18.1.18

Forza d'artista. In morte di Renato Guttuso (Giulio Carlo Argan)

Guttuso, Fuga dall'Etna, Roma - Galleria Nazionale
Nella storia dell'arte italiana del nostro secolo Guttuso è stato obiettivamente il personaggio più forte e influente: per la generosa irruenza della pittura, l'eloquenza accattivante del discorso, il coraggio delle idee, la presenza assidua, il fascino della persona. E per la chiarezza della scelta, la lealtà della militanza politica. È stato un grande comunista: con la sua autorità e il suo prestigio intellettuale ha contribuito come pochi altri a orientare a sinistra la cultura, non soltanto l'arte italiana. Sapeva che non c'è autorità senza responsabilità, non l'ha mai scansata. Oggi che non è più sarebbe fargli torto perdersi in elogi e rimpianti; è più giusto cercare di capire, criticamente, che cosa significò fino a ieri la sua presenza e significhi da oggi, purtroppo, la sua mancanza per la cultura di sinistra, che attraversa una fase di crisi. Per me, la sua presenza e la sua amicizia hanno significato molto proprio perché la nostra scelta politica era la stessa, ma era diversa la valutazione della situazione culturale in atto e delle sue possibilità di sviluppo. Significò molto perché fu dei primi, cinquantanni fa, a capire e spiegare che la professione d'intellettuale non comportava nessuna immunità ma una maggiore responsabilità politica; che non bastava rispondere col fastidio e il disgusto alla grossolanità culturale fascista; che al di là di essa c’era una volontà delittuosa da combattere con un'azione politica organizzata. Come Manzù, Birolli e qualche altro, a cui fu vicino, capì e spiegò che quella bassa cultura era anche bassa politica e perversa morale. Per merito anche suo la cultura, artistica e no, divenne una forza dell'antifascismo, della Resistenza, della nascente democrazia. Fu una guida intelligente e avveduta, non mi rammarico affatto di averlo, in quegli anni, seguito.
Finita la guerra, tutti cl chiedemmo se potesse ricostruirsi o dovesse rifondarsi la cultura italiana ed europea, materialmente e moralmente annientata. Ancora una volta vide giusto: l’esperienza della lotta antifascista dimostrava che nessuna ricostruzione o rifondazione era possibile senza la stretta unione degli intellettuali e del lavoratori. Guttuso capì subito che il partito del lavoratori doveva essere anche il partito degli Intellettuali: si iscrisse al partito comunista. Sul fatto che la causa delia cultura e la causa del lavoro fossero in sostanza la stessa non poteva esserci, e non ci fu, divisione. Cl fu divergenza, invece, sul processo ed i modi della costruzione di una società e di una cultura socialiste: riforma preliminare delle strutture o impegno Immediato della cultura nella lotta degli operai e del contadini? Il fondamento storico-ideologico era lo stesso, il marxismo, ma c’era il problema delle cosiddette avanguardie, delle spinte rivoluzionarle che s'erano generate, tra le due guerre, all'interno della stessa cultura borghese. Avevano costituito un tentativo di difesa della libertà della cultura contro tutti i regimi totalitari, che infatti le avevano duramente represse; era giusto ricercare nelle loro contraddizioni interne, e non solo nella repressione dell’esterno, le cause della loro sconfitta; ricusarle senza critica significava però rinunciare a progressi obiettivamente realizzati.
Fui tra coloro che rimproverarono a Guttuso di non avere sostenuto con la sua autorità indiscussa il recupero del fermenti rivoluzionari dell’avanguardia europea, anzi di averli condannati come alibi di una borghesia agonizzante. Era, in germe, il dibattito tuttora aperto sul rapporto di comunismo e socialdemocrazia: in arte si concretò nel contrasto di realismo socialista e astrattismo. Guttuso, avendo scelto il realismo, fu accusato d’incoerenza al suo precedente rapporto con Van Gogh, gli espressionisti, il cubismo, Picasso, e di passiva acquiescenza alla disciplina di partito. Non era giusto, la disciplina di partito non era opportunismo: la questione era stata dibattuta a livello filosofico tra Sartre e Merleau-Ponty. Guttuso non ha fatto dello stalinismo né dello zdanovismo, semmai ha cercato di opporre la lezione di Gramsci all’idealismo ancora strisciante nella cultura italiana. Mi addolorò tuttavia vedere compromesso, se non rotto, il sodalizio con Vittorini, che negli anni quaranta aveva portato lo scottante problema della Sicilia e del Meridione al centro della problematica culturale Italiana. La fuga dall'Etna di Guttuso è del '39, Conversazione in Sicilia di Vittorini del '41, e non fu il solo punto d’incontro. Ho sempre considerato sbagliata la via del realismo, ma l'intelligenza pittorica di Guttuso è sempre stata capace di riprese e sorprese, nè si può negare che il contatto diretto con la condizione umana abbia dato al suo linguaggio pittorico una più lucida forza di presa e di stretta. C’è stato poi un periodo di minore impegno ideologico e di largo respiro anche letterario; potrebbe dirsi, col Redi, che fu un «autunno di stagionata maturezza»: grandi quadri accuratamente composti e meditati, in cui la maniera realista dà evidenza a un metafisico oscillare del pensiero figurativo tra memoria e allegoria.
Ma perché, dopo essersi tanto avvicinato a Picasso, è finito tra le braccia di de Chirico? Perché allo sperimentalismo delle avanguardie, sia pure spesso aridamente tecnologico, ha opposto il facile, ma anacronistico elogio della «buona pittura»? Può anche darsi che l’avanguardia sia stata davvero una malattia infantile della cultura socialista, ma la metafisica fu l'infermità senile della cultura borghese.
Va detto però che gli sviluppi recenti della pittura detta postmoderna delusero e irritarono lui e me: infatti potevamo dissentire sul significati, non sulla necessità ideologica della modernità. L’ideologia e sempre moderna perché è intenzionalità di futuro, il postmoderno non è neppure revival, è ricaduta a piatto in un passato immoto. Guttuso ed io eravamo quasi coetanei, io di pochi anni più vecchio, avevamo vissuto le stesse esperienze, qualche volta agghiaccianti, professavamo la stessa ideologia, eravamo compagni di partito oltre che di strada, il nostro civile dissenso era interno al dinamismo dialettico di una stessa cultura, che ora vedevamo in pericolo. Con lui perdo un interlocutore che mi era tanto più necessario e caro quanto più divergevano le nostre vedute circa il ruolo dell'arte nella fabbrica di una società democratica. Dalle nostre due sponde vedevamo con ira sconfessati l’ideologia, il finalismo, la progettualità, il superamento critico del passato: a sconfessarli erano anche partiti nominalmente socialisti. Meno male che nell’attuale, vistoso e chiassoso recupero del figurativo è stato risparmiato a Guttuso il diploma di profeta o precursore del postmoderno. Aveva un sentimento della storia che gli faceva aborrire i profeti e diffidare del precursori.


“l'Unità”, 19 gennaio 1987

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