È il 12 marzo del 1938.
Sono passate da poco le otto di sera. Il dottor Kurt Schuschnigg,
cancelliere federale della Repubblica austriaca, sta per lasciare per
sempre il palazzo sede del governo, al numero 2 della storica
Ballhausplatz. Le stanze sono vuote e buie, ma nelle finestre della
Sala delle Colonne, quella in cui si riuniva il Consiglio dei
ministri, brilla il riverbero della festa che ha riversato migliaia
di viennesi sulla Hofburg. L’Austria finisce. Sotto il grande
ritratto di Francesco Giuseppe, Schuschnigg scorge nella penombra un
gruppo di persone, armate e in borghese. Sono tedeschi, ma non sono
soldati: sono agenti della Gestapo.
L’invasione sarà
domani, ma l’Austria è finita stasera. Schuschnigg viene portato
via, passerà sette anni tra Buchenwald e Dachau. Poco dopo il
presidente della Repubblica Wilhelm Miklas, per evitare un massacro,
cederà all’ultimo ricatto e nominerà il fedelissimo e fanatico
Arthur Seyss-Inquart, che già era stato imposto al ministero
dell’Interno, a capo di quella che diventerà la Marca Orientale
del Terzo Reich. Hitler entrerà da trionfatore nella «sua» Linz e
poi terrà un memorabile discorso sulla Hofburg gremita di austriaci
in delirio. Il referendum per sancire l’Anschluss, l’annessione,
sarà un plebiscito e per sette anni la Oestermark fornirà al Reich
di cui è parte soldati, poliziotti, funzionari pubblici. E
torturatori, e boia nei campi di sterminio.
La ricostruzione di
quella sera alla Ballhaus è il racconto della Grande Contraddizione
che l’Austria del dopoguerra non è riuscita ancora, dopo
settant’anni, a scrollarsi di dosso. Si sa: per motivi che avevano
molto a che fare con i delicatissimi equilibri della guerra fredda e
molto poco con la realtà dei fatti, le grandi potenze inscenarono
negli anni 40 e 50 la farsa dell’Austria «aggredita» e
«soggiogata» dal potente vicino del nord, rimuovendo ogni
considerazione sui fattori endogeni che avevano portato
spontaneamente una buona parte dell’opinione austriaca dalla parte
del «connazionale» Hitler e della sua corte feroce. Solo da qualche
anno la parte più consapevole dell’intelligencija ha cominciato a
valutare i danni che questo imbroglio storico fondato su una
(comprensibile e per certi versi perfino ragionevole) manifestazione
di Realpolitik ha prodotto nello spirito pubblico austriaco: a
cominciare dalla mancanza di un dibattito critico «sulle colpe dei
padri» come quello che, con tutte le debolezze e tutte le
contraddizioni, ebbe luogo in Germania almeno dai processi di
Auschwitz dell’inizio degli anni Sessanta in poi.
La storia non torna mai
indietro e non avrebbe alcun senso ripercorrerla alla ricerca delle
colpe per omissione dell’establishment politico (e più ancora
culturale) in materia di riflessione sulle responsabilità che gli
austriaci ebbero nella Shoah e nel grande massacro della guerra
mondiale. Quello che però si può fare, e che secondo molti
l’opinione austriaca non ha mai fatto abbastanza, è indagare sul
perché e sul come la giovane Repubblica alpina ritagliata dentro i
confini etnici tedeschi dall’impero multinazionale absburgico
cedette alle pressioni del regime ultranazionalista e ferocemente
antislavo del grande vicino del nord contro gli interessi e contro
l’opinione che (almeno nell’establishment) era, anche dopo la
reductio, largamente contraria in Austria all’ipotesi
grossdeutsch, ovvero all’unificazione di tutte le nazioni
europee etnicamente tedesche.
La ricostruzione accurata
degli eventi che portarono all’Anschluss, resa possibile
soprattutto dai verbali del Processo di Norimberga (e in particolare
dagli interrogatori di Göring, dell’ex ministro degli Esteri
Joachim von Ribbentrop, di Seyss-Inquart, del Capo di Stato Maggiore
Alfred Jodl e del comandante generale della Wehrmacht Wilhelm
Keitel), offre alcuni spunti importanti di riflessione.
Il primo è la durezza
con la quale furono trattati Schuschnigg e il suo ministro degli
Esteri Guido Schmidt nell’incontro all’Obersalzberg dove Hitler
li aveva convocati l’11 febbraio. Le testimonianze rese a
Norimberga da Keitel e Ribbentrop fanno pensare a vere e proprie
torture psicologiche, come per esempio il divieto di fumare imposto
al cancelliere, affetto da un tabagismo che lo portava a consumare 50
o 60 sigarette al giorno; oppure le «sceneggiate» con cui Hitler
faceva credere che l’invasione dell’Austria fosse già in atto e
che Schuschnigg e Schmidt sarebbero stati arrestati, se non fucilati
sul posto. Ma se alla fine il cancelliere cedette e firmò un
documento in cui per gli assassini del suo predecessore Engelbert
Dollfuß (ucciso nel luglio del ‘34 durante un tentativo di putsch
nazista) era prevista non solo l’amnistia ma l’arruolamento nella
polizia austriaca, fu anche perché la situazione politica del regime
era molto debole.
La dittatura
clerico-fascista, antioperaia e antisemita, che era stata instaurata
da Dollfuß aveva distrutto le organizzazioni della sinistra e i
sindacati, ma aveva affondato il regime in una situazione di
crescente isolamento, con la borghesia che era affascinata dai
successi economici del Reich, il mondo intellettuale e scientifico
che soffriva sotto il giogo asfittico d’una chiesa cattolica la
quale, pur se inquieta per la presenza evangelica nel vicino Reich,
sentiva fortemente il richiamo di Roma e della vicina Baviera alla
crociata antibolscevica.
Una sola certezza aveva
avuto, fino a un certo momento, il regime fascista austriaco:
l’appoggio dell’Italia. Era stato Mussolini che, schierando le
truppe al confine, aveva fatto fallire il putsch del ’34. E, come
risulta dagli atti di Norimberga, nella fatidica notte del 12
dicembre fu solo alle 22 e 45, quando l’ambasciatore tedesco a
Roma, il principe Filippo d’Assia, riferì a Hitler
sull’atteggiamento del Duce, che si ebbe la certezza della riuscita
del colpo di Stato. «Arrivo ora da Palazzo Venezia», telefonò
l’ambasciatore al Führer: «Il Duce ha preso la cosa in modo molto
amichevole e mi incarica di salutarla di cuore». «Non lo
dimenticherò mai», disse Hitler, e le stesse parole le indirizzò
direttamente, il giorno dopo, in un messaggio «all’amico Benito».
La ricostruzione
effettuata a Norimberga, dove l’Anschluss ebbe notevole spazio
nella discussione perché fu individuato, giustamente, come una delle
violazioni del diritto internazionale che avrebbero portato alla
guerra, permette di fissare tre punti dai quali la cultura della
Repubblica, ma più ancora il suo spirito pubblico, dovrebbe trovare
forse più motivi di riflessione sulla sua propria storia. Il
tradimento di Mussolini ebbe conseguenze nefaste perché avvenne ai
danni di un regime che era già intrinsecamente debole. La debolezza
del regime diede mano libera ai dirigenti nazisti: se Schuschnigg e
il pur coraggioso Miklas non fossero stati considerati nelle
cancellerie europee già cadaveri politici, forse le potenze
occidentali avrebbero trovato più motivi a sostenere l’indipendenza
dell’Austria di quanti non ne avrebbero trovati, sei mesi dopo a
Monaco, per difendere l’indipendenza della Cecoslovacchia. La
storia non si fa con i «se», ma ragionarci intorno è possibile e,
spesso, necessario. Forse l’Austria, a settant’anni
dall’Anschluss, dovrebbe esserne più consapevole.
“l’Unità” 9
febbraio 2008
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