante, diverse, eppure complementari articolazioni della sua sterminata opera. L'opera di un poeta tardo romantico e poi modernista, di un eterno innamorato della stessa donna, di un critico della società, e di un visionario che mai smise di credere in quell'Irlanda che lui stesso aveva contribuito a forgiare.


“Alias domenica il manifesto”, 5 luglio 2015

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