L'articolo che segue,
pubblicato oltre che su “il manifesto” anche sulla “Rivista di
diritto privato” risale a 6 anni fa, ma mi pare proponga una
tematica attualissima, che con serietà dovrebbe essere affrontata in
campagna elettorale e non certamente con la logica delle promesse e
delle mance, quanto con quella dell'affermazione e della
realizzazione progressiva di diritti universali. Le novità
costituzionali nel Sud del mondo a cui il mai abbastanza compianto
professor Rodotà allude riguardano soprattutto l'America Latina.
(S.L.L.)
«Droits des pauvres,
pauvres droits?». Queste parole, assai efficaci, indicano la chiave
con la quale alcune istituzioni francesi hanno condotto un’ampia
ricerca comparativa sulla situazione e le prospettive dei diritti
sociali (ricerche come questa sono divenute impensabili in Italia,
per i mezzi impiegati, per la possibilità di costituire un gruppo
che lavori nell’arco di anni e di sottoporre poi i risultati alla
valutazione di studiosi di paesi diversi...).
Parole eloquenti, nelle
quali non si riflette una qualche forzatura ideologica ma che danno
conto di un dato di realtà ormai indiscutibile - il ritomo della
povertà e il suo modo di influire sulla complessiva dinamica dei
diritti.
È vero che l’attenzione
per i problemi della povertà non era mai scomparsa anche nella
discussione giuridica, ma si era concentrata piuttosto sulle povertà
post-materiali, sulla postpovertà senza aggettivi (quanti sbrigativi
"post" hanno distorto l’analisi di fenomeni nuovi!),
sulla sottolineatura o sulla critica della poverty law
scholarship. Se era giusto mettere in evidenza che le povertà
non sono riducibili solo a carenze materiali, i tempi mutati
inducevano a scrivere, ad esempio, che «le nuove povertà
post-materiali (anziani soli, handicappati, tossicodipendenti,
depressi psichici) sono in crescita mentre calano quelle materiali»
(R. Spiazzi, Enciclopedia del pensiero sociale cristiano,
Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1992, p. 602), e quell’elenco
si allungava con riferimenti alla solitudine, alla mancanza di
relazioni sociali, alla perdita di senso, ai malati di Aids, alle
diverse forme di esclusione. Ma oggi quella conclusione non è
proponibile, perché sono proprio le povertà materiali ad essere
tornate alla ribalta.
I nostri, infatti, sono
pure i tempi della vita precaria della sopravvivenza difficile, del
lavoro introvabile, delle rinnovate forme di esclusione legate alla
condizione d’immigrato, all’etnia. Sono tornati i "poveri",
un mondo che sembrava scomparso grazie alla diffusione del benessere
materiale, o che almeno era confinato in aree sociali ristrettissime.
E con essi è tornato, drammatico e ineludibile, il problema di come
assicurare la tutela dei loro diritti primari - il lavoro, la salute,
la casa, l’istruzione. Con buone ragioni Marco Revelli ha potuto
dare a un suo bel libro il titolo "Poveri noi" (Einaudi,
Torino, 2010). Davvero poveri tutti: ovviamente quelli che vivono
concretamente la condizione della povertà ma anche quelli che
avvertono non solo il disagio personale, ma l'inaccettabilità
sociale di un mondo nel quale, attraverso la povertà, vengono negate
la dignità e l’umanità stessa delle persone. E proprio attraverso
questo dato di realtà possiamo comprendere meglio il significato
profondo delle parole che aprono la nostra Costituzione: «L’Italia
è una Repubblica democratica fondata sii lavoro». Quando il lavoro
non c’è, quando viene negato o sfigurato, è lo stesso fondamento
democratico di una società ad essere messo in pericolo.
Un'esistenza
dignitosa
La relazione tra
condizioni materiali e diritti della persona si radicalizza, cerca
nuove strade e strumenti giuridici adeguati. Compare sempre più
spesso il riferimento al «diritto di esistere» o «diritto
all’esistenza». Una formula a doppia faccia comprensiva e ambigua
con la quale si può rivendicare ima tutela integrale della persona,
ma che può pericolosamente virare verso provvedimenti che assicurino
solo un «minimo vitale» (cosa assai diversa lo dico per evitare
equivoci, dal tema della garanzia di un reddito di base, per il quale
si può vedere, per una prima informazione sullo stato della
discussione, "Basic Income Network, Reddito per tutti.
Un’utopia concreta per l’era globale", manifesto libri,
Roma 2009). Per analizzare un tema come questo non è sufficiente, e
può persino divenire distorcente, il criterio della comparazione tra
sistemi giuridici operanti in contesti socio-economici assai diversi.
Si sottolinea
abitualmente che l’assicurare un minimo vitale, il consentire il
raggiungimento di una soglia di sopravvivenza è sicuramente un fatto
positivo, là dove le condizioni materiali trascinano violentemente
le persone verso la povertà estrema, le espongono addirittura alla
morte per fame. Valutazione indubbiamente corretta, ma se si
esaminano le dinamiche attuali, si registra un singolare, e
rivelatore, scambio di ruoli.
Proprio nel mondo dove si
radica storicamente la maggiore povertà il diritto all’esistenza
viene concepito non solo come una urgente risposta istituzionale,
come un riscatto necessario, bensì anche come la via per arrivare
appunto alla piena tutela della persona. Nel mondo "avanzato”,
invece, si sta percorrendo il cammino inverso: la riduzione di
diritti e tutele spinge la garanzia giuridica verso il "grado
zero” dell’esistenza.
Ma - ci si è chiesti -
l’esistenza non è piuttosto un fatto naturale, biologico? Che cosa
vuol dire trasformarla in un diritto? Proviamo, allora a seguire le
indicazioni offerte proprio dai documenti giuridici, anche per
formulare un primo elenco delle questioni che devono accompagnare la
discussione. Il tema compare nel costituzionalismo del tempo
successivo alla Seconda guerra mondiale, con particolare nettezza
nell’articolo 36 della Costituzione italiana («un’esistenza
libera e dignitosa»), nell’articolo 23.3 della Dichiarazione
universale dei diritti dell’uomo dell’Onu («una esistenza
conforme alla dignità umana»), e viene ripreso dall’articolo 34.3
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
(«un’esistenza dignitosa»). Si tratta di norme che compaiono
tutte nell’ambito della disciplina del lavoro ma che, soprattutto
nel contesto italiano, investono la condizione umana nel suo
complesso. E che, in primo luogo, associano l’esistenza alla
dignità dando ad essa una qualificazione che non tanto ne
arricchisce il significato, quanto piuttosto la ancora ad un
principio che garantisce la sua irriducibilità a forme
incompatibili, appunto, con la dignità della persona (e con la sua
libertà com’è detto nella sempre lungimirante Costituzione
italiana).
E che non sia
minima
L’artificio del diritto
trasferisce così l’esistenza in una dimensione diversa dalla sua
definizione in termini di biologia o di natura. Questo non significa
separare l’esistenza dalle sue condizioni materiali. Vuol dire che
queste non ne esauriscono i caratteri e che, anzi, la materialità
dell’esistere esige che vengano presi in considerazione fattori che
riguardano la persona nel suo rapporto complessivo con gli altri e
con il mondo. Nel contesto italiano l’ostilità ad ogni
riduzionismo è resa esplicita dalle parole iniziali dell’articolo
3, dove la dignità compare per la prima volta come dignità
"sociale”, dunque non come una qualità innata della persona
ma come il risultato di una costruzione che muove dalla persona
prende in considerazione e integra relazioni personali e legami
sociali, impone la considerazione del contesto complessivo all’intemo
del quale l’esistenza si svolge. La necessità di andare oltre il
grado zero dell’esistenza è testimoniata da un esempio che
riguarda il cibo. Ad esso, che pure tocca ovviamente la stessa
sopravvivenza non si guarda più nella sola prospettiva della lotta
alla fame nel mondo. In un rapporto preparato per l’Onu, Jean
Ziegler ha sottolineato che le persone hanno diritto «ad una
alimentazione adeguata e sufficiente, corrispondente alle tradizioni
culturali del popolo al quale la persona appartiene e che assicuri
una esistenza piena e dignitosa libera dalla paura dal punto di vista
fisico e mentale, individuale e collettivo».
Prendere sul serio il
diritto all’esistenza dunque, impone di opporsi all’esistenza
"minima". Seguendo questa strada, molte sono le questioni
da esaminare. Porre al centro dell’attenzione i diritti sociali, in
primo luogo, e quindi affrontare il tema del superamento della loro
separazione dalle altre categorie o generazioni di diritti.
L’indivisibilità dei diritti è proclamata, fin dal suo Preambolo,
dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La
ragione di questa scelta è evidente: contestare, anche formalmente,
uno statuto teorico te, uno statuto teorico e una collocazione
operativa che hanno confinato i diritti sociali in una condizione di
minorità rispetto agli altri diritti, addirittura negando che nd
loro caso possa parlarsi in senso proprio di diritti. Ma questo
implica pure che la collocazione "orizzontale" dei diritti
sociali cancelli la possibilità di attribuire loro una tutela
rafforzata, quale risulta, ad esempio, dalla fondazione sul lavoro
della nostra Repubblica democratica? Ora a parte una discussione
sulle evidenze empiriche che militano a favore o contro
l’indivisibilità dei diritti, bisogna pur considerare il contesto
nel quale l’indivisibilità viene affermata E quello della Carta
dei diritti fondamentali deve essere ricostruito partendo
dall’affermazione iniziale secondo la quale l’Unione «pone la
persona al centro della sua azione»; dando la giusta rilevanza al
riferimento all’«esistenza dignitosa»; e, soprattutto,
considerando la nuova assiologia della Carta nella quale compaiono i
principi di dignità, eguaglianza e solidarietà, non contemplati dal
Trattato di Maastricht. Il rango e la tutela dei diritti sociali si
ricavano proprio da questa nuova sistematica, nella quale è
sicuramente rinvenibile la possibilità di attribuire ad essi forme
più intense di garanzia, preminenza nel bilandamento degli
interessi.
La dimensione
europea
L’emersione nella
dimensione europea del principio di solidarietà consente di porre
l’accento su un altro aspetto, rappresentato dalla rilevanza
dell’"obbligazione sociale". Sempre semplificando, questa
si esprime in molti modi, a cominciare da quello, storico, di
rispettare l’obbligo di pagare le tasse, che l’art.53 della
Costituzione qualifica come dovere di «concorrere alle spese
pubbliche». Ma la presenza di doveri sociali è specificata in modo
netto sia attraverso il generale principio di solidarietà sia
attraverso la relazione diretta tra retribuzione e dignità.
Nell’ultima fase, con particolare intensità abbiamo assistito alla
rottura di questo nesso, con un doppio effetto. Da una parte, la
misura della retribuzione viene svincolata dalla finalità ad essa
assegnata dall’art. 36 della Costituzione e riferita unicamente
alle compatibilità economiche d’impresa. Come conseguenza di
questa impostazione, si assiste poi a consultazioni referendarie
svolte in condizioni che incidono pesantemente sulla libertà del
lavoratore; e a previsioni contenute nella parte normativa dei
contratti che configurano un abbandono della sua dignità. L’art.
41, di cui non a caso si chiede la sostanziale cancellazione, viene
così del tutto ignorato proprio nei suoi riferimenti a libertà e
dignità che evidentemente non sono legati soltanto alla persona del
lavoratore.
La fuga dalla dignità
sta configurando una nuova categoria di "indegni”? La
motivazione tutta economica di questa fuga infatti, sta incidendo
pesantemente su tutta una serie di diritti fondamentali (lo documenta
uno studio dell’Agenzia europea per i diritti fondamentali del
dicembre
2010, intitolato appunto
Protecting fundamental rights during the economie crisis). Una
motivazione, peraltro, in troppi casi invocata per liberarsi
puramente e semplicemente dal "peso" dei diritti,
sciogliendo il mercato da ogni vincolo sodale.
Un nuovo
costituzionalismo
Si torna così al diritto
all’esistenza attraverso il suo collegamento inscindibile con i
diritti fondamentali. Sta diventando sempre più evidente che la loro
tutela complessiva non può essere riguardata solo dal punto delle
politiche redistributive. L’effettività dei diritti implica una
considerazione rinnovata del rapporto tra il mondo delle persone e il
mondo dei beni, che la dialettica nota soggetto/oggetto non è più
in grado di comprendere. Se l’astrazione del soggetto si scioglie
nella materialità della vita delle persone, diviene necessaria una
nuova tassonomia dei beni misurata appunto sui diritti fondamentali e
su una effettività di questi realizzata attraverso una relazione più
diretta tra persone e beni, non mediata esclusivamente dalla logica
proprietaria privata o pubblica che sia. È qui la radice
dell’attenzione rinnovata e davvero globale, per i beni comuni,
intorno ai quali si sta costruendo un «costituzionalismo della vita
materiale o dei bisogni», concretamente rinvenibile nelle
costituzioni, in molteplici atti normativi, in decisioni sempre più
incisive di corti supreme di quello che un tempo era definito il"Sud
del mondo" e che oggi sta accompagnando l’imponente progresso
economico con una inventiva istituzionale che merita una attenzione
partecipe. E questo impone a tutti gli studiosi del diritto
ripensamenti intorno alle stesse loro categorie fondative.
"il manifesto", 11 febbraio 2012
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