17.2.18

Luciano Bianciardi, il lavoro culturale e il calcio (Beniamino Placido)

Luciano Bianciardi (a sinistra) con un amico
Sono andato a cercare un libro vecchio di qualche decennio. Per leggerlo oggi. Proprio oggi, domenica, che torna il campionato di calcio. Dopo lo sciopero (inaspettato, immeritato) di domenica scorsa. Si intitola Il lavoro culturale. Lo scrisse Luciano Bianciardi. Un bellissimo libro. Fece sensazione. Provocò una piacevole sorpresa quando apparve, nell' anno 1957. Lo stesso anno in cui appariva Il barone rampante di Italo Calvino.
Il lavoro culturale? Ecco, si penserà. Prepariamoci ad ascoltare un discorsetto (non è stato già fatto, da qualche parte?) su quanto sarebbe bello e salutare - vuoi per il corpo, vuoi per lo spirito - non pensare al calcio la domenica, ma dedicarsi piuttosto alle buone letture, alle passeggiate fuori porta (la primavera è arrivata), alle visite dei Musei. È vero, forse. E forse no.
In questo libro piccolo piccolo, un centinaio di pagine, un giovane insegnante maremmano descrive che cos'era, che cosa è stata la provincia italiana nel dopoguerra. E più precisamente, Grosseto. Con i vecchi studiosi locali, pieni di polvere, che stavano lì a rivangarla, un giorno dopo l'altro, sulle glorie degli Etruschi. Buoni gli Etruschi. Bravi gli Etruschi. Misteriosi gli Etruschi. Ancora non si è capito di dove venissero. Ancora non si è riusciti a decifrare la loro lingua (sai che ti dico? erano più forti dei Romani, i nostri Etruschi). Da una parte. Dall'altra quei giovanotti di provincia sempre sfaccendati "già pingui a venticinque anni, a forza di non far niente e di sonnecchiare sulle poltrone di vimini, esposte sul marciapiede davanti al caffè". Nel mezzo, loro: i giovanotti vivaci ed irrequieti come Bianciardi Luciano che interessato al "sociale" aveva già scritto un'inchiesta sui Minatori della Maremma, insieme a Carlo Cassola. Che si inventavano cineclub e inauguravano circoli del jazz. Che leggevano di tutto. Più spesso, cose americane. Pensavano molto all' America, simbolo di vitalità e di dispiegata energia (altro che gli Etruschi, già tutti morti, e da tempo). La loro America, che aveva come capitale non già Washington, e nemmeno New York, bensì Kansas City. E come Kansas City, espandendosi e rinnovandosi, doveva diventare la loro Grosseto sonnolenta. Forse non ci abbiamo mai pensato, ma in quegli stessi anni Alberto Sordi si presentava al cinema come "l'amerecano der Kansas City". Forse abbiamo mancato di notarlo, ma in quegli stessi, stessissimi anni, in uno dei suo ultimi romanzi, L'inganno, Thomas Mann menzionava anche lui, irridendola, questa ingenua mitologia: "Oh, Santa Kansas City, ah ah ah!". Ne approfittino i professori. Diano una tesi di laurea sul posto della (santa) città di Kansas City nell'immaginario europeo del dopoguerra.
È vero. Ci deve essere stata una grande tensione politico-culturale a Grosseto, e in chissà in quante altre cittadine della provincia italiana, allora. Ma era, doveva essere necessariamente in contraddizione con la pratica del calcio, con la passione per il gioco del pallone? Pare di no, ed è questa la sorpresa. Di questo piccolo, prezioso libro di Luciano Bianciardi, tirato giù impolverato dagli scaffali, mi pareva di ricordare a memoria una pagina. Mi pareva, perché si sa che la nostra memoria gioca a rimpiattino. Si diverte a spostare quando una virgola, quando un punto; a scambiare un personaggio con l'altro. Questa volta no. Quella pagina me la ricordavo perfettamente. Virgole e punti compresi. È la pagina in cui Luciano Bianciardi, fervido giovane intellettuale del dopoguerra, racconta la cosa di cui era più orgoglioso. Di essere (di essere stato) un bravissimo giocatore di calcio. Forse il miglior centromediano della Maremma. Sempre "padrone della mia metà campo". Capace di "certi traversoni alle ali, profondi, che tagliavano fuori mediani e terzini, per non parlare poi dei palloni alti, sui quali ero sempre il primo ad arrivare".
Passò qualche anno - gli anni passano, si sa - e si venne a sapere, forse lo rivelò lui stesso, che non era vero. Non era così bravo Luciano Bianciardi col pallone fra i piedi. Bravo era suo fratello. Lui però poteva pur sempre sognarle (ed attribuirsele) le imprese del gioco del pallone. Non è un sogno futile, o culturalmente scadente. Si tratta di padroneggiare il proprio corpo. Con il proprio corpo di addomesticare quella palla, così capricciosa e sfuggente. Di dominare lo spazio in cui la si gioca. E di farlo rispettando precise, cavalleresche, inflessibili regole. Una donna, Rossana Rossanda, che di calcio non si intende, ha scritto in una delle sue recentissime (e interessantissime) Note a margine, pubblicate da Bollati Boringhieri: "Non me ne importa niente se vince o no Baggio: è che il calcio mi pare una forma assai civilizzata del competere, certo più di quella che vige nella vita pubblica italiana". Diamo il bentornato al calcio, nelle nostre giornate domenicali.


“la Repubblica”, 24 marzo 1996  

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