3.2.18

Er Pecetto. Poesie e pensieri per Pasolini di un ragazzo di vita, oggi pittore e poeta (Aldo Colonna)

«Erano più di una cinquantina, e invasero il piccolo spiazzo d'erba sporca intorno al trampolino: per primo partì il Monnezza, biondo come la paglia e pieno di cigolini rossi, e fece un carpio con le sette bellezze: gli andarono dietro Remo, lo Spudorato, il Pecetto,il Ciccione...» questo il modo in cui Pasolini in Ragazzi di vita introduce Pecetto, un border-line che ne diverrà negli anni a venire,
inaspettatamente, una sorta di aedo omerico. 'Pecetto' perché il padre faceva il calzolaio ed usava la pece per impastare e fissare le suole allo spago. E prima di tornare alla vita civile a fare er carzolaro era finito al confino a Ventotene insieme a Sandro Pertini per antifascismo. In verità Silvio Parrello - queste le coordinate anagrafiche al riparo del nick-name - è appartenuto a una fauna mista di viventi separat da una linea di confine che divide da sempre i sommersi e i salvati. Per motivi che neanche la sociologia qualche volta riesce a spiegare data un'adolescenza vissuta nella banlieue in una promiscuità molto poco letteraria e in contiguità con una fauna disancorata dalla mensa dell'acculturazione e da un progetto di vita basato sulle regole, Pecetto si è ritrovato dalla parte dei 'salvati'. Perché Monteverde, attraversata dalla malinconia della lettera P, ha allevato molti figli: da una parte i Pinna,i Proietti, i Pelosi, i Placidi, l'anima nera del territorio dall'altra Pecetto appunto e, perché no?, un artista come Dino Pedriali, allievo di Man Ray ed accolito di Andy Wharol, quello stesso Pedriali che aveva immortalato il poeta nella sua casa di Chia e di cui rese testimonianza un libro fotografico ormai introvabile.
Un'opera di Silvio Parrello
Pecetto scopre presto la pittura ed è la cosa di cui si è meno parlato di lui, un'attitudine innata soprattutto se si pensa ad un apprendistato assolutamente autodidattico. La sua pittura prende le mosse dai macchiaioli per approdare, attraverso Rousseau Il Doganiere e Kandinskij, a Marc Chagall. Di Chagall ha il passo gioioso e leggero di una umanità in fuga da un contesto prosaico, quasi un anelito, da una marrana che in tempi eroici aveva costituito il fondale di una rappresentazione dove aveva fatto irruzione la tragedia e la perdita dell'innocenza, per questo virato in suggestioni oniriche che restituissero lo scempio di un progrom cosacco o, nello specifico, l'alienazione delle realtà periferiche. Eppure, se non si vorrà prescindere dalla sua essenza autoriale, dalla sua individualità, dovremo prima o poi separarlo - foss'anche per un attimo - dal mondo pasoliniano che lo ha espresso e ricordarci di lui come un pittore di talento, un pictor maximus che ha attinto alle corde e ai chiaroscuri di un tessuto urbano degradato per librarsi in voli pindarici ma che gli consentono la leggerezza di una gazza. Dovremmo, prima o poi, riportarlo alla sua reale dimensione che non è quella, necessariamente, di poeta cieco, ma piuttosto di un amanuense alla corte dei Medici.
Pecetto è, anche, un poeta, un poeta che usa quartine baciate, con invadente e progressiva naïveté dove l'oggetto del suo interesse è sempre il suo famoso mentore che frequentò per anni prima che quello assurgesse ad una notorietà planetaria. Ossessivamente il verso inciampa sulla notte di novembre di 40 anni fa, sui sicari, sui complici istituzionali, sul degrado dei Servizi che invece di proteggere la società civile le remano contro per favorire l'insediamento di uno Stato parallelo. Forse i suoi versi più disarmanti sono quelli più lontani dall'esperienza letteraria, quelli che guardano ad una sorta di ideale Timbouctou ora rasa al suolo dal cemento: «La nizza i carrettini/la scuola crollata/il bagno giù ai piloni/è storia ormai passata».
Esce oggi, per i tipi di Art e Muse, David and Matthaus Edizioni, Poesie e pensieri per Pasolini, un libro definito erroneamente 'saggio', ma piuttosto una miscellanea di scritti che spaziano dal ricordo personale alla poesia, fino ad arrivare all'invettiva sotto forma di denuncia frutto di una sua personalissima indagine durata anni e nella quale dipana in modo icastico una matassa ingarbugliata dalla Ragion di Stato. Perché, come dice sempre con cantilenante esternazione, «la verità non sta nelle aule dei Tribunali ma va ricercata nelle patrie galere». Sono decine le figure che si sono avvicendate nel suo studio di via Ozanam, spesso amici, agenti altre volte che lo tenevano sotto controllo per indagare se lui sapesse i 'nomi' disperando che poi li facesse. Perché il suo piccolo studio da bohème è stato fatto segno di ladri comuni e arcigni doppiopetti che lanciavano di tanto in tanto un input, ogni volta una sorta di memento mori a prescindere solo nel caso che. Sono lontane le nuotate nel Tevere allorché a bracciate larghe Pecetto tagliava il fiume in diagonale, controcorrente, affiancato da Pier Paolo per andare a rubare l'uva sull'altra sponda, quella sotto la Basilica di San Paolo.
Ci sono, immortalate nel libro, gesta epiche che ci ricordano Zampanò, come quella di Pasolini che solleva una mucca: «Una mucca sollevata/sul monte di Splendore/una forza smisurata/forse più di un lottatore». E qui si fa fatica a separare l'epica e il sogno dalla realtà. Ma, d'altronde, le gesta di Ulisse non costituiscono forse un impiantito fantastico che introduce alla decodificazione di una realtà altrimenti non decrittabile?
La memoria di Pecetto è portentosa e lo porta a declamare pressoché l'intera opera poetica del suo Maestro che recita con enfasi e compartecipazione. E in questo ci ricorda Cicciu Busacca, il cantastorie che ci racconta, solo per fare un esempio, la storia di Salvatore Giuliano con strumenti più immediati del saggio politico esponendosi più apertamente alle rimostranze e alla minaccia. Come un battitore libero, senza più paura né speranze. Il suo studio diventa così una sorta di sancta sanctorum dove tutto comincia e tutto si ricompone, una sorta - questa sì - di memento mori al contrario dove è lui a sfidare il Potere, a dire 'io so' pur non sapendo i nomi. Estemporaneamente anche Pelosi gli fa visita in un tentativo fuori tempo massimo di chiedere ed ottenere un improbabile perdono, come fa recandosi al tempio colui che cerca di mondare i propri peccati. Fatto sta che questo personaggio atipico, fuori dalle regole e assolutamente non irreggimentabile rimane oggi una sorta di baluardo, molto meglio di quei magistrati che si aggirano come lemuri, da anni, intorno a un caso che NON deve essere risolto. Ma è questo l'atout maggiore del Potere: far divertire i cantastorie che girino per i paesi giocando all'invettiva e sopprimerli poi quando scoprono sicari e mandanti. Proprio come è successo a Peppino Impastato. Il tema dell'oblio è il preferito dal Potere.
Quando la Giustizia non può o non deve fare il suo corso i lunghi anni trascorsi concorrono ad avvelenare i pozzi, a rendere i contorni di un avvenimento sbiaditi, a rendere l'oggettività di un avvenimento delittuoso incoltivabile. Pecetto si oppone a tutto questo, è il baluardo che con accenti accorati ancorché inespressi, con la passione estrema per la denuncia civile si oppone alla palude che avanza. E, accorato, è come se capisse che il suo tempo è scaduto, interrogandosi su chi potrà raccogliere il testimone che registri lo scempio e l'imbarbarimento: «Quel che furono bambini/ora è gente tramontata/i famosi grattacieli/sembran favola inventata».

alias - il manifesto, 25 lugliuo 2015

Nessun commento:

Posta un commento