Guttuso, Fuga dall'Etna, Roma - Galleria Nazionale |
Nella storia dell'arte
italiana del nostro secolo Guttuso è stato obiettivamente il
personaggio più forte e influente: per la generosa irruenza della
pittura, l'eloquenza accattivante del discorso, il coraggio delle
idee, la presenza assidua, il fascino della persona. E per la
chiarezza della scelta, la lealtà della militanza politica. È stato
un grande comunista: con la sua autorità e il suo prestigio
intellettuale ha contribuito come pochi altri a orientare a sinistra
la cultura, non soltanto l'arte italiana. Sapeva che non c'è
autorità senza responsabilità, non l'ha mai scansata. Oggi che non
è più sarebbe fargli torto perdersi in elogi e rimpianti; è più
giusto cercare di capire, criticamente, che cosa significò fino a
ieri la sua presenza e significhi da oggi, purtroppo, la sua mancanza
per la cultura di sinistra, che attraversa una fase di crisi. Per me,
la sua presenza e la sua amicizia hanno significato molto proprio
perché la nostra scelta politica era la stessa, ma era diversa la
valutazione della situazione culturale in atto e delle sue
possibilità di sviluppo. Significò molto perché fu dei primi,
cinquantanni fa, a capire e spiegare che la professione
d'intellettuale non comportava nessuna immunità ma una maggiore
responsabilità politica; che non bastava rispondere col fastidio e
il disgusto alla grossolanità culturale fascista; che al di là di
essa c’era una volontà delittuosa da combattere con un'azione
politica organizzata. Come Manzù, Birolli e qualche altro, a cui fu
vicino, capì e spiegò che quella bassa cultura era anche bassa
politica e perversa morale. Per merito anche suo la cultura,
artistica e no, divenne una forza dell'antifascismo, della
Resistenza, della nascente democrazia. Fu una guida intelligente e
avveduta, non mi rammarico affatto di averlo, in quegli anni,
seguito.
Finita la guerra, tutti
cl chiedemmo se potesse ricostruirsi o dovesse rifondarsi la cultura
italiana ed europea, materialmente e moralmente annientata. Ancora
una volta vide giusto: l’esperienza della lotta antifascista
dimostrava che nessuna ricostruzione o rifondazione era possibile
senza la stretta unione degli intellettuali e del lavoratori. Guttuso
capì subito che il partito del lavoratori doveva essere anche il
partito degli Intellettuali: si iscrisse al partito comunista. Sul
fatto che la causa delia cultura e la causa del lavoro fossero in
sostanza la stessa non poteva esserci, e non ci fu, divisione. Cl fu
divergenza, invece, sul processo ed i modi della costruzione di una
società e di una cultura socialiste: riforma preliminare delle
strutture o impegno Immediato della cultura nella lotta degli operai
e del contadini? Il fondamento storico-ideologico era lo stesso, il
marxismo, ma c’era il problema delle cosiddette avanguardie, delle
spinte rivoluzionarle che s'erano generate, tra le due guerre,
all'interno della stessa cultura borghese. Avevano costituito un
tentativo di difesa della libertà della cultura contro tutti i
regimi totalitari, che infatti le avevano duramente represse; era
giusto ricercare nelle loro contraddizioni interne, e non solo nella
repressione dell’esterno, le cause della loro sconfitta; ricusarle
senza critica significava però rinunciare a progressi obiettivamente
realizzati.
Fui tra coloro che
rimproverarono a Guttuso di non avere sostenuto con la sua autorità
indiscussa il recupero del fermenti rivoluzionari dell’avanguardia
europea, anzi di averli condannati come alibi di una borghesia
agonizzante. Era, in germe, il dibattito tuttora aperto sul rapporto
di comunismo e socialdemocrazia: in arte si concretò nel contrasto
di realismo socialista e astrattismo. Guttuso, avendo scelto il
realismo, fu accusato d’incoerenza al suo precedente rapporto con
Van Gogh, gli espressionisti, il cubismo, Picasso, e di passiva
acquiescenza alla disciplina di partito. Non era giusto, la
disciplina di partito non era opportunismo: la questione era stata
dibattuta a livello filosofico tra Sartre e Merleau-Ponty. Guttuso
non ha fatto dello stalinismo né dello zdanovismo, semmai ha cercato
di opporre la lezione di Gramsci all’idealismo ancora strisciante
nella cultura italiana. Mi addolorò tuttavia vedere compromesso, se
non rotto, il sodalizio con Vittorini, che negli anni quaranta aveva
portato lo scottante problema della Sicilia e del Meridione al centro
della problematica culturale Italiana. La fuga dall'Etna di
Guttuso è del '39, Conversazione in Sicilia di Vittorini del
'41, e non fu il solo punto d’incontro. Ho sempre considerato
sbagliata la via del realismo, ma l'intelligenza pittorica di Guttuso
è sempre stata capace di riprese e sorprese, nè si può negare che
il contatto diretto con la condizione umana abbia dato al suo
linguaggio pittorico una più lucida forza di presa e di stretta. C’è
stato poi un periodo di minore impegno ideologico e di largo respiro
anche letterario; potrebbe dirsi, col Redi, che fu un «autunno di
stagionata maturezza»: grandi quadri accuratamente composti e
meditati, in cui la maniera realista dà evidenza a un metafisico
oscillare del pensiero figurativo tra memoria e allegoria.
Ma perché, dopo essersi
tanto avvicinato a Picasso, è finito tra le braccia di de Chirico?
Perché allo sperimentalismo delle avanguardie, sia pure spesso
aridamente tecnologico, ha opposto il facile, ma anacronistico elogio
della «buona pittura»? Può anche darsi che l’avanguardia sia
stata davvero una malattia infantile della cultura socialista, ma la
metafisica fu l'infermità senile della cultura borghese.
Va detto però che gli
sviluppi recenti della pittura detta postmoderna delusero e
irritarono lui e me: infatti potevamo dissentire sul significati, non
sulla necessità ideologica della modernità. L’ideologia e sempre
moderna perché è intenzionalità di futuro, il postmoderno non è
neppure revival, è ricaduta a piatto in un passato immoto. Guttuso
ed io eravamo quasi coetanei, io di pochi anni più vecchio, avevamo
vissuto le stesse esperienze, qualche volta agghiaccianti,
professavamo la stessa ideologia, eravamo compagni di partito oltre
che di strada, il nostro civile dissenso era interno al dinamismo
dialettico di una stessa cultura, che ora vedevamo in pericolo. Con
lui perdo un interlocutore che mi era tanto più necessario e caro
quanto più divergevano le nostre vedute circa il ruolo dell'arte
nella fabbrica di una società democratica. Dalle nostre due sponde
vedevamo con ira sconfessati l’ideologia, il finalismo, la
progettualità, il superamento critico del passato: a sconfessarli
erano anche partiti nominalmente socialisti. Meno male che
nell’attuale, vistoso e chiassoso recupero del figurativo è stato
risparmiato a Guttuso il diploma di profeta o precursore del
postmoderno. Aveva un sentimento della storia che gli faceva aborrire
i profeti e diffidare del precursori.
“l'Unità”, 19
gennaio 1987
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