17.2.18

E il disco creò la cultura di massa (Donald Sassoon)

Il 28 maggio 2017 presso il Palazzo comunale di Pistoia Donald Sassoon, uno dei maggiori storici contemporanei, ha tenuto una lezione sul tema Quando il sapere è diventato un prodotto di massa. “Pagina 99” ne ha pubblicato come anticipazione uno stralcio dedicato alle innovazioni culturali indotte dal grammofono. Altri capitoli della lezione sono stati il cinema e la radio. (S.L.L.)

Nel 1900 furono venduti negli Stati Uniti tre milioni di dischi e cilindri; nel 1910 trenta milioni; nel 1921 diventarono 140 milioni. Negli Stati Uniti furono venduti 345 mila fonografi nel 1909, e 2,23 milioni nel 1919. Nel 1915 le vendite di dischi in Russia erano di venti milioni, ma la Germania aveva già raggiunto una produzione di diciotto milioni nel 1907. Così, fin dall’inizio, la registrazione di musica acquisì tutte le caratteristiche di una grande impresa capitalista. Rispetto alle case editrici, le prime case discografiche erano grandi. Un editore poteva realizzare un profitto vendendo solo un migliaio di copie di un libro, e poteva sostenersi pubblicando un centinaio di libri l’anno. Questo non era possibile con la nuova industria discografica. Il costo di produzione era troppo alto e i mercati nazionali erano troppo ristretti. Pensare globalmente era quasi obbligatorio.
La Victor Talking Machine Company (poi Rca) fu costituita nel 1901 negli Usa. La British Gramophone Company (poi del Voce del Padrone e poi Emi) aveva lo scopo di sfruttare il mercato europeo, mentre la Victor Company era focalizzata sugli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e le Filippine. In Italia c’era la Società Italiana Fonotipia, in Francia la Pathé, in Germania l’impresa dominante era la Deutsche Grammophon. In effetti, dal 1903 l’industria discografica era nelle mani di un oligopolio che escludeva possibili concorrenti.

Nasce la musica globalizzata
La velocità dei primi dischi fu fissata a settanta giri al minuto – per passare ai 78 giri nel 1926. Una maggiore velocità avrebbe prodotto un suono migliore, ma il tempo di riproduzione sarebbe stato troppo breve; una velocità più lenta avrebbe prodotto suoni troppo poveri.
La standardizzazione di giradischi e dischi diventò di importanza fondamentale; ma avrebbero avuto tutti voglia di comperare la stessa musica? La diffusione internazionale del romanzo avrebbe suggerito che diverse culture possono godere delle stesse storie, e l’apprezzamento in tutto il mondo della lirica, soprattutto quella italiana, avrebbe potuto essere un altro segnale che, almeno all’interno di gruppi sociali simili, ci sarebbe stata una convergenza di gusto.
L’industria musicale, tuttavia, aveva inizialmente ipotizzato che i gusti musicali erano fortemente legati a culture locali. La sua strategia iniziale fu quella di cercare di soddisfare gusti locali.
Così nel 1902 la British Gramophone inviò uno dei suoi dirigenti, che era anche un grande tecnico, Fred Gaisberg, in India per aprire nuovi mercati, stabilire le agenzie e acquisire un catalogo di registrazioni native (lo aveva già fatto in tutta Europa). A Calcutta, dove rimase per sei settimane, registrò diverse centinaia di titoli con cantanti locali. Dopo l’India, Gaisberg andò in Siam, Cina e Giappone, dove registrò seicento pezzi. Si sistemava in una stanza d’albergo con le sue apparecchiature e registrava cantanti selezionati da un agente locale. Gaisberg non sapeva quasi nulla della musica che registrava. Di alcuni cantanti cinesi scrisse che le «loro voci hanno il suono di un gattino che stride».
Nel 1910 la Gramophone Company aveva fatto oltre 14 mila registrazioni in Asia e in Nord Africa. Tuttavia i clienti erano di solito le classi abbienti e cosmopolite e, dunque, la società vendette anche molta musica occidentale in questi mercati, promuovendola come parte essenziale di uno stile di vita moderno. Una pubblicità per la Gramophone Company a Madras del 1913 recitava: «L’opera a casa: forse non avrete mai la possibilità di ascoltare i grandi cantanti della nostra epoca... ma con i nostri dischi potrete avere a casa vostra la più bella musica del mondo».

Dalla lirica alle canzoni, la musica si fa pop
All’inizio erano le arie d’opera che hanno dominato il mercato della musica registrata. Era stata scoperta una nuova fonte di prestigio e di reddito. I dischi e cilindri potevano registrare solo pochi minuti di musica. Dunque si potevano registrare solo canzoni e melodie brevi. Solo dopo la seconda guerra mondiale si sarebbe potuto effettuare una registrazione di un intero concerto su un disco solo. L’aspetto tecnologico favorì anche il mercato della musica popolare, i cui interpreti diventarono presto le figure centrali nel mondo della musica.
All’inizio i cantanti d’opera guardavano la nuova invenzione con sospetto. Essi pensavano che una volta registrate le loro voci, i loro servizi non sarebbero stati più necessari. Ma ben presto si resero conto del contrario, che la registrazione avrebbe fatto aumentare sia i loro guadagni e, nello stesso tempo, attirato nuovo pubblico che sarebbero venuti ad ascoltarli dal vivo (tanto più che le prime registrazioni erano molto carenti).
C’erano ragioni tecniche per cui la registrazione della voce umana fu preferita alla registrazione della musica strumentale: il timbro della voce umana può essere riprodotto con maggiore facilità e realismo. Tra le prime registrazioni vocali vi erano canzoni napoletane come quelle di Eduardo Di Capua, compositore di I’ te vurria vasà, Maria Marì e sopratutto di ’O Sole Mio, composta da Di Capua mentre si trovava in viaggio a Odessa. La canzone, com’è noto, diventò famosissima. Ed ecco allora che si viene a creare un’immagine dell’epoca, con una signora che lava i panni cantando allegramente ’O Sole Mio, come faranno molto più tardi sia Pavarotti che Elvis Prestley. Di Capua non fu fortunato, gli piaceva troppo il gioco d’azzardo e morì poverissimo, a Napoli, 100 anni fa.

Caruso, la prima star internazionale
La parte del leone, tuttavia, la fecero non le canzoni bensì le arie di opere famose: La donna è mobile, dal Rigoletto di Verdi, fu registrata nel 1903; e poi Otello (Era la notte), Parigi O Cara (Traviata), e In Quelle Trine morbide (dalla Manon Lescaut di Puccini, registrata nel 1901).
Il principale beneficiario della voga per arie registrate e canzoni italiane fu Enrico Caruso, generalmente considerato il primo cantante a farsi conoscere a livello internazionale attraverso i suoi dischi. Nel 1902 Caruso era già la stella principale della Scala e ben noto nel circuito mondiale della lirica, ma fu la registrazione di dieci arie esclusivamente per la Gramophone che lo trasformò in una vera e propria star internazionale. Fred Gaisberg lo aveva attirato in una stanza trasformata in uno studio al Grand Hotel di Milano, a pochi minuti dalla Scala. Caruso aveva chiesto 100 sterline, più una percentuale sulle vendite. La Gramophone Company riteneva questo un compenso esorbitante e aveva mandato un telegramma a Gaisberg dicendo di non accettare. Gaisberg fece finta di non aver mai ricevuto il telegramma. Tra le arie registrate vi erano Questa o quella dal Rigoletto di Verdi e Una furtiva lagrima dall’Elisir d’amore di Donizetti – le altre sono rimaste meno note, come l’aria Ah vieni qui... no non chiuder gli occhi dall’opera Germania di Alberto Franchetti, la cui prima aveva avuto luogo qualche settimana prima alla Scala.
Questo fu l’inizio della fama mondiale di Caruso tra un nuovo pubblico che non era mai entrato in un teatro. La Gramophone Company recuperò le famose 100 sterline e guadagnò milioni. Caruso incassò tra i 2 e i 5 milioni di dollari negli anni seguenti con ben 260 dischi che furono prodotti tra il 1902 e il 1920 (morì nel 1921 a soli 48 anni).

Il disco per tutti e il secolo americano
Il repertorio operistico fu ben presto superato (in termini di vendite) dalle canzoni “popolari”. Queste erano canzoni essenzialmente urbane, di città, spesso eseguite nei caffè-concert, in sale di musica e nei cabaret. L’industria discografica li trasformò in un vero e proprio oggetto di consumo di massa. Gli inglesi e i francesi gradualmente persero terreno. Grazie alle dimensioni del suo mercato, il suo benessere, e l’apporto culturale degli immigrati, gli Stati Uniti presto superarono tutti. E non solo nella cultura popolare. Nel 1900 gli Stati Uniti avevano la più grande rete ferroviaria al mondo e il Paese era diventato il primo produttore di acciaio. Nel 1910 la sua popolazione era la più numerosa nel mondo industriale: 92 milioni di persone grazie a un alto tasso di natalità e una massiccia immigrazione.
Il risultato di questa espansione economica divenne evidente: mentre nel 1860 gli Stati Uniti erano soprattutto esportatori di prodotti agricoli, nel 1900 erano in grado di esportare in Europa una vasta gamma di beni di consumo di marca, tra i quali innovazioni quali le macchine da cucire Singer, gli apparecchi fotografici Kodak, i rasoi Gillette, le penne Waterman e le lampadine Edison.
Più che mai l’America proiettava un’immagine di modernità, ma questo, ancora nel 1900, non aveva ancora trovato le sue forme culturali. Prima del 1920 gli americani contavano ancora poco nel settore culturale globale: senza grandi cantanti o compositori di canzoni, senza opera lirica, pochi compositori di musica seria, quasi nessun drammaturgo popolare e solo qualche scrittore di fama internazionale.
Tutto questo cambiò nel ventesimo secolo. Con il cinema di Hollywood, le canzoni pop e la televisione gli americani conquistarono il villaggio globale della cultura di massa.

Ascesa e declino delle culture
Una volta vi era una comune cultura aristocratica internazionale: tutti gli appartenenti a questa alta cultura erano a conoscenza di una gamma molto limitata di prodotti culturali. Poi, nel XIX secolo, ci fu la grande avanzata della cultura borghese. Nel ventesimo secolo, il secolo americano, il cinema, la musica registrata, la stampa popolare e la radio tascabile a buon mercato e soprattutto la televisione crearono una cultura di massa le cui radici sono appunto negli decenni 1880-1920.
Le novità si susseguirono a ritmo incalzante e, senza il loro racconto fatto dagli storici, forse le nuove generazioni perderebbero il senso di come era fatta la cultura del passato.
Non vi è motivo di lamentarsi per tale situazione, come non vi era motivo di lamentarsi per il cosiddetto imperialismo culturale di un passato recentissimo. La fine di alcune esperienze culturali può essere motivo di rimpianto. Ma è già accaduto prima, e il mondo è andato avanti. Così come continuerà ad andare avanti, nel bene e nel male.

Lascio i verdetti e i giudizi ai moralisti ai quali spetta il compito di decidere se la cultura di oggi è peggio di quella che l’ha preceduta. L’attività degli storici è più complessa: si tratta di fare una mappa del passato, dando prospettiva al presente. Decidere quale cultura sia bella o brutta è una questione che riguarda tutti gli esseri umani, una categoria che comprende gli storici e che non esclude nessuno. Tutto quello che so è che un mondo senza cultura, sia essa alta o popolare, senza Anna Karenina ma anche, se posso osare dirlo, senza Cinquanta sfumature di grigio, sarebbe un mondo ancora più selvaggio di quello che ci sta di fronte a noi ora.

Pagina 99, 26 maggio 2017

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