15.11.17

Professione prostituta (Lucio Villari)

Nel dicembre 1971 il movimento femminista americano organizzò, a New York, un congresso sulla prostituzione. Fu un disastro. «Il risultato», scrisse poco dopo una delle organizzatrici, Kate Millet, «rivelò la mia utopistica ingenuità». Durante la seconda giornata dei lavori, quando la commissione di esperte («che includeva tutte, tranne le prostitute») affrontò l'ordine del giorno sulla «eliminazione della prostituzione», esplose il caos. Le prostitute presenti rifiutarono le non-prostitute che si occupavano, da «donne oneste», di una cosa che non le riguardava direttamente; e negarono ad esse ogni diritto di auspicare la loro «eliminazione» quasi che si trattasse di individui schiavizzati dalla società e «diversi». Come ricorda Rate Millet, le femministe cercarono di spiegare che il loro progetto esprimeva una vera solidarietà tra donne; poi, per rendersi più credibili, cominciarono ad esagerare dicendo «...che anche noi siamo prostitute, che tutte le donne sono prostitute, che il matrimonio è prostituzione, eccetera». Il culmine delle gaffes fu raggiunto quando una femminista si rivolse a una «professionista» apostrofandola: «...tu ti vendi, potrei anch’io ma non voglio». Si venne alle mani.
L’episodio è un sintomo della arbitrarietà di quella sociologia «attualizzante» sul problema della prostituzione che, come tale, appare invece un tema da analizzare anzitutto storicamente. Insomma, più questo argomento è ruvido e, per così dire, interdisciplinare, e più va «disciplinato» e trattato con cura.
In una recente, puntuale rassegna di Renzo Villa (La prostituzione come problema storiografico, Studi Storici, n. 2,1981) sono indicate le numerose ricerche, compiute soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra (tra cui una ricchissima Bibliography of prostitution, pubblicata nel 1977), che dimostrano come la prostituzione non sia più un oggetto marginale e «ignobile» dell’indagine storica. La tendenza è che la prostituzione non venga usata come lente di ingrandimento di deviazioni morali e di costume, né interpretata in modo esclusivo come un fenomeno della emarginazione e del pauperismo. Allargati dunque i margini di lettura storica del fenomeno (come non parlare anche della tradizione del libertinismo, delle rappresentazioni letterarie della prostituzione e dei decisivi cambiamenti avvenuti nei rapporti interpersonali e sociali tra uomo e donna?), il tema non è più soltanto l’eco stonata di un comportamento sessuale modulato su armonie morali, ma un connotato essenziale della mutazione storica di questo comportamento.
Come avviene per altri importanti (e non amati) modelli di costume, la prostituzione, e la sua organizzazione legale (i bordelli) o clandestina, entrano in una norma sociale; anche se la società esprime un esasperato stato di allarme a tutti i livelli, dal politico al sanitario. Ora, l'analisi di questa «norma sociale» che ingloba, rifiutandola, l'anomalia della prostituzione e dei bordelli, richiede una non superficiale attitudine storica. È a questo punto, infatti, che anche le campagne moralizzatrici e lo stato di allarme diventano fonti di documentazione sui rapporti di produzione sociale e sulla resistenza conservatrice alla mutazione dei comportamenti. Per cui la prostituzione è nello stesso tempo considerata necessaria, protetta e negata. Questa contraddizione, che è poi la dialettica «culturale» della prostituzione, non a caso si perfeziona nell’Ottocento borghese, il secolo vittoriano.
Nella prospettiva storica, la prostituzione ha dunque per noi un senso solo a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Nel saggio di Villa si parla, appunto, di «una quasi incredibile proliferazione di inchieste» sull'argomento, avviate in tutto il mondo, e soprattutto in Europa, tra il 1880 e il 1900. C’è però da osservare che questi sono gli anni in cui l’ordine borghese, ormai stabilizzato, assimila la prostituzione in uno scenario estetico (anche i bordelli fanno parte dell’eleganza floreale della belle époque) ed estetizzante, e insieme la fa filtrare dalla cultura del positivismo che la incasella, senza mezzi termini, in una macchina sanitaria e criminale sostanzialmente ideologica. Piacere e paura si allacciano ed è forse per questo che il tema della prostituzione è, in quegli anni, tenuto meglio tra le mani nervose e febbricitanti di scrittori e pittori decadenti che non tra quelle dei veristi e naturalisti.
C’era, ovviamente anche della menzogna nella criminalizzazione positivista della prostituta (soprattutto di quella clandestina), poiché se così non fosse sarebbero sufficienti allo storico i rapporti di polizia custoditi negli archivi per ricostruire il quadro di questo fenomeno sociale e culturale. Basta invece leggere le memorie di Polly Adler (A House is not a Home, 1955), la famosa maitresse americana degli anni ruggenti, per sapere che la polizia e la prostituzione (e quindi anche la storia della prostituzione) sono continenti che si sfiorano solamente. C’è infatti più storia sociale in queste memorie, e in testimonianze analoghe non scritte o perdute, che nelle inchieste giudiziarie e nell’«aria fetida», per dirla con Kate Millet, «delle statistiche sociologiche».
Resta, allora, intatto il contributo della pagina letteraria, cioè l’attenzione dei narratori che hanno avvertito, dialetticamente, la presenza della prostituta nella società e rilevato la sua diversità più come «opposizione» nei confronti del cinismo e dei sotterfugi della donna borghese che come «distinzione» etica da questa. Il discorso è chiarissimo in Maupassant, nel racconto Maison Tellier scritto cento anni or sono. Tutto, in questo racconto, dalla casa alla figura di Madame Tellier all'atteggiarsi delle ragazze e dei clienti, è restituito a una dimensione normale, familiare.
La semplificazione che Maupassant fa di un mestiere difficile e drammatico, la scelta di questo tema in un anno, il 1881, che vede esplodere la sociologia positiva e la criminalizzazione della prostituzione, fanno pensare all’argine insormontabile che la sua scrittura oppone al senso comune. E niente più della prostituzione crea e produce facile e obliquo buon senso. Ma Maupassant, vivendo e contemplando in se stesso i significati liberatori del sesso, ha in Maison Tellier — come, del resto, in tanti altri racconti — ristretto il problema nella dimensione artistica e morale di un frammento di esistenza. La nota simpatia di Maupassant per il mondo delle prostitute e delle case chiuse è qui talmente esplicita che Maison Tellier si libra come una candida metafora dell’innocenza del sesso.
Gran parte del racconto è dedicato alla festa, cui Madame e le ragazze partecipano, di una prima comunione in campagna. Ma la stessa «Maison» è una trascinante festa mobile che porta gioia e divertimento quando è aperta, tristezza e sgomento quando è chiusa. In più, Maupassant riveste l’immagine della prostituta di un’aura contadina e pagana che è estranea alla gradazione di valori imposti e riconosciuti dalla società («Il pregiudizio del disonore connesso alla prostituzione, tanto violento e vivo nelle città, non esiste nella campagna normanna»). Perciò Madame Tellier «aveva accettato quella professione proprio come sarebbe diventata modista o cucitrice di bianco».
La sua eccezionale osservazione «interiore» del mondo della prostituzione è infatti il primo passo di una concezione assolutamente diversa della realtà, senza canali e fini; una realtà dove l’universo femminile è scrutato e compreso con malinconica allegria e vitalismo intelligente.


“la Repubblica”, 27 ottobre 1981

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