1.1.18

I maratoneti del sesso chimico (Eleonora Degano)

Articolo di due anni fa, ma la “tendenza” – mi dicono amici di Arcigay – è tuttora vitale e in crescita anche in Italia. (S.L.L.)
Un'immagine dal documentario di Vice CHEMSEX (2015)
«Di questi tempi arrivi a Londra alla ricerca della tua vita gay, e trovi Grindr. Nel giro di quattro conversazioni scopri cosa sono le chems. Entro otto arrivi allo slamming, l’iniezione». Inizia così il trailer di Chemsex, il documentario prodotto da Vice e arrivato nelle sale londinesi il 4 dicembre a raccontare una subcultura che, pur parlando di una minoranza ancora molto ridotta, nel Regno Unito inizia a preoccupare.
Il chemsex è l’utilizzo di droghe durante i rapporti sessuali e riguarda soprattutto i men who have sex with men (uomini che sono coinvolti in attività sessuali con altri uomini indipendentemente dalla loro identità sessuale, da qui in poi msm). Mefedrone, metanfetamina in cristalli, Ghb, Gbl: le prime due, stimolanti, aumentano pressione sanguigna, eccitazione sessuale ed euforia. Le seconde hanno un lieve effetto anestetico e disinibiscono, così il chemsex si trasforma, nei casi più estremi, in maratone di sesso che durano fino a 72 ore. Tre giorni spesso trascorsi senza dormire o mangiare e avendo rapporti sessuali con più partner, molti non protetti proprio per l’effetto delle droghe, che rendono difficile dire di no.
Perdere il controllo esclude anche la possibilità di ricorrere alla Ppe, la profilassi post-esposizione al virus dell’Hiv. Prima si prende meglio è (l’efficacia è dell’86% nelle prime quattro ore), ma per riuscire a combattere l’infezione deve essere assunta entro massimo 48 ore dal rapporto a rischio.
I farmaci antiretrovirali, cui si accede tramite pronto soccorso o attraverso i reparti di malattie infettive, arrivano nel sangue e impediscono al virus di annidarsi nelle cellule del fegato, nel midollo spinale, nel cervello. È una corsa contro il tempo, anche perché non sempre il personale sanitario è preparato sulla terapia. E 72 ore dopo un rapporto a rischio è già troppo tardi.
Il British Medical Journal non usa mezzi termini e ha definito il chemsex una priorità di sanità pubblica: in Uk mancano servizi sanitari specialistici e quelli esistenti sono pensati soprattutto per i consumatori di eroina e crack. Ma sempre più persone cercano aiuto, anche psicologico, per le chemsex drugs: il 64% di quelle che si sono rivolte ad Antidote (l’unico servizio in Uk che offre supporto in materia alla comunità Lgbt) ne ha fatto uso nel biennio 2013-2014, la maggior parte per iniezione.
E da noi? La subcultura si nasconde in piena vista: la dicitura chem, ovvero disponibile al chemsex, si incontra da anni su app e siti web destinati agli incontri.
Gli ultimi dati strutturati che possono dirci qualcosa sono quelli di Emis (The European Msm Internet Survey, 2010), che ha coinvolto oltre 18 mila msm da 27 Paesi europei e limitrofi.
Non è il caso di allarmarsi: ad aver fatto uso di party drugs nelle quattro settimane precedenti il sondaggio, in Italia, era un msm ogni 26, il 3,8% degli intervistati, contro uno su otto (il 12,5%) in Inghilterra e a fronte di una media europea del 4,7%. Ancora diversa la situazione nei Paesi Bassi, dove si sale al 16,8%, uno su sei.
«È un fenomeno in espansione anche qui e va affrontato come tale per non farsi cogliere impreparati», commenta Michele Breveglieri, sociologo e responsabile salute di Arcigay, che di Emis ha curato la sezione dedicata all’uso di sostanze.
La questione va considerata da molti punti di vista, a partire dall’allarmismo (lo stesso documentario di Vice ha ricevuto critiche in questo senso) che, per una minima percentuale di msm, rischia di colpire un’intera comunità. «Il pericolo è che non ci siano risultati nella risposta dei servizi, ma solo un altro stigma. L’uso di queste sostanze è un fattore serio di esposizione all’Hiv ed è su questo che stiamo concentrando le forze, per informare una comunità ancora impreparata al fatto che è soggetta a una prevalenza di sieropositività. In base alle ultime indagini si stima che circa il 10% degli msm italiani sia sieropositivo», spiega Breveglieri.
L’associazione tra uso di sostanze psicoattive e sesso non protetto emerge anche dai dati Emis: il 9,3% degli msm che aveva avuto rapporti anali senza condom nelle quattro settimane precedenti il sondaggio, aveva anche preso party drugs.
Il fenomeno in Italia non è una priorità sanitaria, ma l’editoriale del British Medical Journal pone l’accento su un aspetto, quello dell’assistenza psicologica, che ci vedrebbe totalmente impreparati.
«È importante capire se c’è un’associazione tra questo comportamento e un disagio legato alla solitudine o all’omofobia interiorizzata, il minority stress, quella vulnerabilità che accompagna una persona per il solo fatto di appartenere a una minoranza stigmatizzata», osserva Breveglieri, «esistono già studi che l’hanno associato a comportamenti a rischio, per esempio alla compulsività nei rapporti sessuali».
Se in Gran Bretagna la situazione inizia a muoversi – la Novel Psychoactive Treatment Uk Network ha stabilito delle linee guida per il personale sanitario che si occupa di pazienti con problemi legati a party drugs – in Italia non ci sono ancora servizi sanitari specificamente dedicati al connubio sesso-droga.
«Nemmeno per le persone sieropositive è previsto un sostegno terapeutico psicologico o di counseling, se non quello portato avanti dalle associazioni. Medicalizzando troppo la risposta sanitaria, si rischia di perdere l’aspetto umano di una comunità che ha una forte identità, un suo linguaggio, suoi codici comportamentali» conclude Breveglieri. «Noi non vogliamo avere un approccio moralistico sulle modalità con cui le persone si divertono o fanno sesso, ma aiutarli a farlo in modo consapevole, dando risposte a chi esprime dei bisogni. Su questo siamo soli, la sanità pubblica non ci sostiene».


Pagina 99, 5 dicembre 2015

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