8.1.18

Moravia: Giovinezza per favore vai via! (Mario Andreose)


In un epistolario quasi del tutto inedito 
l’autore degli «Indifferenti» 
spiega perché i vent’anni 
possono essere un’età ingrata

«Se questa è la giovinezza vorrei che passasse presto» scrive Moravia il 6 febbraio 1932 all’amico Alberto Morra di Lavriano. In quegli stessi giorni esce l’edizione francese de Gli indifferenti, presso l’editore Rieder, in contemporanea, per singolare coincidenza, con il memoir di Paul Nizan, Aden Arabia, celebre questo per la prefazione che trent’anni dopo Sartre gli dedicherà, ma soprattutto per il suo attacco: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita».
Con queste sue lettere, quasi interamente inedite, Moravia ci racconta in presa diretta le ragioni della sua voglia di uscire dalla giovinezza, sullo sfondo della sua formazione letteraria e intellettuale e della sua educazione sentimentale: il ritratto che ne esce aggiunge nuova schiettezza e autenticità alla sua immagine uscita dal lavoro di quelli che hanno indagato la sua vita in prospettive diverse: Ajello, Siciliano, Maraini, Camon, Elkann, de Ceccatty. L’epistolario è composto presso che interamente da lettere di Moravia che, come è noto, era un pessimo raccoglitore, e si colloca tra la guarigione della malattia («una rabbia durata 19 anni»), la stesura de Gli indifferenti fino all’incontro con Elsa Morante.
Già dalla sua prima lettera, intorno al compimento dei 19 anni, la rabbia si tramuta in «furioso desiderio di fare qualche pazzia», che vuol dire uscire dal guscio della costrizione, dalla consuetudine borghese della vita familiare, dall’assedio della noia virale. È già qualche anno, quando ne aveva 12-13, che riempie i cassetti di abbozzi di racconti e di poesie e ora sta lavorando al romanzo; per sottrarsi all’inquinamento acustico di mamma, sorelle e fratello, sfrutta volentieri l’ospitalità di Morra e dei suoi amici, come lui aristocratici, colti e antifascisti. Sono i suoi cugini Carlo e Nello Rosselli ad averglielo presentato.
In tutto il mondo, pochi romanzi del Novecento hanno avuto una fulminea fortuna critica come quella arrisa a Gli indifferenti, uscito nel giugno del ’29: una trentina di recensioni in pochi mesi, tra cui quelle di G.A. Borgese e Pietro Pancrazi, critici «in grado di creare uno scrittore». Ora, a 22 anni, Alberto è una stella internazionale, conteso nei salotti e nelle ville di contesse e principesse (Pecci Blunt, Papafava, Benzoni, Caetani di Bassiano). In questo momento, inoltre, Morra lo presenta a Bernard Berenson, nella cui villa, I Tatti, Alberto si reca per leggergli a voce alta il suo romanzo. C’è chi lo considera ancora «un ragazzaccio maleducato attraversato da lampi di intelligenza», ma la stima e la benevolenza di Berenson gli aprono le porte di Bloomsbury, nel suo primo viaggio a Londra, dove, sotto la tutela dell’imponente Lady Ottoline Morrell, avrà l’occasione di incontrare Virginia Woolf, T.S. Eliot, E.M. Forster, i fratelli Huxley, D.H. Lawrence, Edith Wharton, Bertrand Russell… Lui serio, impettito, elegante «all’inglese», a volte irruento, in grado di parlare di tutto, da buon autodidatta. Da quando ha imparato a leggere, occupa le ore di solitudine, e la malattia gliene ha procurate parecchie, ai libri; il francese è la sua seconda lingua e se la cava anche con l’inglese e il tedesco; i russi li legge nelle traduzioni francesi, come I demoni di Dostoevskij, al quale l’ha iniziato Andrea Caffi, di vent’anni più anziano di lui, la figura più importante per la sua formazione, dopo Morra. Se Caffi, russo di formazione, socialista sfuggito al totalitarismo leninista, rifugiato brevemente in Italia, per cadere, dalla padella alla brace, nella dittatura mussoliniana, è il prototipo dell’intellettuale condannato all’esilio perenne, Moravia, pur alieno alla militanza politica («l’azione dell’intellettuale sta nel suo lavoro») dovrà, fin dalla pubblicazione degli Indifferenti, subire l’attenzione e l’ostracismo della censura fascista. Molte sue lettere sono recuperate dall’archivio dell’ex polizia politica, dove erano state, buon per noi, intercettate per una trascrizione, tutt’altro che impeccabile, dattilografata prima di recapitarle al destinatario.
Forse non è un caso che le lettere umanamente e intellettualmente più intense siano quelle destinate agli amici che vivono in esilio: oltre a Caffi, Nicola Chiaromonte, quasi coetaneo di Moravia: insieme si recano alle prestigiose decadi di Pontigny, nel ’34, per un convegno su l’Intolleranza, dove Alberto tiene il suo primo discorso in pubblico. Grazie a Moravia, poi, si instaura un sodalizio parigino tra Caffi e Chiaromonte, che, per intercessione di Camus, troverà per l’amico un provvidenziale impiego da Gallimard.
Ci sono lettere con amici scrittori e giornalisti (Alvaro, Malaparte, Vigolo, Bontempelli, Pannunzio, Pancrazi…) impegnati per lo più a sgattaiolare tra le trappole della censura per dar vita a riviste letterarie e giornali che nascono e talvolta muoiono nello spazio di un mattino. Intanto Moravia è ossessionato dall’ansia classica del «secondo libro» (Le ambizioni sbagliate) che nascerà male, e non solo per suo demerito, dopo sei tormentati anni di gestazione. Non sta mai fermo: quando non è in villeggiatura, mete preferite Capri e le Dolomiti, viaggia per lavoro, quando gli è consentito, inviato per giornali come «La Stampa», «La Gazzetta del Popolo» e «Il Corriere della Sera», dove il suo talento eccelle. Lui preferirebbe poter vivere da romanziere, ma questo potrà avvenire solo, a guerra finita, a partire da La romana (’47). Il suo cosmopolitismo, la sua più che evidente lontananza dalla mistica fascista, il cognome ebraico non gli rendono facile la vita. La sua narrativa, gli spiega Pancrazi è «troppo deprimente in un tempo in cui tutti sono energetici aerodinamici e propulsivi».
Le lettere d’amore, in particolare quelle in francese con la pittrice svizzera Lélo Fiaux, mi hanno evocato una conversazione estemporanea con Moravia, un pomeriggio in cui non c’era alcun film da vedere e siamo andati da Cenci a prenderci una giacca, nella quale mi confidava che i suoi rapporti con le donne avevano avuto una svolta positiva solo dopo i cinquant’anni. Qui ne ha ventidue quando incontra la piccola France, una minorenne graziosa e minuta, come «un personaggio di Watteau»: una passione furente, consumata in pochi giorni, al sole della Riviera. Alberto, che ha alle spalle esperienze poco gratificanti, per non dire di un’iniziazione postribolare, insegue France a Parigi per chiederla in sposa. La risposta di France è che la nonna, appartenente a una famiglia di alto lignaggio, non vuole. Forse vola un pugno nel costato della piccola France, o forse no. Passano poche settimane e, nell’ambito ormai familiare delle sue contesse, Alberto si innamora di Silvia Piccolomini, che per lui abbandona un fidanzato dell’aristocrazia romana, poi caduto nella guerra di Spagna. Nella faccenda sono coinvolti anche parenti e amici di famiglia, come Morra, a scongiurare un possibile duello. L’amore procede, ma Alberto avverte nell’enigmatica, e perciò intrigante, Silvia, come un oscuro ritegno, una qualche riserva; pensa che l’azione risolutiva sia chiederne la mano, e ne riceve un rifiuto. Anche qui la fama letteraria e il coinvolgimento dei sensi non hanno pareggiato lo stato sociale e patrimoniale e un cognome, in quel contesto, imbarazzante.
Le lettere a Lélo Fiaux ci raccontano una storia d’amore intensa quanto infelice, impossibile, e già consumata nel giro di sei mesi vissuti insieme a Roma nel ’34. Lettere postume quindi, tra rievocazione, nostalgia, rimpianto, rimostranze e la disponibilità mai sopita di ricominciare. Con Lélo non si rischiava di incorrere in un altro rifiuto di matrimonio, perché lei è già sposata con un americano, ma gira per Roma con un ragazzo, poi suicida, di cui Alberto diventa amico. In anticipo sui tempi, Lélo è una figlia dei fiori che pratica l’amore libero e fuma oppio; Alberto la attrae perché «è e ha qualcosa di diabolico», come traspare dai ritratti che gli fa, dipinti e fotografici. È Alberto stesso ad ammettere di non essere all’altezza delle sue aspettative, perché lei lo vorrebbe come amante a tempo pieno, mentre lui rivendica il proprio spazio di scrittore («il mio lavoro è stato il nemico del tuo amore»). Quando Lélo rimane incinta, decidono subito insieme per l’interruzione della gravidanza, il che appare ovvio, date le circostanze. È questa l’unica occasione che Moravia ha avuto di diventare padre. E come tale se la ricorderà, sempre.


Il Sole 24 Ore 15 Novembre 2015

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