10.11.17

Ricordo di Sandro Penna (Marco Gaetani)

1. «Il 21 gennaio 1977 morì a Roma Sandro Penna». Dopo quarant’anni esatti, la sua figura e la sua opera restano l’unico vero hàpax della poesia italiana contemporanea. Un poeta, Penna, radicalmente diverso da tutti gli altri del nostro Novecento, e ciò a prescindere dalla vita ‘irregolare’ e dalle considerazioni critiche che, prendendo atto di un’evidenza, ne escludono il profilo dall’orizzonte in senso stretto modernista. Perché non è poi agevole far rientrare Penna neppure nella linea poetica alternativa – quella che, almeno in certi non proprio aggiornatissimi manuali scolastici, si è soliti intitolare al primo mentore del poeta perugino, Umberto Saba.
La poesia di Penna resta un unicum irriducibile alle scuole, alle correnti, alle tendenze. Non a caso quando – all’altezza degli anni ’30 – i suoi versi cominciarono a circolare in rivista e a essere conosciuti, la ristretta società letteraria di allora mentre non tardò a riconoscerne, da una parte, l’eccezionale valore, dall’altra volentieri evocò, per spiegarseli, esperienze dal punto di vista storico e culturale tanto remote da potersi considerare esterne, in realtà, alle coordinate spazio-temporali. Paradigmaticamente – e anche per l’esclusività della tematica omoerotica, e segnatamente pederastica – alla lirica greca antica. Ma un simile richiamo più che avere una valenza realmente cogente in senso descrittivo, o addirittura storico-critico, serviva (ed eventualmente ancora serve) a indicare in modo più o meno consapevole un mito, un luogo immaginario della coscienza letteraria occidentale; prestandosi a segnalare quel senso di assolutezza, di quintessenziale epifania del Poetico, che i brevi componimenti di Penna non mancano mai di suscitare nel lettore.
A distanza di così tanti decenni da quella prima rivelazione, quando ormai il lavoro critico su Penna ha condotto a liberarsi da molti dei cliché cresciuti attorno alla sua poesia – primo tra tutti, a dire il vero quasi immediatamente, proprio quello che fa del nostro autore una specie di epigrammista greco redivivo – rimane la meraviglia di fronte a una poesia tanto compiuta, tanto in senso etimologico ‘perfetta’ e appunto ab-soluta, da provocare nello stesso interprete di professione una specie d’interdetta afasia.
Va osservato intanto che quando, per la poesia di Penna, si parla di ‘assolutezza’ non ci si riferisce tanto a una qualità della rappresentazione; che infatti non mostra quasi mai – eccetto forse che in talune nitide figurazioni da pittura metafisica – l’estenuata, sospesa astrazione propria (per riferirsi a un genere di poesia per breve tratto coevo a quella penniana) di certo Ermetismo. Non è mancato anzi chi (si pensi, tra i primi, a un altro tra i non pochi estimatori eccellenti dell’autore perugino, Pasolini) ha rimarcato, a ragione, il ‘realismo’ di Penna: una fedeltà al reale quotidiano che si estrinseca tanto nella scelta dei referenti quanto – al netto dell’eufemismo, che nei suoi versi è molto più che una maniera del pudore – in quella dei relativi indicatori linguistici, e particolarmente lessicali (per esempio, gli scandalosi orinatoi). Anche se effettivamente la poesia di Penna, forse soprattutto nel suo periodo maturo ed estremo, pone il lettore odierno dinnanzi a un mondo, a un’intera nazione (intesa come sintesi di paesaggio fisico e culturale, geografico e morale) ormai da tempo scomparsa, facendogli conoscere al vivo e dall’interno un paese estinto, questa rappresentazione pur tanto storicamente e antropologicamente pregnante rimane sempre ben ancorata al di qua, o al di là, del reale fattuale.
Sospesa in bilico tra fisico e metafisico, la poesia di Penna del reale storico entro cui vive l’individuale esperienza che la nutre è al contempo trascendimento senza sublimazione e inveramento per paradosso. Essa introduce a un mondo più vero e meno vero del vero. È infatti, questo mondo onirico e insieme concreto, quello del desiderio e di un amore per la vita che non si può soffocare: un universo per definizione intrinseco alla realtà sensibile ma pure da essa enigmaticamente separato.

2. Nella poesia di Penna l’assolutezza è una qualità dell’ispirazione. Tutto, in tale poesia, è semplice, in piena luce. Il discorso critico incontra, confrontandovisi, qualcosa di molto simile alle sue colonne d’Ercole; fronteggia una superficie non intaccabile e specchiata, che gli rimanda l’immagine della propria impotenza.
Ha un bel riferirsi, lo studioso, alla sapienza costruttiva, al trattamento retorico, al palinsesto intertestuale – tutti aspetti che, negli stessi testi in apparenza più ‘innocenti’, sembrano smentire la leggenda originaria di un Penna poeta di natura; può ben rimarcare, sempre il critico (e fu in particolare Garboli ad attirare tra i primi l’attenzione sul lato in ombra di questo poeta solare quanto altri mai), la costitutiva ambivalenza di un desiderio («Non è forse l’amore un nodo stretto | fra l’angoscia e il diletto?») ossimoricamente contesto di felicità e di tristezza («era felice e triste, ecco tutto», si dice del protagonista di una tra le più significative prose di Un po’ di febbre). Si possono altresì sapientemente rintracciare le ascendenze culturali (certo côté nietzschiano, per esempio) di un autore pure così poco libresco. Ma poi, dopo tutto ciò (ed eventualmente molto altro ancora), restano i versi: oggetto di senso elementare, mai scalfiti da tanto elucubrare, indifferenti alle indagini più dotte, refrattari all’acume delle glosse.
Il lettore di professione, lo studioso bene avvezzo a dipanare le sottigliezze di una poesia – quella ‘maggiore’ novecentesca – tutta pieghe e allusioni, alla fine della sua fatica si ritrova continuamente di fronte a un disarmante «ecco tutto». Ricacciandolo al suo statuto di lettore ‘assoluto’, la poesia penniana parifica il critico a quello ‘comune’: ne mortifica la perizia filologico-ermeneutica, costringendolo semplicemente a constatare ed ammirare (si veda La lezione di estetica).
Con Penna, in effetti, non c’è di meglio che tornare continuamente a leggere i suoi versi. L’essenziale rimane lì: non se ne fa estrarre, non ve ne è la necessità. Per ri-dirlo, per riaffermarlo, per ritrovarlo – questo essenziale che è la poesia stessa – non si deve far altro che ri-leggere: quello che c’è da dire, da sapere, da sentire, è a vista, disponibile per tutti.
Un simile discorso, potrebbe obiettarsi, s’attaglia a qualunque autore nel rango dell’autentico poeta, inclusi dunque i campioni di certo nostro più ispido Novecento. Resta però il fatto che Penna realizza l’immanenza del senso (poetico) al suo significante con un’economia di mezzi che induce sovente a parlare di miracolo. Egli distilla una specie di essenza dell’idea lirica occidentale dalla feccia di una lingua che è pressappoco quella di tutti (valgono ancora, su ciò, le osservazioni di Garboli). Di fronte alla purezza di una voce individuale tanto diretta, di assoluta trasparenza, anche lo specialista più agguerrito deve disarmare. E dichiarare una resa densa di implicazioni pericolose per il mestiere, per i suoi dubbi privilegi; non senza «una tal quale vergogna» (Mengaldo) per un’ammissione ritenuta forse imbarazzante – come chi confessi di amare Puccini, oltre che Schönberg.

3. Per quanto una conoscenza più precisa della biografia di Sandro Penna, particolarmente in rapporto alla sua formazione culturale (si veda il volume di Elio Pecora), l’emergere di significative scritture giovanili, come pure una perlustrazione più attenta dell’officina penniana (esemplarmente per opera di Roberto Deidier, dal quale si attende pure, imminente, quel «Meridiano» che certo offrirà l’occasione di tornare a riflettere su questo poeta capitale del nostro Novecento), abbiano indotto a correggere sensibilmente certa mitologia sul nostro autore, si può dire che di lui resista sostanzialmente inalterata, e vitale, proprio l’immagine più consueta: quella, oggi più che mai preziosa, di un poeta che prese sul serio la propria vocazione, fondando coerentemente la poesia sulla vita, o se si vuole (ma è lo stesso) sull’organica relazione tra questa e quella, tra scrittura poetica ed esperienza. «Esperienza» nel senso più ampio; e prioritariamente, però, come fatto sensibile sempre accompagnato da un’acuta coscienza. Penna è poeta sapiente – più che sapienziale, come voleva Garboli – senza essere intellettualistico.
L’opzione cosciente a favore di Eros implica in lui l’abolizione del senso di colpa, e il collocarsi dell’esperienza individuale – come è stato correttamente osservato – in una dimensione a- o pre- morale; che però (circostanza non altrettanto spesso rilevata) risulta anche assiologicamente fondativa. Ecco allora, per noi, un poeta rimasto sempre giovane («Forse la giovinezza è solo questo | perenne amare i sensi e non pentirsi») e che viene spontaneo confrontare, se non proprio contrapporre, all’invece sempre-vecchio Montale (sul rapporto di attrazione / repulsione tra i due è molto istruttivo il relativo carteggio, con il corredo critico di Deidier; e, ancora di Garboli, il saggio su Penna, Montale e il desiderio).
Penna fu un uomo, un poeta, cui parve a un certo punto di aver trovato, e una volta per tutte, la formula della saggezza: il modo di tenere in scacco il male del secolo (suo e nostro) – il senso dell’assurdo. Sfuggendo così al nichilismo e alla disperazione di tanti suoi contemporanei (e posteri). Quella formula non prevedeva certo l’obliterazione del negativo, che anzi il poeta scorse sempre in sinolo con lo splendore delle sue feriali epifanie. Ma Penna seppe guardare, con speranza, alla forza affermativa di un’umanità ancora naturale, e confidare perciò nella recursività del futuro («Ma non saremo che noi stessi ancora»).
Non fu però, la sua, una forma di vitalismo irrazionalistico, la riedizione di regressivi o nefasti miti primonovecenteschi, para- o cripto- dannunziani. La primazia che egli volle accordare alla «vita» sull’«ortografia» e il suo indulgere, come un fanciullo irresponsabile, al piacere delibato «entro le colonne | della legge» definiscono l’unico vero «no» radicalmente proferito dai nostri letterati del XX secolo nei riguardi di una storia e di una civiltà avvertite come mortifere. Un diniego energico e senza compromessi, pronunciato da una posizione opposta e con un timbro completamente difforme rispetto al rifiuto scettico e ipo-vitale di stampo montaliano.
Un poeta «della vita tanto innamorato», Sandro Penna, da perseguire le proprie beatitudini contro ogni facile moralismo, scandalosamente persuaso che nei piaceri e nelle tenerezze dell’esistere, nelle «dolci immagini della vita», «non è disonore»: «non offendono mica». Chi ha scritto che «Vivere è per amare qualche cosa» non teme il giudizio dell’eterno conformismo, e trova l’audacia d’indirizzare ai Moralisti un distico dal senso come sempre inequivocabile, cristallino: «Il mondo che vi pare di catene | tutto è tessuto d’armonie profonde». È un poeta, costui, che intende sottrarsi all’eterno lutto della Modernità, affrancarsi dal funesto regime di Thanatos per riaffermare i diritti della «fitta | rete d’amore» che sostiene il reale; un poeta che osa – magari mentre, «felice straniero in ogni luogo», fa «conti per l’ingegnere» – guardare a un mondo di valori completamente altri rispetto a quelli, perversi, intensivamente dominanti in una storia ove proliferano «i divieti / alla felicità».
Ricordati di lui, dio dell’amore.


dal sito “Poliscritture.it”, 4 ottobre 2017

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