Nella notte fra il 12 e
il 13 aprile del 1928 meno di ventiquattr'ore dopo che era stato
compiuto a Milano, m piazzale Giulio Cesare, un fallito attentato al
re, io fui arrestato sotto l’accusa di esserne stato l'autore. La
sera del 13 aprile ero già in carcere, a San Vittore, e la mattina
del 14 andando al passeggio in assoluto isolamento - avevo un cortile
tutto per me — mi sentii chiamare dal cortile vicino da un compagno
che avendomi visto isolato aveva capito che ero un politico. Questo
compagno era Umberto Terracini.
Terracini era in carcere
— credo — dal 1925; mi chiese subito informazioni sulle cause del
mio arresto e mi diede dei saggi consigli sulla vita carceraria. Con
Terracini, pur senza vederci, mantenni rapporti quotidiani; infatti
avevamo il passeggio in cortili confinanti e, pur separati da un
muro, potevamo parlare alzando un po’ il tono della voce.
Da lui seppi che anche
Gramsci era a San Vittore. Ma mentre Terracini ed io eravamo al
quarto raggio, Gramsci si trovava al sesto e quindi non avevamo
nessuna possibilità di incontrarci, salvo se fossimo andati
contemporaneamente agli uffici centrali.
La fortuna volle che un
giorno, proprio andando a conferire col direttore del carcere, il
dottor Ardisson, trovai Gramsci che era prima di me in attesa di
essere ricevuto. Anche se non l’avevo mai visto lo riconobbi subito
per il fisico caratteristico; lui naturalmente non sapeva chi fossi e
non sapeva neppure chi fosse Lelio Basso, ma ricordava perfettamente
lo pseudonimo Prometeo Filodemo con cui avevo scritto sulla stampa
antifascista dal 1923 al 1926. In modo particolare ricordava la mia
collaborazione a "Quarto stato," il settimanale diretto da
Carlo Rosselli perché Gramsci aveva scritto un attacco piuttosto
duro contro i giovani di "Quarto stato.” E quindi anche contro
di me, per le valutazioni politiche diverse che facevamo.
In quell’occasione fu
invece cordialissimo. Avemmo uno scambio di parole non molto lungo
perché dopo pochi minuti lui fu introdotto dal direttore; poi usci
ed entrai io. Però avevamo avuto il tempo di metterci d’accordo
pei chiedere udienza al direttore la settimana successiva.
Le udienze dal direttore
erano a giorno fisso della settimana e quindi chiedendola subito
l’avremmo avuta nello stesso giorno. In generale, non era tanto
facile ottenere queste udienze, ma il direttore Ardisson veniva dalla
vecchia amministrazione, non era un fascista, personalmente io ero
stato compagno di scuola di suo figlio e quindi lo conoscevo
benissimo anche per aver frequentato la sua casa prima dell’arresto.
A me perciò usava un trattamento di favore, amichevole, e anche
verso Gramsci aveva un atteggiamento di rispetto. Quindi la settimana
dopo potemmo parlare un po’ più a lungo. Dico a lungo e furono
pochi minuti, ma dato che l'incontro era già programmato parlammo
rapidamente di politica e soprattutto delle valutazioni sul fascismo.
Per quanto io posso naturalmente ricordare, perché in quel momento
certo non pensavo di dover registrare quasi quarant’anni dopo
questa conversazione. Mi pare però che su un punto ci trovassimo
d’accordo: che il fascismo sarebbe durato molto più a lungo di
quanto l’opposizione credeva quando parlava di "breve
parentesi,” ecc.
Non potrei adesso dire
più di questo sugli argomenti della nostra conversazione. Ricordo
però che Gramsci mi fece una grandissima impressione: per la sua
intelligenza, per la sua concretezza, il suo senso della storia. Non
era una conversazione che si sarebbe avuta abitualmente, ma quasi in
ogni sua parola, dietro ogni giudizio che pronunciava, c’era tutta
una visione della storia e una concezione molto profonda dei problemi
e dei processi di cui parlavamo.
Questa impressione mi è
rimasta, e non solo perché la personalità di Gramsci era tale che
non si sarebbe potuta dimenticare neanche dopo un incontro fuggevole.
Non ebbi più occasione di riincontrarlo perché nella settimana
successiva era già partito per il “processone”. Ma questo
ricordo di lui mi risultò più chiaro quando, essendo stato hi non
processato ma mandato al confino all’isola di Ponza vi incontrai
Bordiga.
Con Bordiga rimasi nella
stessa isola di confino per circa un anno. Se ricordo bene, Bordiga
fu liberato nell’ottobre-novembre del 1929, e io ero giunto a Ponza
nel settembre del 1928. Avevamo tutti i giorni occasione di scambiare
delle idee, in modo particolare durante la stagione balneare si stava
sulla spiaggia e si chiacchierava. Io ero giovane, avevo poco più di
ventiquattro anni, ero un "apprendista” e cercavo contatti con
le personalità che mi sembravano le più eminenti e Bordiga lo era
certamente in quanto era stato il capo del Partito comunista. Devo
dire però che Bordiga mi deluse per il tipo della sua intelligenza.
Può essere che io abbia sbagliato e sbagli nella mia valutazione.
Comunque la sua mi parve una intelligenza acuta, ma matematica,
astratta, non aderente mai alla realtà concreta. Mentre in Gramsci
mi era parso di capire che bastavano poche parole perché riuscisse
ad afferrare la realtà nella sua complessità, nel suo divenire
storico, nel suo dinamismo, nelle sue componenti eterogenee, nelle
sue contraddizioni, Bordiga pareva che procedesse solo per schemi
astratti, per formule da applicare, come se dimostrasse un teorema
matematico. Il mio primo maestro di marxismo era stato uno storico,
Ugo Mondolfo, professore al liceo Berchet, e mi ero formato
soprattutto sui suoi scritti su Marx. Quindi avevo appreso da Marx la
concretezza e non delle concezioni astratte. Perciò fui colpito
sfavorevolmente da questa forma di ragionamento di Bordiga e questo
valse ancora di più ad accentuare la valutazione molto positiva che
avevo dell’intelligenza di Gramsci.
Erano due intelligenze contrapposte; quella di Bordiga fatta per non incontrare mai la realtà, e invece quella di Gramsci più specifica, fatta per afferrare la realtà nel profondo.
Erano due intelligenze contrapposte; quella di Bordiga fatta per non incontrare mai la realtà, e invece quella di Gramsci più specifica, fatta per afferrare la realtà nel profondo.
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