9.2.18

Ma il feudalesimo va riabilitato (?). Un intervento di Giuseppe Sergi

Una polemica storiografica è in corso contro l'uso corrente del termine “feudalesimo” e contro il valore negativo attribuito a questa parola. Ne è esempio l'articolo che segue, di Giuseppe Sergi, il cui titolo originario non ha punto interrogativo e che – grosso modo – distingue tra il feudalesimo “vero” dell'età carolingia e le successive declinazioni, ove la delega formale di re, papi, principi e comuni, sempre più nasconde una signoria territoriale il cui detentore non è in realtà vassallo di nessuno. L'autore sembra preferire il modello originario in cui il sovrano distribuiva – a suo dire – ricchezza e non autorità pubblica. E tuttavia questa idea di un capo che “compra” la fedeltà dei propri vassalli, concentrando in sé tutto il potere politico a me non garba punto; mi ricorda il tipo di leaderismo che vige attualmente in Italia, dove tanti parlamentari, scelti per la loro cieca obbedienza al capo, non hanno alcuna dignità e alcun peso nelle decisioni, ma in compenso “ricavano cospicui introiti che 'stipendiano' il loro servizio armato”. (S.L.L.)
Carlo Magno
Come si definisce un ambito di potere arbitrario e senza limiti su poveri sudditi che non hanno nessuno a cui chiedere giustizia? Feudo. Ma feudo si dice anche di una zona in cui un orientamento vasto e diffuso si manifesta con particolare compattezza: la Romagna «feudo juventino» o la Rai degli anni Cinquanta «feudo democristiano». Come si definisce un signore locale avvezzo a ogni tipo di abuso? Feudatario. Ma feudatario si dice anche di un fedele che deve la sua influenza a qualcuno che gliel'ha delegata dall’alto. Ciò che nel linguaggio corrente accomuna questi elementi contraddittori è la negatività.
Uno storico di meta Novecento, Robert Boutruche, osservava che anche il «linguaggio dotto» è «incline a definire con questa parola ogni cedimento dell’autorità pubblica» sottolineando come sia sempre spontaneo collegare l’idea di feudalesimo a «spezzettamento dell’autorità, torbidi interni, scatenamento degli interessi privati... azione brutale e forza oppressiva». E un medievista notissimo, Georges Duby, affermava che «l’uso del contratto vassallatico e del feudo non fu mai altro che una copertura superficiale delle strutture vive dei rapporti sociali». Entrambi gli storici erano ispirati dal loro maestro Marc Bloch, la cui influenza sulla cultura comune è ancora oggi molto inferiore alla sua fama.
La nozione tutta negativa di feudalesimo è in gran parte dovuta all’equazione feudalesimo uguale Medioevo, suggerita su «la Lettura» del 4 giugno da Amedeo Feniello, nella sua proposta di abolire la «costruzione ideologica» del Medioevo come «orrido buco nero su cui pesano disprezzo e condanna». Ma c’è altro. Ci sono anche idee confuse sullo specifico feudale: la parola feudalesimo, con il suo fortunato esotismo terminologico, ha vinto sulla sostanza. La sostanza non è certo da esaltare, ma non merita di essere perennemente evocata come contenitore di ogni male.
A godere di buona stampa è l’impero di Carlo Magno, con un governo di ispirazione statale e funzionari regionali (i conti) che lo rappresentavano. Eppure in quella parvenza di ordine (l’ordine è sempre giudicato positivamente) il feudalesimo c’era: molti vassalli del re non erano conti, erano più numerosi dei funzionari, avevano compiti militari compensati da benefici in terre (feudi, appunto), terre su cui i vassalli non avevano potere ma da cui ricavavano introiti che «stipendiavano» il loro servizio armato.
Due reti di controllo della società si intrecciavano e si integravano: al modello statale romano si ispirava la rete funzionariale; al modello seminomadico delle tribù barbariche si ispirava la rete vassallatica. L’incontro fra i due modelli assicurava nuova efficienza. Prima un capo tribale sapeva su chi comandava, non entro quali confini: l’idea di potere era personale, non territorializzata, dato che gli insediamenti erano labili e provvisori. La stanzialità si era affermata da oltre due secoli: ma perché i Franchi (un popolo-esercito tenuto insieme da rapporti personali) fossero adeguati a una ambiziosa costruzione statale, i rapporti di fedeltà personale dovevano aiutare i funzionamenti complessivi.
Si è detto che molti vassalli non erano conti, aggiungiamo che non erano neppure ufficiali minori. Inoltre vari personaggi ricchi e potenti (laici, ma anche vescovi e abati) avevano loro clientele vassallatiche. Questi altri potenti (seniores), che concedevano feudi, nella maggior parte dei casi non erano vassalli del re: ecco perché è da cancellare l'immagine scolastica della «piramide feudale». Altra osservazione su cui insistere: i vassalli non comandavano sulle loro pur redditizie terre feudali. Quindi i rapporti vassallatico-beneficiari creavano legami di solidarietà e parentele artificiali, non costruivano gerarchie politiche e soprattutto non distribuivano potere: è questo il feudalesimo delle origini, ben diverso dalle maldicenze da cui siamo partiti.
La fine dell’età carolingia ingigantisce poi gli equivoci. Gli storici di un passato lontano (e la cultura corrente ancora oggi), osservando intorno all’anno Mille i poteri locali, piccoli e privati, ne hanno trovato un responsabile: il feudo. Se un signore e la sua famiglia esercitavano potere incondizionato intorno al loro castello doveva esserci una sola spiegazione: avevano ricevuto castello e potere in beneflcio, dal re o da un grande vassallo del re, che aveva perso sia il monopolio politico sia il controllo dei suoi fedeli. Non è stato così. L’ereditarietà dei feudi, avviata da una legge dell’877 e sancita da un’altra del 1037, è ereditarietà di ricchezza, non di potere.
Se le campagne europee dei secoli X-XIII sono frazionate in un mosaico a tessere minute, i protagonisti non sono feudatari, ma altri: signori territoriali che, con la loro spontanea intraprendenza, si erano arricchiti di terre, le avevano fortificate o si erano impadroniti di castelli pubblici, si erano muniti di masnade. Questi signori (dòmini, nelle fonti del tempo) avevano sudditi con ben pochi strumenti per contestare le tasse che dovevano pagare, le prestazioni a cui erano tenuti, i tribunali signorili a cui erano convocati. Inoltre i sudditi non erano soltanto i coltivatori delle frazionate terre del signore, ma tutti gli abitanti di una compatta area egemonica, quindi anche piccoli possessori: la ricchezza fondiaria agevolava il potenziamento signorile, ma possesso e potere non coincidevano, il dominus non era un latifondista che aveva anche autorità politica sui suoi contadini. Quest’ultima è invece l’idea normale che si ha del potente medievale, per di più definito «feudatario», con l'aggiunta di errore ad altro errore.
Il cambiamento, anche se soprattutto di facciata, avvenne fra i secoli XII e XIII. I re in Francia, i prìncipi territoriali in Germania, i Comuni in Italia avviarono processi di ricomposizione politica, ma sul piano concreto potevano alterare poco il frazionamento. Si sviluppò l’attività dei
giuristi (in quel periodo diedero sistematicità alla raccolta definita Libri feudorum), che considerava legittima solo la trasmissione feudale del potere, quella che nel cuore dell’Europa fino a quel momento non c’era stata e si era realizzata solo nei regni normanni d’Inghilterra e del Mezzogiorno italiano e nei principati franco-latini d’Oriente nati dalle Crociate.
Le autonomie (anzi le vere e proprie indipendenze) dei signori cambiarono di poco, ma — poiché le comunità contadine erano divenute più consapevoli e si ribellavano — cominciarono a essere considerate anomale. Non se ne mutarono i funzionamenti interni, ma si ritenne ammissibile la loro esistenza solo se i poteri risultavano delegati dall’alto: nuovi feudi, dunque, ma questa volta con contenuti di governo (feudi «nobili» o «di signoria»). Per costruire una parvenza di ordinamento coerente, i giuristi suggerivano a re, prìncipi e Comuni di accontentarsi di riconoscimenti formali. Questi seniores dotati di carisma pubblico ricevevano in dono da signori locali possessi privati e subito ne reinvestivano feudalmente gli stessi nuovi vassalli, arricchendoli di autorità: i dòmini (adesso, sì, feudatari), ormai sicuri dell’ereditarietà del feudo, erano legittimati dall’investitura. È una procedura razionalizzante, nota come fief de reprise o feudo «oblato».
Uno dei monumenti iniziali di tale feudalizzazione formale e tardiva fu l'accordo raggiunto fra l’imperatore Federico Barbarossa e i Comuni della Lega Lombarda, sul finire del secolo XII: i Comuni mantennero la riscossione consuetudinaria delle imposte, ma a patto di riconoscersi vassalli collettivi dell’imperatore. Il Trecento e il Quattrocento appaiono integralmente feudalizzati a posteriori, dopo il generale frazionamento signorile dei secoli precedenti. Ma si può capire l’abitudine a immaginare gran parte del Medioevo come simile alla sua parte finale. E una deformazione prospettica tipica della conoscenza umana nei rapporti con la storia: si vede meglio la realtà più recente, e si interpreta il «prima» alla luce dei suoi esiti. La formazione dei poteri medievali non era stata feudale, ma l’età moderna aveva ereditato una cornice feudale.


La lettura – Corriere della sera, 23 luglio 2017

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