1.11.17

Vittorini tra il mito e la ragione moderna (Gian Carlo Ferretti)


La morte di Vittorini ha indotto la critica a bruciare le tappe: nel giro dei nove anni intercorsi tra il febbraio 1966 e oggi, si è registrato circa un terzo della intera bibliografia critica vittoriniana (aperta nel lontano 1927), con saggi critici, analisi filologiche e testimonianze, raccolti anche in numeri monografici di rivista (ultimo, quello del Ponte 1973, organizzato da Guarnieri). Senza contare, poi, le ristampe e nuove edizioni e pubblicazioni postume, che rispecchiano fra l’altro un crescente interesse soprattutto da parte dei lettori giovani (dentro e fuori delle istituzioni universitarie).
Eppure, ancora fino a pochi mesi fa, si poteva lamentare la mancanza di una soddisfacente edizione delle opere e di una ordinata cronologia delle carte, edite e inedite. Le edizioni postume, in particolare, avevano seguito un andamento piuttosto casuale, segnando anche squilibri vistosi, se si confrontano (come estremi emblematici) la raffinata filologia che presiede alle Due tensioni (1967), e l’inerzia e piattezza editoriale che caratterizza la seconda edizione del Diario in pubblico (1970): una mera ristampa del testo precedente, senza nessun apparato critico o filologico, senza nessun indice dei nomi, e senza neppure l’indice ragionato di Vittorini alla prima edizione del 1957 (unica novità, l’«Appendice», comprendente le aggiunte all’edizione francese del 1961 e gli scritti e interventi del 1961-65).
Grande merito va perciò ai due volumi delle Opere narrative vittoriniane, nei Meridiani di Mondadori (1974, Pagg. 1248, 1011, L. 8.000 ciascuno): la collezione diretta da Giansiro Ferrata, che di Vittorini fu sempre affezionato amico e attento lettore, dal primo scritto su “Solaria” (1930) alle introduzioni per due recenti Oscar (Il garofano rosso e Uomini e no, 1973). L’edizione dei Meridiani (a cura e con prefazione di Maria Corti, e con apparati cronologici, filologici e bibliografici di Raffaella Rodondi, ordinatrice del Fondo vittoriniano) rappresenta il risultato di un accuratissimo lavoro, che fra l’altro ricostruisce intorno a ogni testo, riprodotto nella sua redazione finale, una fitta rete di informazioni sulle varie redazioni e varianti, quali risultano dal materiale manoscritto o a stampa, e sulle relative motivazioni dello scrittore; per non dire poi della presenza dei testi inediti e rari (Giochi di ragazzi e Il barbiere di Carlo Marx, ad esempio).
Ma l’edizione mondadoriana (dalla prefazione della Corti fino alla bibliografia raccolta dalla Rodondi), insieme ad alcuni saggi recenti, e insieme a una rassegna di Franco Fortini (circolante ancora in estratto, e destinata al prossimo volume III dei Classici italiani nella storia della critica, curati da Walter Binni per La Nuova Italia), offrono anche l’occasione per un ripensamento complessivo della «fortuna» critica di Vittorini, dagli anni trenta a oggi (e non soltanto, naturalmente, del Vittorini narratore, ma anche dell’intellettuale e saggista e organizzatore e produttore di cultura nel senso più vasto), e per alcune indicazioni di prospettiva.
A grandi linee, dunque (e senza la minima pretesa, certo, di dare il panorama completo delle varie posizioni), si possono distinguere tre fasi fondamentali nello sviluppo della critica vittoriniana: fasi più problematiche che cronologiche, come si vedrà.
La prima venne aperta sostanzialmente dai giudizi di Solmi (1932) su Piccola borghesia, e di Pancrazi (1941) su Conversazione in Sicilia, che indicavano rispettivamente nel «lirismo fantastico e tenero» e nel «realismo lirico», due momenti fondamentali del procedimento narrativo vittoriniano (e sarà anche da ricordare il richiamo di Solmi alle ascendenze di Proust e Joyce). Ma ci fu chi, come Pintor (1941 e 1943), guardando al lavoro complessivo di Vittorini allora (da Conversazione ad Americana) seppe cogliere anche la carica di attiva rottura e di alternativa ideale, che i motivi del «mondo offeso» e dei «nuovi doveri», la denuncia del «trabocchetto dei ’’valori spirituali”» e la costruzione del «mito americano», portavano nel contesto della cultura e letteratura del periodo fascista. E questa carica sarà sottolineata, in modo diverso, da successive testimonianze di scrittori « più o meno coevi »: Sereni (1966), fra gli altri.
A questa prima fase di giudizi, che sottolineano in diverso modo l’originalità della personalità vittoriniana e che fissano alcune formule «classiche» della critica futura, ne segue una seconda, nella quale limitazioni e durezze polemiche sono all’inizio assai diffuse. Si registra anzitutto quella che Fortini definisce oggi la «vendetta» della «letteratura del ventennio» contro il transfuga, uscito vittoriosamente dal noviziato « rondesco » e « solariano ». Emilio Cecchi (1949), in nome dei diritti traditi della «poesia», criticava severamente lo sperimentalismo e avanguardismo «disordinato» e «artificioso» e «impuro» di Vittorini (che aveva pubblicato, oltre a Conversazione in Sicilia, Uomini e no e Le donne di Messina). Nello stesso periodo, al contrario, Fortini sottolineava positivamente, nel Garofano rosso, proprio la capacità di «rischio», da parte di Vittorini, fuori dall’alveo sicuro della sua formazione letteraria originaria (ma del Fortini 1973 si veda anche il recupero critico del saggio dedicato da Noventa a Uomini e no, nel 1946: in Saggi italiani, De Donato, 1974).
Più complessa l’opposizione che verso Vittorini e “Il Politecnico” verrà maturando dall’immediato dopoguerra, in campo marxista (e comunista, in particolare), nel quadro del dibattito sui rapporti tra politica e cultura, partito e intellettuali, rivoluzione e letteratura, eccetera. L’accusa di «intellettualismo» e «astrattezza» e distacco dai «problemi concreti delle grandi masse popolari», mossa da Alicata (1946), e le critiche della Lettera di Togliatti (1946) all’errata «distinzione» tra politica e cultura, alla «ricerca astratta del nuovo, del diverso, del sorprendente» e alla «generica irrequietezza», troveranno ulteriori sviluppi nella critica dedicata all’opera narrativa e saggistica vittoriniana, e alla collana dei Gettoni. «Decadentismo» sopravvivente, «astrazione» nei confronti della «storia», «incanto letterario» autosufficiente, «moralismo» e «umanitarismo» e «libertarismo» di estrazione «piccolo-borghese», «disponibilità» sperimentale e avanguardistica, saranno alcuni dei motivi ricorrenti in critici per altri aspetti diversamente orientati: da Gallo (1950, 1953) a Salinari (1958). Consonante, invece, con l’istanza di una presa di coscienza della crisi borghese e con l’idea di una responsabilità autonomamente politica della cultura, in Vittorini e nel “Politecnico”, sarà Rago (1967), sempre molto vicino al lavoro vittoriniano.
Ma in generale, alla ricca bibliografia sul “Politecnico” (di cui si sono registrate qui solo alcune voci tra le più significative), corrisponde un’attenzione molto più scarsa verso le altre attività del Vittorini organizzatore di cultura. Tanto più indicative di una istanza extraletteraria non estrinseca, sono perciò i due saggi dedicati da “Officina” ai Gettoni (Leonetti e Roversi, 1955) e al problema dell’«impegno» vittoriniano, da Americana al “Politecnico” a Diario in pubblico (Scalia, 1958): con un notevole sforzo, in entrambi i casi, di individuazione del contraddittorio intreccio di momenti attivi e passivi nell’intellettuale Vittorini.
Anche per quanto riguarda le altre riviste a cui Vittorini collaborò o che egli diresse, si registrano vuoti e pieni, solo in parte spiegabili con ragioni storiche: molto più indagato, naturalmente, ii momento solariano (a cominciare dal fortunato studio di Luti, Cronache letterarie tra le due guerre 1920-1940, 1966; seconda edizione, 1972), rispetto al momento del “Menabò”, che ha risentito probabilmente della «caduta» della nuova avanguardia e che attende ancora una valutazione storico-critica complessiva. Tra gli interventi più o meno contemporanei, che si riferiscono al discorso «scientifico» e «industriale» di Vittorini, va comunque ricordato quello di Calvino (1967), che porta l’attenzione — più in generale — sulla sua nozione di «progetto» e sulla sua tensione di «fondatore» di cultura e di «riformatore letterario», dal “Politecnico” all’«opera-manifesto» Conversazione, dai Gettoni a Diario in pubblico al “Menabò” appunto.
A questa critica, ben attenta — sia pure talora da opposti punti di vista — al Vittorini saggista e ideologo e organizzatore di cultura, o comunque alle istanze ideologiche e politiche del Vittorini scrittore, si vien contrapponendo negli anni cinquanta e sessanta una critica più o meno esplicitamente intesa a privilegiare il narratore e il prosatore, svalutando (o emarginando o riassorbendo in esso) tutto il resto. È — questo secondo, appunto — un discorso che va da Pampa-Ioni (1949, 1950 e 1969) a Debenedetti (1967) alla Bianconi Bernardi (1967) alla Corti (1974) ad altri studi (tra i quali anche la prima monografia vittoriniana, di Pautasso, 1967), e che conta — pur con il limite detto — contributi importanti.
Ne deriva tra l’altro complessivamente (sia pur con varianti individuali) l’indicazione di una linea maggiore dell’opera vittoriniana, comprendente Conversazione, Il Sempione, La garibaldina, le prime cento pagine delle Città del mondo, e di una linea decisamente minore, emblematizzata in Uomini e no e nelle Donne di Messina. Si preferiscono cioè le opere o le parti in cui si realizzerebbe pienamente la tensione lirico-mitica di pochi temi essenziali, l’eleganza formale, l’istintiva unità di poesia e prosa, moralità e lirismo, realta e simbolo, a quelle che sarebbero irrimediabilmente compromesse dalla compresenza irrisolta di piani diversi, dall’«oltranza volontaristica, sperimentale», dall’«eccesso di intenzionalità ideologica », eccetera.
I due recenti volumi mondadoriani rientrano sostanzialmente in questa tendenza, a cominciare dalla stessa scelta esclusiva delle «opere narrative». Ma essi vi portano anche un contributo per molti versi originale. La Corti rinnova in più punti — al suo interno — la suddetta impostazione delle linee maggiore e minore della narrativa vittoriniana, con una larga messe di notazioni particolari, e con una modifica sostanziale: il ridotto rilievo di Conversazione in Sicilia e l’emergenza delle Città del mondo («il suo più bel romanzo», una «struttura composita» unificata nel segno dell’«utopia»).
Uno dei punti qualificanti della sua metodologia è certamente nella ricerca di sottili relazioni tra le «sollecitazioni di un contesto socio-politico» e le motivazioni alla «strutturazione» di un testo, e in particolare tra crisi biografiche e crisi stilistiche. In questo senso la Corti riesamina con intelligenza e rigore: il periodo forse meno noto di Vittorini, relativo agli scritti degli anni 1926-29; i periodi che segnano il passaggio dal Garofano a Conversazione, e dalla Garibaldina alle Città del mondo; e infine quello della crisi ideologico-politica successiva al 1956. C’è altresì, in generale, un rapporto stretto tra la prefazione della stessa Corti e l’impostazione del lavoro in ogni sua parte. Largamente funzionali all’attenzione che la Corti presta a questi periodi, sono per esempio le note ai testi della Rodondi, e — per quanto riguarda l’ultimo periodo, in particolare — il suo sforzo, nella cronologia biografica, inteso a «riempire» gli anni del cosiddetto «silenzio» vittoriniano: anche se ne risulta alla fine una certa sproporzione tra le diffuse notizie sulle prese di posizione «social-liberali» e «revisioniste» vittoriniane negli anni cinquanta, e i più scarni dati sulle sue precedenti fasi, da quella giovanile (con qualche pudore, fra l’altro, per la sua esperienza di «fascista di sinistra», che non appare giustificato, essendo questo — ben al di là della biografia — un problema di oggettivo rilievo storico-critico), dalla fase giovanile dunque a quella antifascista e comunista.
La Corti, in sostanza, compie un lavoro assai interessante per riallacciare lo sviluppo stilistico di Vittorini al suo iter biografico; ma non arriva a rompere (né se lo propone, del resto) l’impostazione letteraria che si diceva. Viene praticamente ignorato, infatti, l’organizzatore di cultura, e non viene dato rilievo alle prose saggistiche, critiche, polemiche; nei casi in cui si considera il Vittorini altro («politica e cultura», Le due tensioni, eccetera), lo si fa essenzialmente per funzionalizzarlo alle sue scelte di poetica e di stile. In questo quadro si spiega anche la «riduzione» di Conversazione in Sicilia: una volta considerata l’«interruzione» che prelude alla sua «nascita» come un fatto endogeno al lavoro letterario di Vittorini («anche se riceve il proprio statuto cronologico dalla realtà esterna»: la guerra di Spagna), e una volta ricondotte le istanze vittoriniane a una pura «ricerca di svolta stilistica», Conversazione si trova ad essere oggettivamente privata di tutto il suo complesso e ricco intreccio di motivi extraletterari, intimamente presenti nello specifico della sua pagina, e può quindi cedere più facilmente il passo alle Città del mondo. Dove si verifica appunto il limite letterario di partenza di cui si diceva, nonostante contributi particolari spesso illuminanti.
Ma già negli anni sessanta, i sostenitori (istituzionali o meno) di una ricerca neosperimentale e neoavanguardistica avevano praticamente rovesciato l’impostazione suddetta (inaugurando così la terza e ultima fase della critica vittoriniana). Ecco allora una diversa lettura di Conversazione in Sicilia, ecco il vivo interesse per Uomini e no e per Le donne di Messina, nel segno di «a book in progress» (come scriveva Vittorini stesso fin dal 1949 a un amico americano, riferendosi al secondo), ecco la consonanza con la problematica « sperimentale » e « industriale » del Menabò e delle Due tensioni (che avevano caratterizzato, del resto, il momento del maggior interesse vittoriniano per la nuova avanguardia).
Si potranno ricordare qui, tra i molti scritti, l’introduzione di Sanguineti a Conversazione (1966), definito «l’unico testo esemplare che la generazione dei padri ha lasciato, come opera aperta, alla nostra generazione letteraria»; e, di Guido Guglielmi, le analisi della «novità ideologica e stilistica» delle Donne di Messina (1965), e l’inquadramento di Uomini e no nella ricerca vittoriniana di un diverso « rapporto con il quotidiano », attraverso la trasformazione dell’«occasione in simbolo», attraverso la scomposizione dell’«aneddoto» per «cavarne una figura allegorica», «per cui anche Uomini e no è, almeno in parte, un libro non occasionale sulla Resistenza » (1967).

Ma anche cosi tutto il discorso rimane o viene ricondotto pur sempre dentro l’opera letteraria di Vittorini, in modo più o meno esclusivo. L’attenzione verrà portata nuovamente sul curriculum intellettuale e ideologico-politico vittoriniano, come capitolo della vicenda dei gruppi intellettuali italiani negli anni trenta, da una serie di studi della cosiddetta « nuova sinistra », aperti da Asor Rosa con il suo famoso libro Scrittori e popolo (1965), e con la sua tesi — in particolare — di una sostanziale continuità dal Vittorini «fascista di sinistra» al Vittorini antifascista, nel solco del «populismo».
Su questa linea si è mossa tra gli altri, con puntiglio filologico e originalità critica, Anna Panicali, che (nel corso di una serie di studi usciti dal 1968 al 1974, e ristrutturati ora in un volume organico: Il primo Vittorini, Celuc, 1974) ha esteso il discorso a tutte le implicazioni ideologiche e linguistiche e stilistiche del primo e primissimo Vittorini (dal 1926 alla «vigilia» di Conversazione), in una stretta e concomitante analisi dei suoi scritti politici e critici e letterari.
Per completare il quadro fin qui descritto, bisognerà ricordare come, a scadenze regolari, non siano mancate maldestre e interessate liquidazioni della certamente scomoda personalità vittoriniana, da parte dei fogli reazionari più o meno sordi e «silenziosi»: ora con argomentazioni pretestuosamente letterarie, ora con attacchi piu brutali e scoperti. Non poteva mancare, all’appuntamento dell’edizione mondadoriana, un’operazione supponente e proterva come quella del Settimanale di Rusconi, nella quale si sono fatti coinvolgere purtroppo anche affermati vittorinisti.
Quali conclusioni trarre, da questa sommaria ricostruzione della « fortuna » vittoriniana? Nella sua rassegna già citata Fortini — riferendosi alle due tendenze critiche, quella ideologica e quella letteraria, facenti capo oggi rispettivamente alla Panicali e alla Corti — scrive: « Tanto fra i primi quanto fra i secondi si avverte (...) una sorta di iniziale diffidenza o antipatia per il loro oggetto: nei primi echeggiano i severi giudizi ideologici e politici che la figura complessiva dello scrittore siciliano ebbe a provocare in vita, da parte marxista come da parte conservatrice. Nei secondi, si favorisce una sua riduzione alla vivacità febbrile del barocco, ad un manierismo elegantissimo, alla vaga categoria dell’utopico ».
Ora, Fortini qui coglie assai bene, prima ancora che un atteggiamento delle due tendenze indicate, un certo tono circolante in molta critica (e contraddetto solo apparentemente dal dominante « mito » di Vittorini): quasi un intimo sconcerto e sottile disagio ancor oggi, di fronte a una personalità così articolata e complessa e inafferrabile (la Corti parla di «moto anguillare»), tanto da dover procedere, spesso, attraverso parzializzazioni ideologiche o letterarie. Ma nell’insieme delle sue conclusioni Fortini, restando un po’ troppo fedele ai limiti istituzionali della «rassegna», non va oltre la denuncia di una insufficienza critica (stabilendo fra l’altro una troppo sommaria continuità tra Emilio Cecchi, la critica marxista degli anni cinquanta e la « nuova sinistra », sulla base di una istanza antisperimentale e antidecadente, che rappresenta un’« analogia » meramente letteraria, e che al suo fondo si presenta in realtà con segni volta a volta diversi se non opposti), e traccia un programma sostanzialmente tecnico di futuri « compiti » per la critica: « lavorare con meno esclusivi strumenti »; « chiarire zone ancora imprecisate della formazione intellettuale e letteraria dello scrittore siciliano, della sua figura di organizzatore culturale, di traduttore e di teorico della letteratura »; «estendere l’indagine a livello linguistico », anche in rapporto alla raffigurazione della «psicologia letteraria dello scrittore» e dei «suoi miti personali»; approfondire «la complessa tradizione letteraria assunta da Vittorini»; eccetera (cui si potrebbe aggiungere la necessità di edizioni complete e rigorose per molta produzione extranarrativa di Vittorini, a cominciare dall’epistolario, praticamente inesistente).
Certo, sono queste lacune o carenze (giustamente sottolineate da Fortini), che richiedono ulteriori indagini e riflessioni. Ma l’illuminazione delle varie attività e implicazioni e opere particolari, rimanda pur sempre a (e va vista in funzione di) un problema fondamentale; quello di una ricostruzione critica di ciò che lega tutti questi aspetti fra loro, di ciò che fa del Vittorini dei romanzi e delle traduzioni, dei saggi e delle antologie, delle interviste e delle lettere e delle note autobiografiche (autocritiche), delle collane italiane e straniere e delle riviste, insomma del Vittorini scrittore e teorico della letteratura e ideologo e organizzatore di cultura e militante politico e operatore all’interno dell’industria culturale, una stessa figura di intellettuale tra i più originali e provocanti e vivi del Novecento italiano. Un problema, questo, che è stato sentito da molti: Calvino suggerisce sull’intero curriculum vittoriniano ipotesi molto interessanti, nel saggio citato; Briosi si propone consapevolmente un’analisi unitaria, nella sua monografia (1970); e la stessa Corti parla di «simbiosi» tra «il Vittorini narratore e l’altro». Ma alla fine, nonostante preziosi risultati particolari, il nodo resta da sciogliere.
Nodo non facile, Vittorini fu una singolare e complessa figura di letterato antiletterato. Egli visse infatti con estrema acutezza tutte le contraddizioni da cui l’istituto dell’intellettuale tradizionale (di derivazione romantico-novecentesca) era profondamente attraversato: autonomia e «impegno», letteratura e altro (politica o scienza), pratica sociale e riflessione teorica, «creazione» individuale e lavoro di équipe, opposizione politica e contestazione letteraria, mediazione del consenso e professionalità tecnica, critica al sistema e moderna funzione all’interno di esso (l’industria culturale, in particolare); e ancora, più specificamente, «fascismo di sinistra» e antifascismo, populismo e letteratura di crisi, vitalismo ed empirismo, lirismo e realismo, cultura borghese e marxismo, storia e mito, eccetera. In queste contraddizioni Vittorini portò — pur tra difficoltà e confusioni, involuzioni e cadute — una infaticabile insoddisfazione autocritica, un incessante sforzo di verifica impietosa, una folgorante capacità di perturbazione della «quiete» letteraria e dell’«ordine» culturale, una coraggiosa spinta alla ricerca e all’esperienza del nuovo su tutti i terreni della produzione intellettuale (e forse è da cercare proprio qui, in questo suo misurarsi senza remore con tutti i nodi fondamentali contemporanei, in questo suo spericolato avanzare su terreni ignoti, la ragione del diffuso interesse, soprattutto giovanile, recente).
La sua opera di narratore e di saggista, perciò, e il suo lavoro di organizzatore e «fondatore» di cultura, furono altrettanti modi concreti di vivere quelle contraddizioni e altrettanti tentativi — condotti al più alto livello — di superarle, e quindi anche superare i limiti oggettivi di ciascuna di quelle esperienze, proprio praticandole tutte: esperienze riconducibili poi — emblematicamente — alla letteratura e al fare, come attività che in lui rimandavano costantemente l’una all’altra, in una reciproca, mai conclusa, ansia di integrazione dei rispettivi limiti appunto.
Vittorini dunque (come pochi altri, davvero) sottopose l’istituto dell’intellettuale tradizionale a tensioni fortissime, aprendovi crisi feconde. Chiarire fino a che punto egli sia riuscito a spezzarlo (che vuol dire poi chiarire fino a che punto egli abbia superato quelle contraddizioni e quei limiti), può diventare allora il vero nodo da sciogliere.


“Rinascita”, 7 febbraio 1975

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