19.12.17

Zola e il romanzo sperimentale. Il naturalismo come avanguardia (Renato Barilli)

Il testo che segue nasce come recensione al celebre saggio di Emile Zola, Il romanzo sperimentale, di cui nel 1980 le edizioni Pratiche di Parma pubblicarono una nuova traduzione (Ida Zaffagnini) con l'introduzione di Ennio Scolari. (S.L.L.)
Zola nel suo studio
Il naturalismo oggi non gode certo di buona stampa, sia in letteratura che nelle arti, ma ciò che dobbiamo condannare è un concetto di esso ormai scaduto a luogo comune a facile e diffusa credenza accettata da molti come soluzione di comodo, affatto priva di rischi e di tensioni. Altra cosa era il naturalismo ai suoi tempi buoni, quando Zola se ne faceva una bandiera di combattimento. Allora si trattava di una temeraria e spregiudicata ipotesi di lavoro dal taglio decisamente avanguardistico. Anzi, la storia delle avanguardie registrò proprio attorno a quell’«ismo» uno dei suoi primi e più vivaci episodi. Non importa che, quasi un secolo dopo (i saggi del «romanzo sperimentale» furono raccolti nel 1879) se ne debbano rilevare gli evidenti limiti storici. Senza dubbio nessuna ipotesi di lavoro può reggere per tanto tempo, ma certo, quando sia stata vissuta con tanta intensità e dedizione, le va reso per lo meno l’onore delle armi, e comunque c’è sempre qualcosa da imparare da chi l’ha sviluppata fino in fondo.
Il lato coraggioso e oltranzista del «romanzo sperimentale» zoliano stava nel sostenere la fusione con la scienza più avanzata dell’epoca (e infatti la formula stessa veniva ricalcata dall'Introduzione alla medicina sperimentale di Claude Bernard, si vedano in proposito le acute precisazioni di Ennio Scolari). Questo contro i vari idealismi di specie romantica che miravano (e mutatis mutandis mirano tuttora) a fare della letteratura il regno dell’«altro», del «non so che», dell’anima: di ciò che resiste alla storia, alla coerenza metodologica, all’impostazione rigorosa. Anche oggi, del resto, un tratto distintivo tra chi si situa in uriarea di neoavanguardia o di sperimentalismo e chi sta dall’altra parte, si riconosce proprio dal fatto di voler seguire un progetto oppure no: di scrivere enunciando ipotesi, o invece gettandole via come tentazioni inopportune.

Fisica e romanzo
Il limite storico dell’impresa zoliana, quindi, non consiste nell’accettare di lavorare con ipotesi scientifiche e sperimentali, di voler adottare un abito mentale «alla pari» con quello degli scienziati. Fu piuttosto nel credere che ci fosse un’unica metodologia per tutte le scienze, fondata sul primato della fisica e della chimica, con il conseguente proposito di ridurre ad esse gli ambiti più complessi delle scienze umane e sociali (la psicologia, i comportamenti di massa), secondo la pretesa tanto ingenua quanto ferrea e dogmatica di scomporre le difficili equazioni della nostra condotta nella semplicità di pochi elementi di fondo. E siccome la scomposizione risultava ardua, lo scrittore naturalista era costretto a chiosarla con tutta una serie di espressioni di scusa verso i lettori: abbiate pazienza, le scienze sodali sono giovani, poi si vedrà, oggi no, ma domani ce la faremo. È la tipica scommessa sul futuro che anche in altre occasioni abbiamo visto venir adottata dal riduzionista incallito, nel tentativo di giustificare gli scacchi dell’ora presente. Ai nostri giorni, per esempio, ci sono passati abbondantemente i semiologi, quando tentavano di spiegar tutto a partire dai segni della linguistica.
E sempre contro questo scientismo univoco e riduttivo risulta inevitabile un «ritorno del rimosso»: l’idealismo, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra. Pochi anni dopo la pubblicazione del «roman experimental», in Francia e in tutto il mondo scatta l’epoca simbolista, che vuol essere appunto una confusa e ingolfata rivalsa dei valori complessi sacrificati al primato delle scienze naturali. Zola, in questi suoi articoli, riesce ancora a lodare il giovane allievo Huysmans, ma se avesse tardato a raccoglierli fino all’uscita di «À rebours» (nell’86), avrebbe dovuto denunciarlo come un traditore passato al nemico.

Poi venne Freud
Eppure, anche così, non è l’idealismo che vince, o meglio, questo conferma di essere il sottoprodotto, l’effetto distorto di una errata impostazione scientifica. La risposta e la soluzione ai fallimenti di Claude Bernard e di Zola, sulla via del loro sperimentalismo riduttivo, non la danno Maeterlinck o D’Annunzio o Wilde, bensì Freud, Bergson, Pirandello, Proust, che senza rinunciare al postulato delia scientificità e del rigore, capiscono tuttavia che bisogna adottare equazioni a più incognite, pluridimensionali, in luogo dell’appiattimento unilineare caro ai loro predecessori. Eppure l'abito mentale resta più o meno lo stesso, e non mancano le simpatie verso i padri, rei soltanto di un eccesso di ardore semplificante.
Del resto, tra i narratori naturalisti come Zola e quelli dell’analisi pluridimensionale del vissuto come Pirandello, Svevo, Musil, su su fino a Joyce, c’è un’altra fede comune, derivante dal loro stesso atteggiamento scientifico: la fede che il romanzo moderno sia più che altro una questione di analisi (univoca o plurivoca, poco importa), di studio dei caratteri e degli ambienti. Delle sei parti canoniche in cui Aristotele suddivideva un poema-tipo, essi esaltano la seconda in ordine di importanza, l’«ethos», mentre disprezzano la prima, il «mythos», la trama, l’intreccio, o ne predicano un uso limitato, appena quanto basta per piazzare il punto di vista sullo spessore «etico».
Zola giunge a deprecare che non si trovi una parola sostitutiva a quella di «romanzo», che autorizza di per sé le più pazze evasioni romanzesche. E le sue lodi vanno a Balzac e a Stendhal, grandi artefici della svolta per cui la narrativa cessa di essere un fatto di immaginazione, mentre affonda nel documento e nella descrizione: parola-chiave, quest’ultima, che fra l’altro consente a Zola di condannare le frivolezze del teatro degli Scribe, Angier, Dumas, intessuto di «errori» e di peripezie, ma povero appunto di contenuto conoscitivo e ambientale. Egli giunge a pronosticare la fine del teatro, se non riuscirà ad agganciare l’esigenza moderna di dare il documento, la «tranche de vie».
Sembra quasi che emerga in lui l’intuizione profetica dell’avvento di un nuovo mezzo, potentemente abilitato a offrire il vissuto, l’epidermide dell’esistenza: il cinema.
Ma quello che Zola non poteva prevedere, era che il cinema non si sarebbe limitato a sconfiggere soltanto il teatro, bensì avrebbe intaccato il ruolo stesso della narrativa. E non gli riuscì ugualmente di prevedere che i corsi e i ricorsi della storia avrebbero portato teatro e romanzo a effettuare un ritorno alle origini, appunto per scongiurare la temibile concorrenza dei mezzi di riproduzione fotochimica e elettronica (anche la televisione sarebbe ben presto entrata in gioco). Origini che consistono in una riproposta dell’azione, del «mythos». Rilancio della sintesi magari «fulminante», come avrebbero detto i futuristi, contro l’analisi sperimentale, che non fu, giova ancora ricordarlo, del solo Zola, ma anche di Proust e di Joyce.

Tuttolibri "La Stampa", 3 maggio 1980

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