Dolly Parton |
C’è una canzone di
Dolly Parton, diva country esageratamente sexy ma non per questo poco
intelligente (un’altra sua canzone dice, “giusto perché sono
bionda non pensare che sono scema”), in cui descrive la povera casa
di montagna in cui è cresciuta, col vento e la neve che si
infilavano nelle fessure fra i tronchi, e la famiglia amorosamente
raggomitolata per riscaldarsi. E dice: “tutto l’oro del mondo non
basterebbe per portarmi via i ricordi che ho di quel tempo; tutto
l’oro del mondo non basterebbe a riportarmi indietro e viverlo
ancora.” In una frase sola, Dolly Parton concentra alcune delle
tensioni esplorate nel mirabile e complesso libro di Antonella
Tarpino, Geografia della
memoria: la casa come luogo e metafora della memoria, anzi
delle memorie – una memoria referenziale che evoca una condizione,
uno stile di vita (nel libro di Tarpino, soprattutto i Sassi di
Matera ma anche il quartiere operaio di Falchera a Torino), e la
“memoria affettiva” di una “casa della mente” (in Geografie
della memoria, soprattutto le case letterarie di Foster e James).
“La memoria,” scrive
Tarpino, “è un elemento perturbante nel flusso della vita, insidia
i contorni di ciò che vediamo confondendoli con i ricordi di quel
che abbiamo già visto, mescola le emozioni del presente con quelle
trascorse. Eppure, in questa contesa estenuante, la memoria cerca di
tenere insieme i diversi volti del nostro racconto nel tempo.” In
questa definizione, mi pare che la parola chiave sia “cerca”: la
memoria, cioè, non come deposito di dati ma come soggetto attivo,
lavoro costante, ininterrotto, mai finito. E anche se le memorie
possono apparire “imprigionate” negli oggetti o “congelate
nelle pietre di antichi quartieri”, in realtà penso che certe
volte succeda il contrario, cioè che siano gli oggetti ad essere
avvolti dal lavoro della memoria che continuamente ne cambia il senso
e la percezione.
Così, il libro di
Antonella Tarpino esplora l’incessante viaggiare fra una dimensione
archetipica della memoria e una sua dimensione storica, mutevole. Da
un lato, la memoria è costitutiva degli individui e dei gruppi
sociali, che senza di essa letteralmente non esisterebbero come tali
(“Memoria e spazio, una polarità che, negli studi di
Leroi-Gourhan, si riconosce costitutiva, fin dalle origini della vita
dei gruppi umani”; una memoria affettiva “che affonda le radici
del substrato emotivo della propria storia intima là dove
l’esistenza ha avuto inizio” e si concretizza spazialmente nella
“casa della mente”). Dall’altro, la memoria è una relazione
che individui e gruppi intrattengono dialogicamente con sé stessi
passati e con gli oggetti e gli spazi che al passato rimandano, e che
quindi cambia con il cambiare di chi ricorda e del suo rapporto con
il ricordato.
Tarpino esplora
soprattutto la prima dimensione nelle pagine sui Sassi di Matera; la
seconda - quella che giustamente chiama “storia della memoria” -
nel capitolo su La casa Howard di E. M. Foster e Ritratto
di signora di Henry James, e le loro versioni cinematografiche di
Ivory e di Jane Campion. Entrambi i testi letterari esplorano, in
modo diverso, la relazione fra una struttura sociale incorporata
nelle case e negli oggetti, e la sua crisi rappresentata
dall’intrusione di nuovi oggetti e nuove soggettività. Così, nel
libro di Foster, l’automobile diventa la figura di quella che
l’autore chiamava “architettura della fretta”, “civiltà del
bagaglio”, “età della collera e dei telegrammi” – figura e
insieme strumento della moderna mobilità ossessiva e della labilità
dei rapporti rispetto alla permanenza e stabilità affettiva della
casa.
Paradossalmente, è
proprio l’accuratezza filologica della ricostruzione filmica di
Ivory a trasformare il senso dell’intera vicenda. Nel film,
infatti, quegli oggetti che nel romanzo rappresentano l’irruzione
lacerante nel nuovo, diventano essi stessi oggetti di antiquariato
coperti da una patina di nostalgia: quelle automobili che ancora
cercano di somigliare a carrozze, per esempio. Non sono cambiati gli
oggetti, siamo cambiati noi (e ancora paradossalmente, direi, questo
non avviene nella lettura, dove gli oggetti siamo chiamati a
raffigurarceli anziché vederli raffigurati da qualcun altro sullo
schermo) e quindi cambia il nostro lavoro della memoria e il
significato che costruiamo ricordando.
Il lavoro della memoria,
dunque, è capace di modulare anche il senso di spazi destinati a
trasmettere nel tempo un significato il più stabile e fisso
possibile, come i monumenti. E’ quello che Tarpino mostra
eloquentemente nel capitolo dedicato a Oradour, il villaggio
distrutto con tutti i suoi abitanti uccisi nella più tremenda strage
nazista in terra di Francia. All’interno di una vera e propria
battaglia fra la memoria dolente del luogo e i tentativi di
autoassoluzione della memoria nazionale, le rovine del villaggio
distrutto sono state preservate “a custodia imperitura” come le
avevano lasciate i nazisti, accanto al paese ricostruito poco più in
là. A lungo, la vita stessa del villaggio ricostruito è parsa come
congelata nel tempo della sua stessa fine, rappresentata da quelle
rovine. Ma anche qui, la precisione filologica del restauro e della
preservazione ha generato la stessa modulazione di senso: gli oggetti
di una vita quotidiana recisa brutalmente in un solo colpo, le
insegne dei mestieri di un tempo, gli arredamenti delle case,
accuratamente preservati nel loro stato di allora, fanno di Oradour
una piccola Pompei della modernità, conservano agli occhi dei
sopravvissuti i resti della casa della loro infanzia, e questo
monumento alla crudeltà nazista diventa anche un luogo di memoria e
persino di nostalgia di un modo di vita scomparso e ricordato.
Insomma, come il tempo trasforma in antico ciò che era nuovo, così
il cambiare dei soggetti nel tempo aggiunge sempre nuovi strati di
senso alla loro relazione con gli spazi e le cose del passato.
C’è molto di più in
un libro come questo, che attraversa psicologia, sociologia,
architettura, urbanistica, letteratura, storia e ricompone tutte
queste competenze in una sintesi più ricca e complessa. Io forse
avrei voluto che accanto agli spazi e alle case si fosse dedicato
altrettanto approfondimento alle persone che ricordano (come avviene
almeno nel capitolo sulla Falchera), e mi sarebbe stato utile un
indice analitico. Ma il libro ci può servire da guida nei nostri
movimenti e nel nostro abitare di oggi. Leggendo come a Oradour si
sono protetti e preservati anche i buchi dei proiettili nelle mura
della chiesa dove furono uccisi donne e bambini, mi sono ricordato di
quando insistemmo a Roma perché non venissero cancellati i buchi
delle pallottole naziste sui muri di via Rasella. E quando cammino
nel mio quartiere, la descrizione della compresenza alla Falchera fra
l’urbanistica industriale moderna e i resti dei casali e delle
cascine rurali mi aiuta a riconoscere, in mezzo e sotto alle
palazzine della speculazione edilizia quello che rimane delle case
semirurali di borgata e delle botteghe artigiane di poco più di una
generazione fa. Ogni oggetto, ogni spazio, ci insegna Geografia della
memoria, è insomma come quei winter counts che i nativi del Nord
America dipingevano sulle pelli di bisonte, inverno dopo inverno,
come annali pittografici della loro storia: “testi” che non ci
raccontano il passato ma che inducono, e ci aiutano, a rievocare la
nostra relazione con i tempi molteplici di cui noi, le nostre cosa e
le nostre case, siamo fatti.
“il manifesto”, 30
gennaio 2009
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