Sandro Penna e Pier Paolo Pasolini |
Che paese meraviglioso
era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita
era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni
non è più cambiata: non dico i suoi valori — che sono una parola
troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire —
ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva
appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, che
tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non
sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della
novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città
e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai
mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni
economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità
preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli
sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le
città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o
palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna
folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano
le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi,
o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano
ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli
delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi. La gente
indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero
rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano
tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi
un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente,
benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni
dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola
che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio
c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non
volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale
splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una
tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un
mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne
erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da
giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro,
come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà
di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel
mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’
rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La
loro attesa era lunga quanto l’adolescenza — malgrado qualche
eccezione ch’era una meravigliosa colpa — ma essi sapevano
aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi
erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la
luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie
coi loro compagni.
Per quelle città dalla
forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in
gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi
erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità,
che restava miracolosamente sana malgrado la Repressione, faceva sì
che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere
neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza. Anche
i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano
mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le
leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con
leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto
contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il
bene, l’onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male,
che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non
aveva reale peso nella loro vita.
Ora che tutto è laido e
pervaso da un mostruoso senso di colpa — e i ragazzi brutti,
pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la
gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel
mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al
silenzio o all’adulazione — è nato uno scandaloso rimpianto;
quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra. I
delinquenti al potere — sia a Roma che nei municipi della grande
provincia campestre — non facevano parte della vita: il passato che
determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato
archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di
criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.
Nel libro Un po’ di
febbre di Sandro Penna (Garzanti, 1973), si rievoca questa
Italia. Il trauma è grande. Non si può non essere sconvolti.
Leggendo queste pagine prende un’emozione che fa tremare. E fa
venire anche una certa voglia di andarsene da questo mondo, con quei
ricordi. Infatti non è un cambiamento di epoca, che noi viviamo, ma
una tragedia. Ciò che ci sconvolge non è la difficoltà di
adattarsi a un nuovo tempo, ma un immedicabile dolore simile a quello
che dovevano provare le madri vedendo partire i loro figli emigranti
e sapendo che non li avrebbero visti mai più. La realtà lancia su
noi uno sguardo di vittoria, intollerabile: il verdetto è che ciò
che si è amato ci è tolto per sempre. Nel libro di Penna quel mondo
appare ancora in tutta la sua stabilità ed eternità, quando era
«il» mondo, e nulla avrebbe mai fatto sospettare che sarebbe
cambiato. Penna lo viveva avidamente e totalmente. Aveva capito che
era stupendo. Niente lo distrae da quella meravigliosa avventura che
si ripete ogni giorno: svegliarsi, andare fuori, prendere a caso un
tram, camminare a piedi là dove vive il popolo, fitto e chiassoso
nelle piazze, disperso e intento ai suoi quotidiani lavori nelle
lontane periferie lungo i campi; o col sole che tutto protegge con la
sua luce silenziosa, o sotto una sublime impalpabile pioggia
primaverile; o all’alitare del primo, esaltante buio di una lenta
sera; e infine incontrare — ché questa apparizione non manca mai —
un ragazzo amato subito per la innocente disposizione del suo cuore,
per l’abitudine a una obbedienza e a un rispetto non servili, per
una sua libertà dovuta alla sua grazia: per la sua rettitudine.
Sembra che mai Penna
potesse esser tradito nelle sue speranze di tali incontri, che davano
all’esistenza quotidiana, già per sé esaltante la miracolosa
gioia della rivelazione, ossia della ripetizione.
Nelle pagine di questi
suoi brevi racconti — scritti con una abilità narrativa che non ha
niente da invidiare al Bassani dell’Odore del fieno o al
Parise di Sillabario — e lo dico perché Penna narratore è
una novità e una sorpresa — è contenuta tutta la realtà di
quella forma di vita, in cui la gioia, promessa e ottenuta, era
diventata una forma ossessiva. Tanto che è difficile parlare di Un
po’ di febbre come di un libro: esso è un brano di tempo
ritrovato. È qualcosa di materiale. Un delicatissimo materiale fatto
di luoghi cittadini con asfalto e erba, intonaci di case povere,
interni coi modesti mobili, corpi di ragazzi coi loro casti vestiti,
occhi ardenti di purezza e innocente complicità. E com’è sublime
il completo, totale disinteresse di Penna per ciò che accadeva al di
fuori di questa esistenza tra il popolo. Niente è stato più
antifascista di questa esaltazione di Penna nell’Italia sotto il
fascismo, vista come un luogo di inenarrabile bellezza e bontà.
Penna ha ignorato la stupidità e la ferocia del fascismo: non l’ha
considerata esistente. Peggiore insulto non poteva — innocentemente
— inventare contro di esso. Ché Penna è crudele: non ha pietà
per ciò che minimamente non è investito dalla grazia della realtà,
figurarsi per ciò che n’è fuori o contro. La sua condanna — non
pronunciata — è assoluta, implacabile, senza appello.
Nella sua ristrettezza di motivi e di problemi, nel minimo spazio che si consente, questo libro in realtà è colmo di un sentimento immenso, straripante della vita. La gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente — anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore. Un poeta che può perdere il suo humour delizioso e disperato, lacerare i limiti della forma, espandersi nel cosmo, delirare (vedi pagg. 88, 89, 90). Il lettore mi scusi, se impostato così il discorso, non entro più criticamente nel merito del libro, analizzandolo letterariamente. Esso è fuori dalla letteratura, essendo qualcos’altro, ripeto, che un libro (o un libro unico). Non che io polemizzi contro la letteratura. Anzi la considero una grande invenzione e una grande occupazione dell’uomo. E Penna, a sua volta, è un grande letterato. Ma preferisco lasciare il mio referto sospeso sull’emozione che questo libro mi ha dato col semplice mezzo di una poeticità quasi ovvia (aggettivi proposti ai sostantivi, qualche inversione, esclusione di parole prosaiche, riadottate solo in qualche caso, per improvviso bisogno di realismo o espressionismo): esso lascia il lettore tutto piagato d’un bruciore di lacrime, benché non sia sentimentale mai, in nessun momento.
Nella sua ristrettezza di motivi e di problemi, nel minimo spazio che si consente, questo libro in realtà è colmo di un sentimento immenso, straripante della vita. La gioia vi è così grande da essere dolorosa. Un dolore sconfinato vi è a malapena contenuto come presentimento di perdere quella gioia. Questa illimitatezza sentimentale, fa intravedere in questo poeta, che (forse con Bertolucci) è realmente il più grande poeta italiano vivente — anche quel poeta che egli non è stato: un poeta al di fuori dei limiti che egli si è imposti con commovente e purissimo rigore. Un poeta che può perdere il suo humour delizioso e disperato, lacerare i limiti della forma, espandersi nel cosmo, delirare (vedi pagg. 88, 89, 90). Il lettore mi scusi, se impostato così il discorso, non entro più criticamente nel merito del libro, analizzandolo letterariamente. Esso è fuori dalla letteratura, essendo qualcos’altro, ripeto, che un libro (o un libro unico). Non che io polemizzi contro la letteratura. Anzi la considero una grande invenzione e una grande occupazione dell’uomo. E Penna, a sua volta, è un grande letterato. Ma preferisco lasciare il mio referto sospeso sull’emozione che questo libro mi ha dato col semplice mezzo di una poeticità quasi ovvia (aggettivi proposti ai sostantivi, qualche inversione, esclusione di parole prosaiche, riadottate solo in qualche caso, per improvviso bisogno di realismo o espressionismo): esso lascia il lettore tutto piagato d’un bruciore di lacrime, benché non sia sentimentale mai, in nessun momento.
da "Tempo", 10 giugno 1973, in Scritti corsari, Garzanti, 1975
Nessun commento:
Posta un commento