1.11.17

A trent'anni dal «Pasticciaccio» di Gadda. Un maestro del dolore (Giovanni Raboni, 1987)

Barocco e illuminista,
sperimentale e ossessionato:
tutti conoscono e celebrano 
lo stile dell’Ingegnere.
Ma ora si annuncia un epistolario
che contiene il romanzo più bizzarro.
Quello della sua vita

«Che cosa fai tutto il giorno?», gli chiedono le persone indaffarate: «Non ti muovi mai?». «No: non mi muovo». 
È, per chi non lo ricordasse, la stupenda chiusa di una prosa minima e tuttavia inconfondibile di Carlo Emilio Gadda: una breve nota biografica, in terza persona, con la quale il «gran lombardo» (la definizione è di Giulio Cattaneo, suo acuto e affettuoso memorialista) volle accompagnare la prima edizione, presso Garzanti, di uno dei suoi capolavori, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana.
Era il 1957; e da sette anni l’Ingegnere (altro appellativo con cui amici e ammiratori erano soliti designarlo; assolutamente legittimo, del resto, perché Gadda si era laureato in ingegneria al Politecnico di Milano e aveva svolto, in Italia e all’estero, svariati incarichi ingegnereschi) viveva, lasciate la natia Milano e l’elettiva Firenze, a Roma.
A Roma, Gadda c’era andato per ragioni di lavoro, anzi di sopravvivenza. Di solida famiglia borghese incappata però, a partire dalla prima guerra mondiale, in traversie anche finanziariamente dolorose, s’era barcamenato a lungo, e sempre più a fatica, fra lavori professionali e collaborazioni giornalistiche; poi, vicino alla sessantina, aveva accettato con riluttante sollievo un impiego alla Rai, dove s’era adattato a svolgere (cito da una sua lettera inedita) «funzioni burotracritiche o addirittura burocratiche, adattissime alla sua totalitaria ignoranza».
Ma, dopo cinque anni, aveva lasciato quell’impiego; ormai era uno scrittore molto noto anche se non altrettanto capito, oggetto di venerazione per pochi e di fraintendimento per i più. Un premio Viareggio lo aveva reso per qualche settimana, diceva scherzosamente, «una specie di Lollo-brigido, di Sofio Loren»; la vera fama sarebbe arrivata con il Pasticciaccio. Viveva (sono ancora sue parole) «a quattordici chilometri dal centro, in una casa di civile abitazione, confortato nottetempo dagli ululati dei lupi».
Gadda era un uomo grandiosamente bizzarro, simile per qualche verso a certi personaggi teneri, comici e stravaganti dei romanzi di Charles Dickens: pieno di paure, di fobie, misogino sino all’inverosimile (in ogni donna nubile o vedova di qualsiasi età fiutava una possibile, temibilissima aspirante alla sua mano), formale e cerimonioso sino all’insulto. In un importantissimo libro che verrà pubblicato fra qualche mese, e del quale parlerò più avanti, Gianfranco Contini, il maggiore dei suoi studiosi e interpreti, ne descrive l’alta statura, l’abbigliamento «poco meno che austero»; e oltre, appunto, all’«oltranza di buoneducazione», ne ricorda l’«infelicità enorme, intervallata (...) da un’ilarità altrettanto enorme».
Ma perché sto parlando di questo personaggio grande in tutto, nelle qualità come nelle debolezze, nell'immaginazione come nel dolore? Potrei rispondere - e sarebbe, mio modo di sentire, una ragione sufficiente - che ne parlo perché credo che Gadda sia uno dei massimi scrittori che l’Italia abbia avuto, e non solo in questo secolo. Ma ci sono, è meglio dirlo subito, motivi più contingenti.
Il primo motivo è di carattere, diciamo così, celebrativo. Siamo abituati, ormai, a non lasciarci scappare un centenario che sia uno. Ebbene, in quest'anno 1987 si celebra, in anticipo di sei anni sul primo centenario della nascita dello scrittore, una ricorrenza meno canonica ma, suppongo, non meno significativa: treni anni dalla pubblicazione, appunto, del Pasticciaccio, il romanzo che non pochi critici ritengono il suo capolavoro (nor io; non perché non mi sembri un capolavoro, ma perché sono incline a scorgere, nell’opera di Gadda, una complessa e inscindibile triade o trinità di capolavori: il Pasticciaccio accanto a L'Adalgisa e a La cognizioni del dolore) -, e che, in ogni caso, è senza dubbio il libro più conosciuto, in un certo senso addirittura popolare - nu merose edizioni, più di duecentomila copie vendute, una decorosa e natutalmente sbiadita trascrizione cinematografica - di questo autore proverbialmente «difficile».
Altro motivo, la singolare proposta da parte dell’editore Scheiwiller, degli articoli di divulgazione scientifica scritti da Gadda in vari periodi (anche della maturità) per alcuni quotidiani e riviste. Azoto (questo il titolo della raccolta) è una rarità prelibata per appassionati e cultori di Gadda, non certo un passaggio utile o tanto meno obbligate per chi si accosti alla sua opera da semplice lettore. Ma è una rarità che è giusto segnalare: anche perché, nella personalità di Gadda, la componente razionale, scientifico-illuministica ha un’importanza tutt’altro che secondaria, e ancora largamente da accertare, accanto alla componente sin troppe nota (o, perlomeno, troppo univocamente sottolineata) del suo sfrenato «irrazionalismo» stilistico.
A questo proposito, anzi, non si terrà mai abbastanza presente la famosa battuta autoesegetica delle scrittore: «Il grido-parola d’ordine “barocco è il G.!’’ potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto "barocco è il mondo, e il G. ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”»; battuta che si legge nel dialoghetto fra l’Autore e l’Editore immaginato da Gadda per introdurre la prima edizione in volume (1963) della Cognizione del dolore.
Ma i motivi del nostro parlare oggi, proprio oggi, di Gadda non sono certo esauriti, anzi stiamo procedendo, nell’enumerarli, dall’esterno verso l’interno, dalla mera occasione alla sostanza. Ed ecco subito, di assai sostanzioso, il Ritratto di Gadda che un valoroso critico, Gian Carlo Ferretti, ha fatto uscire in questi giorni per i tipi dell’editore Laterza: uno studio che ripercorre passo per passo la storia delle strepitose e sofferte creazioni gaddiane.
Una storia non facile da dipanare, come è noto, anche dal punto di vista puramente cronologico, giacché mai o quasi mai Gadda pubblicò i suoi libri via via che li veniva scrivendo, ma si indusse e si lasciò indurre a darli in pasto al pubblico a distanza notevole (a volte addirittura di decenni) dalla loro composizione e dalle loro prime, frammentarie comparse in riviste: come se (e forse è davvero così) essi fossero, per lui, dei segreti da celare o da confessare solo parzialmente, delle verità troppo profonde, radicate e terribili per essere offerte senza infingimenti agli occhi dei lettori.
Allo stesso ordine di ragioni appartiene, del resto, un altro tratto comune alle opere maggiori di Gadda: l’incompiutezza. Sia La cognizione del dolore sia il Pasticciaccio sono, infatti, romanzi che non finiscono o, meglio, che trovano la loro fine emozionante e inevitabile nel fatto, appunto, di non finire; romanzi ad enigma (e nel caso del Pasticciaccio si può parlare addirittura di romanzo «giallo», con tanto di commissario di pubblica sicurezza, di inchiesta, di indiziati eccetera) nei quali l’enigma non viene risolto ma, per così dire, inglobato nello splendore e nell’angoscia della scrittura, e rinviato a un confronto incessante e speculare tra la coscienza dell’autore e la coscienza del lettore.
Di questa fitta, oscura, inquietante trama di interrogativi e di senso, Ferretti rende conto, mi sembra, con lodevole equilibrio e ragionevolezza. Non era facile fare delle «scoperte», critiche o psicologiche, sul conto di Gadda, dopo gli studi fondamentali di Gianfranco Contini e di Gian Carlo Roscioni e dopo gli illuminanti contributi di Pier Paolo Pasolini, di Pietro Citati, di Dante Isella ecc. E, in fondo, non era nemmeno questo - fare delle «scoperte» - lo scopo di Ferretti, quanto invece, suppongo, condensare e registrare il molto che si è pensato e detto in una sorta di racconto critico filato, ordinato e compatto: scopo che, se la mia supposizione è giusta, gli è egregiamente riuscito.
Vorrei citare, a riprova, alcune formule di pregevole semplicità ed evidenza nelle quali Ferretti ha saputo racchiudere un ricco e molteplice e stratificato sapere critico formatosi nel corso di decenni: come quando enumera i poli fra i quali si esercita l’implacata e implacabile tensione, il «conflitto di fondo» che attraversa e caratterizza la scrittura e la stessa vita di Gadda: ordine e furore, «registrazione di eventi» e ossessione nevrotico-esistenziale, sistema e caos, opera chiusa e incompiutezza, eccetera eccetera; o come quando, poco dopo, rivendica l’essenziale, importanza della «radice umana, etica» del cosiddetto sperimentalismo gaddiano.
E proprio su questa radice, su questa umanità «enormemente» tormentata, responsabile e dolente, getta una luce preziosa, e quasi insostenibile da quanto è netta e vibrante, un libro di cui già ho fatto cenno all’inizio e che costituirà (l’uscita è prevista per settembre) uno dei principali avvenimenti culturali della prossima stagione. Si tratta (se il titolo non verrà mutato) delle Lettere a Gianfranco Contini a cura del destinatario, in preparazione presso l'editore Garzanti alla cui cortesia devo l’aver potuto consultare il materiale dattiloscritto.
L’importanza e la forza di suggestione del volume, nel quale le lettere di Gadda sono per così dire avvolte da un ininterrotto, minuzioso e pudico commento, da una - com'egli stesso la chiama - «glossa perpetua» di Gianfranco Contini, mi sembrano incomparabili con quelli, pur notevoli, dei non pochi epistolari gaddiani apparsi negli ultimi anni. Qui, infatti, Gadda parla e si rivela a un interlocutore davvero unico: un amico carissimo (l’amicizia fra i due risale, ci informa Contini, al maggio del 1934, e durò ininterrotta sino alla morte o, almeno, sino al patetico spegnersi dell’intelletto e della memoria dello scrittore) che è anche, nello stesso tempo, il primo e il più autorevole dei suoi interpreti.
Verrebbe voglia di citare, e molto; ma non voglio tradire la fiducia di chi mi ha consentito di conoscere con tanto anticipo il contenuto del futuro volume. Ciò che soprattutto impressiona e commuove, in esso, al di là delle molte notizie o conferme che ci fornisce, è l’immagine umana che ne emerge: un’immagine fatta di dignità nella sventura, di ironia nell'infelicità, di lucidità nella paranoia, di umiltà (vera) nella coscienza del proprio ruolo, della propria grandezza...
Come per miracolo - ma è, semplicemente, il miracolo della verità, la verità di quella «radice umana, etica» di cui parla Ferretti - nulla, in Gadda, ci appare ridicolo e gretto: nemmeno le preoccupazioni oggettivamente più ridicole, le difese e cautele oggettivamente più meschine.
Citerò un unico esempio, supremamente comico e straziante. Quando, nell’aprile del '63, legge in dattiloscritto il saggio che Contini ha scritto come prefazione alla prima uscita in volume (presso Einaudi) della Cognizione del dolore, Gadda è preso da un indicibile terrore. Contini inizia il discorso rapportando la situazione psicologica riflessa dal romanzo alla famosa scena nella quale il protagonista della Recherche proustiana scopre il lesbismo di Mademoiselle Vinteuil e i legami di dolorosa, necessità che legano il suo erotismo all’oltraggio simbolico della memoria dei padre.
È quanto basta per scatenare in Gadda la paura, «enorme» e irrefrenabile, di essere identificato con Mademoiselle Vinteuil, di apparire ai suoi «familiari» come un omosessuale, un odiatore del padre, un mostro edipico, un potenziale assassino... Ed eccolo, come egli stesso pateticamente e grandiosamente scrive, rivolgersi all’amico «in extremis, e nell’acme della sua angoscia e infermità», per supplicarlo (dopo averne compuntamente elogiato, si capisce, il «magistrale saggio», il «magnifico testo») di togliere, di attenuare, di sfumare quel riferimento, che «si raccomanda per verità critica, ma non è meno esplosivo e tragico per i cuori delle vittime tuttora viventi».
Povero Gadda. Quanta sofferenza, quanta vergogna, quanta fatica di vivere... Eppure, non è mai soltanto la pena a toccarci quando chi soffre soffre in quel modo, e ne parla con quegli accenti. E l’esclamazione più giusta, allora, che per lui ci sale dal cuore, è di pietà ma anche di ammirazione, inscindibili l’una dall’altra persino davanti allo sfacelo (negli ultimi, tristissimi anni) della sua mente: povero, grande Gadda.

EUROPEO/11 APRILE 1987

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