22.12.17

HAUTE COUTURE. Ora l’alta moda fa servizio on demand (Famiana Giacomotti)

Tre modelli ispirati alla città di Palermo da una sfilata palermitana di Dolce e Gabbana (Piazza Pretoria, Estata 2017)
«Nessuno resta invenduto, i miei due boss tornano a Milano a mani vuote. Di vestiti si intende», ammicca un’amica che da qualche tempo lavora ai vertici del reparto vendite di Dolce&Gabbana, facendosi promettere l’anonimato dietro solenne giuramento perché “i due boss”, come noto, sono fumantini, e nell’ambiente si rincorrono storie di teste saltate per molto meno. La conversazione di cui state leggendo si tiene a Roma, nel nuovo atelier di Antonio Grimaldi a Palazzo Besso, pochi giorni prima del lungo week end di luglio in cui Domenico Dolce e Stefano Gabbana metteranno in scena a Palermo la loro collezione autunno-inverno 2017-2018 di “Alta Artigianalità” secondo un modello turistico-mondano del tutto autonomo e che nulla ha a che vedere con i riti della haute couture di Parigi o con quelli, ormai stravolti e del tutto disattesi da stampa e clienti, di Altaroma.
Grazie alla Cina delle fashion victim, alla Corea del Sud, a qualche brasiliana disattenta alle sorti del proprio Paese a meno che il suo destino sia legato a una cena di beneficenza cui presenziare in abito nuovo, agli Emirati che però vogliono farsi servire chez eux, nel vestiaire di casa, a una certa Russia dalla partecipazione chiassosa alle politiche di Putin, al Kazakisthan dalla ricchezza meno esibita ma non per questo di minore rilevanza e naturalmente alle americane del nord, la haute couture sta conoscendo un recupero spettacolare, soprattutto rispetto a un decennio fa, quando sembrava giustificata solo come leva di comunicazione e marketing. Il cambio di rotta è evidente dalla copertura mediatica più controllata o, come nel caso di Dolce&Gabbana, sostanzialmente autogestita via social. Il motivo è che mostrare abiti unici, irriproducibili, dal costo variabile da dieci a trecento–quattrocentomila euro, è diventata una scelta dello stilista e della maison, legata a logiche personali o anche strategiche, ma del tutto innecessarie. Per vendere bene un marchio, ormai, bastano le sfilate del pret-à-porter, le feste dei lanci di profumo, le sponsorizzazioni delle mostre e delle grandi kermesse cinematografiche.
La haute couture, che serve poco più di cinquemila persone nel mondo, contese da nomi quasi ovvi come Valentino, Armani, Dior, Chanel, Fendi, Valli, ma anche non immediati come Tom Ford o Kiton, vive di regole proprie, dove chi acquista non ha bisogno di farlo sapere in giro e il sarto ritiene proprio dovere accontentarlo. Attorno a questi abiti lavorano per migliaia di ore tessutai, sarti, tagliatori, ricamatori, venditori, i pr dei trattamenti speciali di cui sopra, ogni minuto del loro lavoro viene pagato a peso d’oro, contribuendo dunque al mantenimento di un alto artigianato e di un saper fare che vorremmo tenerci in Italia finché possibile e anzi, se possibile, sviluppare. Nel Terzo Millennio risulta sempre piuttosto difficile spiegare per quale motivo esistano tuttora donne che vestono secondo gli stessi criteri di Elisabetta I e una sartorialità che si esprime esattamente lungo gli stessi canoni, e con gli stessi prezzi, di un abito di corte dei Borbone di Spagna. Un secolo e mezzo di moda pronta, e il progressivo declino della nozione di sarta, sembrano infatti aver cancellato dalla memoria collettiva l’evidenza che un ricamo a mano o un intaglio su pelliccia richiede mille o anche duemila ore di lavoro oggi come ai tempi in cui la Serenissima valutava che il costo per vestire adeguatamente una dama fosse equiparabile a quello per armare una nave.
Esiste invece un universo parallelo che viaggia in direzione contraria a quello in cui i vestiti costano nove euro e vengono cuciti in catapecchie del Bangladesh da bambine di dieci anni; un mondo in cui non è il cliente a varcare la soglia di un atelier, per non dire di una boutique, ma è lo stilista stesso, o i suoi più diretti collaboratori, che salgono su un aereo e attraversano il Mediterraneo per prendere le misure della cliente, talvolta restando fuori dalla porta durante le prove se, come nel caso delle principesse saudite, accettano di parlare ma non di farsi toccare da un uomo. Non pensate a stilisti di seconda fascia, giovani o sconosciuti, ma a Donatella Versace, Giambattista Valli, Elie Saab: qualunque designer si è recato più volte in India, in Qatar o in Cina ad apportare gli ultimi ritocchi a un abito da sposa e al corteo nuziale, oggi come nel 1955 quando le sorelle Fontana portarono tutte insieme, personalmente, l’abito di Maria Pia di Savoia che sposava Alessandro di Grecia a Cascais, e nei cinegiornali dell’epoca le vedete sorridenti e felici mentre salgono la scaletta dell’aereo all’aeroporto di Ciampino. Nessuno oserebbe chiedere tanto a Giorgio Armani, che pur ricevendo in t–shirt e sneakers i propri ospiti ha assunto lo status di monumento nazionale, ma all’ultima sfilata della collezione Privé, a Parigi, non erano poche le vendeuse incaricate di accogliere, ospitare e intrattenere le grandi clienti internazionali con lo sfarzo a cui sono abituate e a cui i loro bonifici annuali danno titolo.
L’amica che lavora da Dolce&Gabbana racconta di clienti ospitate e vezzeggiate con la famiglia al seguito per tre giorni, di cinesi che arrivano vestite come vedove dei Quattro Canti, in total look dell’ospite convinte di rendergli così onore, di russe aggressive, di sudamericane fermamente decise a divertirsi, e in generale di una battaglia per la conquista del modello agognato a colpi di Whatsupp che, sebbene divertente e ben coreografata, è in buona parte fittizia. Buona parte di quegli abiti da trenta, quaranta o centomila euro è, infatti, per così dire preassegnata.
«Alcuni fra questi vestiti sono addirittura disegnati pensando a una certa cliente, ai suoi gusti e alle occasioni in cui potrebbe indossarlo», dice: «In ogni caso, tutti possono essere modificati e adattati in poche ore. È la forza delle nostre collezioni».
La mattina dopo la sfilata, e non di rado la notte stessa, mentre gli altri ospiti sono al ricevimento, le trecento clienti-ospiti del brand provano l’abito, lo affidano alle sarte per gli eventuali aggiustamenti e, se l’intervento non è particolarmente complesso, lo fanno caricare direttamente sul loro aereo per portarlo a casa. Poche o zero prove, tutto e subito. Il bauscia collettivo non ha tempo, non ha confini, non ha religione, e adesso inizia ad avere anche una moda fatta su misura non solo del proprio modo di essere, ma anche di sentire. Non è un caso che gli abilissimi Dolce&Gabbana abbiano scalato i vertici di un mestiere e di un mercato così ristretti e così difficili in soli cinque anni. Vi hanno apportato nuove regole, le loro, riuscendo però a rispettarne i codici e in fondamentali: esclusività totale, riservatezza assoluta, cura del rapporto personale. Se un giorno decideste di leggere le memorie di Marie Jeanne Rose Bertin, modista della regina Maria Antonietta, non vi trovereste nulla di diverso, e così nelle autobiografie di Charles Frederick Worth, di Paul Poiret e di Hardy Amies, quest’ultimo un sarto da uomo ben conscio delle fisime dei signori.
«Ci è capitato di rifare un corpetto perché il ricamo di una foglia non era esattamente nel punto che la cliente si aspettava, o credeva di aspettarsi», sorridono dalla grande famiglia Balestra, che fra le proprie clienti annovera la famiglia reale della Thailandia: «Ma il maestro (Renato naturalmente, nda) non vuole scontentare nessuno».
La soddisfazione del cliente nella haute couture riveste caratteri quasi sacrali, e non potrebbe essere altrimenti: nessuna di queste signore è abituata a sentirsi dire di no. Le venditrici addette alle clienti della couture, ma anche le stesse première che sovrintendono alla fattura dell’abito, mantengono con loro un rapporto di confidenza, se non di amicizia: dopo l’ultima sfilata di Valentino, a Parigi, ne ho vista più d’una precipitarsi nel backstage ad abbracciare il geniale direttore creativo Pierpaolo Piccioli e le sarte con il camice bianco e gli spilli appuntati sul bavero. È un mondo intimo, regolato quasi più sulla fiducia che sul denaro.
Al ricevimento di accoglienza dell’ultima sfilata haute fourrure di Fendi, gli stessi abiti che erano parsi meravigliosi sei mesi prima su Bella Hadid o Kendall Jenner erano ugualmente gradevoli su certe minutissime cinesi che circolavano sorridenti sorseggiando champagne nel foyer del Théatre des Champs Elysées. Magia sartoriale, appunto, ed espressione di disponibilità non solo economica. «Per un nostro cliente russo, che festeggiava il compleanno con una grande festa estesa in più momenti e voleva presentarsi ogni volta con uno smoking diverso, di recente si è trasferito per due giorni un piccolo team, comprensivo di sarta si intende», racconta Laura Clerici, operations manager di Tom Ford. Sono investimenti che si ripagano, talvolta immediatamente e in maniera inaspettata: oltre agli amici dell’imprenditore ha voluto uno smoking su misura anche la moglie.
All’ultimo piano del palazzo di Brera che un tempo ospitava la maison Ferré, acquistato e ristrutturato con molta amabilità dalla famiglia Paone, fondatrice di Kiton, stanno per essere ultimate quattro piccole e sontuose penthouse. Ma i “i grandi buyer” di passaggio a Milano, i compratori di professione, su quei parquet non poseranno mai i piedi: sono destinate ai clienti privati, uomini che ogni anno staccano a Kiton assegni da un milione di euro. Eppure parlare di “mercato” nella haute couture è del tutto privo di senso. Si tratta di un investimento che le griffe fanno per mantenere lo spirito delle proprie origini, come nel caso di Chanel, Schiaparelli e Dior, oppure per approcciare una clientela che vuole solo unicità; talvolta per elevare il proprio status, come Dolce&Gabbana. Sono, per molti, iniziative in folle perdita. Per alcuni, da qualche anno e grazie ai ricchissimi asiatici, in attivo.


Pagina 99, 25 agosto 2017

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