5.12.17

"L'Eresiarca" di Apollinaire. Guglielmo il Macabro (Alfredo Giuliani)

Tullio Garbari, Intellettuali alla "Rotonde".
In prima fila da sin.  Marinetti e Apollinaire
Il giovane Guillaume Apollinaire, ricco di estri voraci, di umori malinconici e profetici, nonché di fantasia per l' erudizione, era un mistificatore istintivo. Quand'era ancora studente, nel 1897, a diciassette anni, firmava le sue poesie Guillaume Macabre. Era un grande utilizzatore di biblioteche e di viaggi. Un soggiorno di qualche mese nelle Ardenne belghe, un anno in Germania (dove fa il precettore) con visite particolari della regione renana e di numerose città, un tour dell'Europa centrale (Vienna, Praga) gli bastano per nutrire l'immaginario di leggende locali e motivi folklorici. Legge di tutto, naturalmente, e lo incantano gli autori medievali, le favole, la pornografia, il melodramma nero. Tra gli scritti in prosa dei primi anni spiccano le sedici novelle o racconti riuniti nel volume L'Eresiarca & C. (Guanda, pagg. 173, lire 20.000), parte dei quali sono appunto il frutto di suggestioni che risalgono al periodo girovago (1899-1903), arricchite dalla rapinosa frequentazione delle biblioteche. Le fonti di ispirazione sono però anche altre, e si può dire che vanno dal Medioevo al magico moderno (in una novella assistiamo alla granghignolesca efferatezza di un produttore di cinegiornali che allestisce un crimine per filmarlo). Possiamo domandarci quale filo attraversa L'Eresiarca e la risposta sembra facile: i testi del libro sono tutti racconti miracolosi, magari alla rovescia, storie popolari adulterate da stridori comici, da sogghigni blasfemi e a volte deliziosamente ambigui. Sono buffonerie travestite da enormità sacrileghe, scelleratezze edificanti, o semplicemente allegorie delle superstizioni, aspirazioni e aberrazioni umane. È noto che fu Apollinaire a inventare la parola surrealtà assai prima che Breton predicasse il surrealismo. E non c'è dubbio che i racconti dell'Eresiarca siano di grana surrealista e, quasi tutti, eccellenti esempi di humour nero. Quello che dà il titolo al volume è una fumisteria pagliaccesca, in fondo alla quale l'autore ha però l'opportunità di fornirci la chiave, o almeno una delle chiavi, della sua tematica allegorica. In un dolce pomeriggio di maggio, il narratore va a visitare il Reverendo Padre Benedetto Orfei, teologo e gastronomo, devoto e ghiottone. Costui, dopo aver fondato un'eresia alla fine del secolo XIX, debitamente scomunicato, vive in ritiro in una sua villa di Frascati, avendo come fedeli i propri domestici, due pie signore e qualche ragazzo di campagna a cui insegna i primi rudimenti della nuova credenza. Mentre sorseggiano vin santo e degustano dolciumi, Orfei spiega al narratore come ebbe in sogno la rivelazione dei tre crocifissi (il ladrone di destra era Dio Padre, il ladrone di sinistra lo Spirito Santo). Nell'accomiatarsi, il visitatore si accorge con stupore che sotto la veste monacale dell'eresiarca il corpo nudo mostra inequivocabili segni di flagellazione. In seguito l'Orfei dà alle stampe due vangeli paralleli, presto distrutti o sequestrati, dedicati l'uno alla morte del Padre Eterno, l'altro alla vita dello Spirito Santo; quest'ultimo è il più crudo e sconvolgente, in quanto rivela che la Divina Persona volle incarnarsi nelle peggiori debolezze umane, abbandonandosi a tutti i peccati per compassione dell' uomo. L'Orfei muore in seguito a un'indigestione, ma i medici si dichiarano incerti se attribuire il suo decesso alla gola o alle mortificazioni e torture che egli si infliggeva. Conclusione: La verità è che l' eresiarca era come tutti gli uomini, giacché sono tutti allo stesso tempo peccatori e santi, quando non criminali e martiri.
Se questo è uno dei temi-guida dei racconti, l' altro potremmo individuarlo nella simultaneità di passato e presente, ossia nella mitologica soppressione dei limiti del tempo e della morte: il tempo passato e il presente coesistono, la vita non si rassegna a scomparire o non può scomparire del tutto. Nel racconto di apertura, il narratore si trova a Praga e domanda informazioni a un passante, un tipo sulla sessantina, ancor vegeto, dai bianchi capelli lunghissimi e ben pettinati, il naso prominente peloso e curvo. Il passante, rivelatosi un gentile straniero che conosce il francese e le bellezze della città, si accompagna al narratore e non la smette mai di camminare mentre gli riferisce episodi della propria vita in secoli lontani. È l' Ebreo Errante («Gesù mi ha ordinato di camminare fino al suo ritorno»), che sempre passeggiando mangia, legge, fa all’amore.
Occasionalmente eccitato da una giovane prostituta, il vecchio si cala le Braghe trascinando via la ragazza. Il narratore fa in tempo a vedere il suo sesso circonciso, di cui fornisce una pittoresca descrizione:«faceva venire in mente un tronco nodoso o il palo variopinto dei Pellerossa, screziato di terra di Siena, di scarlatto e del violetto cupo del cielo in tempesta. In capo a un quarto d’ora tornarono. La ragazza stanca, grondante passione, ma spaventata, gridava in tedesco:"Ha camminato tutto il tempo, ha camminato tutto il tempo’’». Ogni novanta o cento anni, l’Ebreo Errante è colpito da un male terribile, ma guarisce e riprende il cammino, invano supplicando Dio di permettergli di fermarsi. Il racconto si conclude con un misterioso risvolto profetico che preferisco non anticipare.
La mescolanza di truculento e di beffardo, la visionaria concretezza del simbolico e dell’inverosimile, l’arte di incuriosire il lettore, la scrittura molto vivida e pungente sono qualità e caratteri che fanno perdonare la struttura approssimativa o sbrigativa di alcuni testi. Non si bada tanto alle ingenuità o disinvolture narrative di un racconto, per esempio, come «L'ebreo latino» (che è la storia di un maniaco omicida ossessionato dal desiderio di salvarsi in punto di morte mediante il battesimo); non vi si bada se si è incantati dal ghigno sacrilego che affiora in ogni pagina per trasformarsi improvvisamente alla fine in una espressione di incredulo rispetto per la religione.
Altri testi, brevi o lunghetti che siano, vi prevalga la beffa o la crudeltà fantastica, hanno invece un andamento perfettamente misurato. Collocherei tra questi «Que vlo-ve?», «La rosa di Hildesheim», «I pellegrinipi piemontesi», «La scomparsa di Honoré Subrac», che costituiscono un piccolo campionario delle grandi capacità dell'autore di variare stile e ambientazione insistendo pur sempre sui propri temi.
Il libro si chiude con la serie delle avventure del barone d’Ormesan, «L'Anfìone falso Messia»; qui siamo nel fantastico francamente buffonesco. Turlupinatore, inventore di mirabt lanti congegni, dissipatore di fortune, comico e sinistro avventuriero, il barone d’Ormesan è una caricatur di Géry Piéret, un cialtrone belga, che Apollinaire conosceva bene e aveva assunto come segretario nel 1907.
A modo suo, anche il barone è un farsesco eresiarca che vuole fondare di nuovo il regno di Giuda, facendo proseliti nelle masse con una macchinosa impostura. Accecato dalla collera, il narratore gli scarica addosso la rivoltella. Ahimé, ha ucciso il suo amico d’Ormesan, inventore del diabolico tatto a distanza, criminale sì, ma compagno tanto delizioso! Così, con tutte le sue diversità di motivi e di stile, L’Eresiarca & C. è allegoricamente un libro unitario che in conclusione fa fuori le sue stesse fonti.
[...]
La traduzione di Montesanti mi sembra buona, assai corretta e perfino troppo rispettosa della lettera dei testi. Per esempio, a pag. 33, c'è una frase che suona così: «A partire da 1878, il Reverendo Padre Benedetto Orfei fu, a Roma, il rappresentante presso lo Stato del suo Ordine espulso»; la traduzione è perfettamente conforme all’originale, a quanto mi risulta. Ma, appunto, l’originale è abbastanza strano. Quell'espulso che sembra riferirsi a Ordine, non dà un senso chiaro. Si può anche sospettare una sbadataggine di Apollinaire o un errore tramandato; in ogni caso sarebbe stato opportune spiegare in una nota che cosa intendesse l’autore, ammesso che il testo francese sia esatto. Orfei aveva fondato un'eresia, non un Ordine, ma probabilmente nel momento in cui scriveva quella frase Apollinaire non vi fece caso; questa mi pare la spiegazione più probabile.
Note essenziali e utilissime il traduttore ha invece redatto per tutti riferimenti eruditi. Apollinaire riteneva L’Eresiarca la sua migliore opera in prosa, e questa edizione italiana conferma che il suo giudizio non era infondato.


“la Repubblica”, 13 maggio 1987

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