Tossaint L'Ouverture |
Pagine rigorose e
avvincenti per ricostruire la rivoluzione antischiavista che portò
alla cacciata dei francesi e alla fondazione della Repubblica di
Haiti. Un grande sommovimento sociale che dai Caraibi si diffuse
negli Usa, cambiando la storia mondiale. Per poi essere rimosso dalla
storia dei vincitori.
Ci sono libri che
spostano radicalmente l'idea occidentale della storia, l'immagine che
l'Occidente ha di sé, che mettono il margine e la periferia al
centro, in maniera talmente radicale che la nostra cultura fa
praticamente finta che non esistano. Due di questi libri uscirono sul
finire degli anni '30: Black Reconstruction in America di W.
E. B. Du Bois, e The Black Jacobins. Toussaint L'Ouverture and the
San Domingo Revolution di C.L.R. James.
I loro autori sono due
giganti del ventesimo secolo, ma per la maggior parte dei nostri
storici e politologi potrebbero anche non esistere. E forse non
esistono veramente: dopo tutto, non erano neanche bianchi, e per di
più - ciascuno a modo suo e in tempi diversi - sono stati tutti e
due comunisti e partecipi con un altro comunista, George Padmore
(già:«chi era costui?»), delle origini del movimento panafricano e
anticolonialista.
In Black
Reconstruction, tuttora mai tradotto in italiano (ne tratta una
piccola e preziosa monografia di Lauso Zagato, che risale al 1975),
W. E. B. DuBois spazzava via la versione etnocentrica della guerra
civile americana: lungi dall'essere passivamente liberati dalla
benevolenza di Lincoln e del Nord, gli afroamericani hanno avuto un
ruolo decisivo nella propria liberazione e nell'esito della guerra. È
stato quello che DuBois chiamava lo «sciopero generale» degli
schiavi, la loro fuga in massa verso le file dei soldati nordisti, a
far crollare l'apparato produttivo del Sud ribelle e decidere una
guerra che il Nord non riusciva a vincere. Gli schiavi, gli
afroamericani, insomma, non sono stati oggetto di una storia
monopolizzata dai bianchi e dalle classi dominanti, ma protagonisti
della propria liberazione e, con essa, della storia intera.
Il vento della
libertà
Tre anni dopo, C. L. R.
James fa un passo avanti: è la storia intera del nostro mondo che
ruota attorno alle vicende di un'isola caraibica, Santo Domingo, e al
protagonismo degli schiavi che conquistarono la libertà e fondarono
la prima repubblica africana, Haiti. I giacobini neri era già
uscito molti anni fa, e ritorna oggi nella traduzione di Raffaele
Petrilli rivista e adattata da Filippo Del Lucchese, con introduzione
di Sandro Chignola e una postfazione dello scrittore americano
Madison Smartt Bell (Derive Approdi, pp. 363, euro 25).
Sul finire del '700,
spiega James, Santo Domingo era la «più bella colonia del mondo»
e, per questo, un inferno di orrore schiavista. Grande quasi quanto
l'Irlanda, divisa fra la Francia e la Spagna, Santo Domingo stava
all'economia settecentesca dello zucchero e del cotone un po' come il
Bahrein e il Kuwait stanno a quella novecentesca del petrolio: una
fonte apparentemente inesauribile di ricchezza, estratta con
brutalità assoluta tanto nei confronti della terra quanto nei
confronti di quella merce umana importata dall'Africa talmente a buon
mercato che era più conveniente ammazzare uno schiavo irrispettoso e
comprarne un altro che adattarsi a tollerarlo. Ma anche su questa
isola spira sul volgere del secolo il vento della libertà e della
rivoluzione. Gli Stati Uniti hanno appena conquistato l'indipendenza;
e la madrepatria francese è nel pieno della sua grande rivoluzione.
James segue con minuzia rabbiosa gli andirivieni, le contraddizioni,
le discussioni di una Francia rivoluzionaria dove la borghesia
rivendica la libertà, le masse proletarie parigine spingono per
l'uguaglianza, e la questione della schiavitù è la cartina di
tornasole su cui si misura la verità della rivoluzione. Dopo tutto,
le navi cariche di schiavi all'andata e di zucchero al ritorno sono
di proprietà dei grandi borghesi rivoluzionari di Nantes; e persino
i bianchi e mulatti schiavisti di Santo Domingo si identificano con
la repubblica. Ma i veri «giacobini», suggerisce James, non stanno
a Parigi, ma nelle piantagioni e nelle montagne di Haiti. Qui, come
più tardi in Virginia e in Georgia, saranno proprio gli schiavi -
analfabeti, appena arrivati dall'Africa, trattati da subumani e
semiselvaggi - a incarnare, a portare fino in fondo e a rendere
possibili quei valori di libertà che i loro padroni rivendicano per
sé fingendo di ritenerli universali (subito dopo la dichiarazione
d'indipendenza, in cui Thomas Jefferson e i coloni americani
proclamavano che «tutti gli uomini sono creati uguali», furono
inondati di lettere e petizioni dei loro schiavi e dei neri liberi
che dicevano, in sostanza: benissimo, d'accordo, quando si comincia?
Naturalmente, ci volle una guerra, e non bastò nemmeno).
C.L.R. James racconta una
storia complicata, spesso confusa, di alleanze e rotture, tanto fra
bianchi, mulatti e neri a Santo Domingo quanto fra le diverse anime
di classe della rivoluzione in Francia (con in mezzo i tentativi
dell'Inghilterra, patria della libertà, di inserirsi e mettere le
mani sulla più ricca colonia del mondo). È una guerra senza
esclusione di colpi, di massacri e tradimenti da tutte le parti,
durata dodici anni finché ogni compromesso è spazzato via e ai neri
ribelli non resta altra scelta che l'indipendenza e la repubblica.Un
immenso sommovimentoAl centro dell'analisi di James sta una difficile
relazione: da un lato, i fattori di classe, trattati con rigore
marxiano d'altri tempi, ma tuttora sostanzialmente persuasivi nel
disegno generale; dall'altro, una personalità eccezionale, Toussaint
L'Ouverture, un altro di quei grandi protagonisti della storia umana
di cui la nostra cultura finge di ignorare l'esistenza.Anche per
questo, avrei preferito che invece del sottotitolo che gli è stato
dato nell'edizione italiana La prima rivolta contro l'uomo bianco
fosse stato mantenuto quello originale: Toussaint L'Ouverture e la
rivoluzione di Santo Domingo. Un po' perché questa rivoluzione ha
cercato fino all'ultimo di non avere come antagonista «l'uomo
bianco» (ce n'erano diversi fra i consiglieri e gli aiutanti di
Toussaint) ma un'istituzione e un rapporto di classe: la schiavitù.
Soprattutto, perché il nodo problematico su cui James insiste è
proprio quello del rapporto fra il singolo «grande uomo» Toussaint
e un immenso sommovimento sociale collettivo, una grande vicenda di
masse. «Non fu Toussaint a fare la rivoluzione - scrive infine James
-, ma la rivoluzione a fare Toussaint»; c'è una copla di fandango
rivoluzionario andaluso che dice, «qui ci vorrebbe un Fidel come a
Cuba, ma dobbiamo sapere che un popolo che sa quello che vuole
partorisce un proprio Fidel»). Io aggiungerei che la rivoluzione ha
fatto Toussaint perché altrimenti non poteva fare se
stessa.Toussaint aveva quarant'anni e si chiamava Toussaint Breda
quando, non senza esitazioni, si unisce alla rivolta iniziata dal
cimarron voodoo Boukman, prende il nome di L'Ouverture come a dire
che adesso si apre un'epoca nuova, e presto ne diventa il capo
carismatico indiscusso. C'è qualcosa di doloroso quando James
osserva che senza le straordinarie circostanze storiche in cui si
trovarono a vivere, grandi protagonisti come Toussaint, Christophe,
Dessalines avrebbero vissuto e sarebbero morti inosservati, trattati
fino alla fine solo come fidati, innocui subalterni e servitori. (Nel
1821, ispirata in gran parte dalle vicende di Haiti, si prepara a
Charleston, South Carolina, una rivolta di schiavi. Quando Rolla, uno
dei capi, è arrestato, il suo padrone disse: non ci posso credere;
era il mio schiavo più fidato, gli ho tante volte affidato la mia
famiglia. Gli chiede: ma che intenzioni avevi? E Rolla: piantarti la
spada nella pancia e tagliarti la testa, a te e a tutti i tuoi. Senza
quel tentativo di rivolta, anche Rolla sarebbe stato ricordato solo
come un fedele e fidato domestico. Quanto furore si annida nell'anima
di tanti oppressi che non incontrano le circostanze adatte?).Una
personalità socialeLa Francia rivoluzionaria abolisce la schiavitù
in ritardo, quasi per caso e un po' pentendosene; Napoleone la
restaura ma ormai è troppo tardi, e gli eserciti che manda per
domare Santo Domingo vengono distrutti dalle febbri e dai ribelli
neri (Toussaint paga con la libertà e la vita l'essersi fidato della
Francia rivoluzionaria; e Dessalines completerà il lavoro senza
scrupoli e senza pietà). Ed è qui che il mondo gira attorno alla
centralità di Haiti. Ricordiamoci: la Francia era allora padrona
della ricca e fertile valle del Mississippi, da New Orleans (Orléans,
appunto) al confine canadese (attraverso luoghi chiamati Saint Louis,
Louisville, D'etroits, Sault Sainte Marie, Des Moines...) e non si
era ancora rassegnata alla recente perdita del Canada. Il recupero di
Santo Domingo è allora la pietra angolare di un disegno imperiale
francese dai Caraibi al circolo polare artico, attraverso la valle
del Mississippi e il Canada riconquistato nella guerra contro gli
inglesi. Sono gli schiavi neri di Haiti a far saltare questa visione:
senza la preziosa Santo Domingo, non ne vale più la pena. Guardate:
nel 1802, Haiti è indipendente; nel 1803, Napoleone svende tutta la
valle del Mississippi ai neonati Stati Uniti, per quattro centesimi
l'acro. Sconfitta dai suoi schiavi, la Francia abbandona il Nord
America. Il resto - la frontiera, l'espansione, l'egemonia degli
Stati Uniti - è la storia dell'Occidente fino a noi. Ma attorno ad
Haiti ruota una storia controfattuale che sarebbe piaciuta a Philip
K. Dick: e se Haiti avesse perso, sarebbe il francese oggi la lingua
egemone?Gli schiavi fuggiaschi della Georgia, gli schiavi
rivoluzionari di Santo Domingo non hanno scritto episodi marginali,
magari entusiasmanti, della nostra storia. L'hanno fatta loro.
Post scriptum.
Sulle pagine culturali di
Repubblica del 3 novembre, un corrispondente letterario da New York
commemora William Styron scrivendo che «Nelle Confessioni di Nat
Turner affrontò l'abominio della schiavitù attraverso gli occhi di
un personaggio immaginario di un afro-americano che tentò una
ribellione nei confronti dei "padroni"». A parte le
inspiegabili virgolette (i padroni erano letteralmente tali:
proprietari degli schiavi), forse vale la pena di informarlo che Nat
Turner non è «immaginario» per niente: si è ribellato, ha
terrorizzato il Sud, è stato sconfitto ed è stato giustiziato nel
1831 lasciando una memorabile narrazione di sé. Ma Nat Turner è
altrettanto inconcepibile di Toussaint e Dessalines, e di George
Padmore: semplicemente, ci rifiutiamo di accettare la loro esistenza,
la loro rivolta, la loro intelligenza. D'altronde, questo è lo
stesso critico che anni fa sulle stesse pagine sbeffeggiava
intellettuali neri come Henry Louis Gates, Jr. e Kwame Appiah perché
la loro Encyclopaedia Africana dava troppo spazio, pensate, al
«giocatore di cricket» C. L. R. James.
“il manifesto”, 10
dicembre 2006
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