Ritratto di giovane, Foto di Franco Fortini (Cina 1955) |
Tzu Min ha un viso
giovane e allegro, senza bellezza, limpido come talvolta quello, da
noi, delle giovani suore. Un attenzione animata e viva più nello
sguardo che nei moti del volto, quale diremmo di specie
intellettuale; ma meno penetrante e febbrile. Porta corti i capelli
che le scoprono il collo magro. Ha sulla giubba il fregio dei
Komsomol sovietici; e mi rammenta la giovane signora, ingegnere in
una fabbrica di turbine, che a Leningrado, davanti alla stazione di
Finlandia, tra la folla che ci aveva accolti sotto la statua di
Lenin, aveva voluto darmi il suo distintivo: quanto diverse, eppure
rese vicine dalla comune assenza di certe ombre, in un modo comune di
«essere-al-mondo», quasi coscienza o senso dell’esatto luogo
occupato dal loro corpo in rapporto agli altri corpi umani. Qualcosa
che ho ritrovato in tante ragazze sovietiche. Era un sorriso lungo e
puro, alla stazione di Minsk o lo sguardo della giovane assistente di
biologia durante una conversazione serale per le vie di Mosca. Un
modo di essere «a fuoco», un equilibrio insomma, instabile forse
come qualsiasi altro, ma d'una qualità diversa da quelli che
talvolta si danno nei nostri paesi, troppo rari per non esser
compromessi dalla propria natura eccezionale. Sembra di poter
comprender a contrario le pagine di Marx sulla alienazione:
penso alle mani di queste ragazze, mani né belle né brutte, che si
accettano per quello che sono, senza servilismo né orgoglio e che
paiono allontanare nel passato, nel nostro passato, tanto le
palme delle Beatrici quanto quelle, di opposto e oscuro fascino,
delle Operaie, le mani «meravigliosamente impallidite sul bronzo
delle mitraglie».
Tzu Min siede
all’estremità del consueto lungo tavolo e aspetta le mie domande.
Vicino alla porta ascoltano due inservienti, perché non c’è nulla
di segreto, e quando il personale della Casa della Cultura Operaia si
riunirà per la seduta settimanale di autocritica, anch’essi
dovranno poter dire la loro opinione sulle risposte della
vicedirettrice al visitatore straniero. È passato mezzogiorno, è
un’ora morta per questa istituzione, che al mattino riceve comitive
e delegazioni e nel pomeriggio vede affluire, dei settemila
lavoratori che sono la media quotidiana delle frequenze, quelli che i
turni di lavoro lasciano liberi.
È nata nel 1929, mi
dice, presso Hangchow: «Mio padre è un piccolo commerciante. Ho due
fratelli minori e una sorella maggiore. I miei ragionavano
all’antica, disprezzo per le fighe e preferenza per i maschi. Così
i miei fratelli han potuto frequentare le scuole elementari e medie
mentre io ho dovuto smettere dopo la terza elementare». Chiedo
conferma all’interprete delle locuzioni impiegate; ed è chiaro
come vi corra non poca animosità contro la famiglia, che non deve
aver saputo perdonare l'emancipazione della ragazza. Avevo letto che
il Partito era dovuto intervenire a frenare lo zelo di troppi figli,
che pretendevano riformare i genitori. So che questo contrasto fra
padri e figli si è posto in modo drammatico quando le leggi sulla
parificazione giuridica dei sessi hanno scosso la vita della società
cinese. Il precedente trentennio di «femminismo» era stato limitato
a determinati ambienti delle grandi città, aveva toccato le giovani
studentesse, le donne entrate a contatto con l’Occidente. Era stata
la via «giapponese», e ad Hongkong ne avrei potuto vedere i
risultati: l’inseguimento impotente dei modelli forniti dal cinema
USA e dalla televisione. Tzu Min avrà tentato la «conversione» dei
suoi genitori? Certo è uno di questi esseri umani «nuovi», nati
dalla rivoluzione, non diversa da Tin Tsu-tian, la ragazza ventenne
responsabile per l’organizzazione femminile nel piccolo villaggio
agricolo del Liaoning che abbiamo visitato una settimana fa.
«Riuscii a frequentare
una scuola serale. Vi trovai degli insegnanti comunisti che mi hanno
aiutata. Ho parlato con loro; e così ho conosciuto la verità. Ho
capito i rapporti fra le classi e ho saputo che cosa si dovesse fare.
Non stavo bene di salute (e accenna con le due mani alle sue spalle
esili) eppure ho deciso di darmi al lavoro sindacale. Mi sono
occupata delle biblioteche operaie. C’era da compiere un grande,
grande lavoro preparatorio, fra gli operai...»
Chiedo se è sposata.
«Sì, dal 1951.» Che cosa fa suo marito? «Impiegato negli uffici
amministrativi di un Istituto Nautico.» Ha una casa propria? «Due
stanze.» Figli? «Nessuno.» Che cosa fa nei giorni di vacanza?
domando. Va al cinema? Vede dei conoscenti?
«Qualche volta andiamo a
far visita a mia suocera - risponde. - Ma più spesso rimaniamo a
casa a leggere. Tanto io quanto mio marito ci sentiamo molto
ignoranti. Dobbiamo studiare, imparare e ancora imparare. Spesso
parliamo insieme del nostro lavoro, ci consigliamo a vicenda. Qualche
volta riceviamo amici.» Che cosa studia? «C’è da migliorare il
livello delle nostre conoscenze politiche, c’è da studiare bene la
nostra costituzione, il Piano quinquennale. E poi debbo approfondire
la nostra letteratura...» E una lingua straniera? «Prima debbo
conoscere meglio la lingua cinese. Poi studierò il russo.» Le
domando quali libri preferisca; e le risposte sono così facilmente
prevedibili che dopo aver inteso il titolo di un libro di Ostrowski e
di uno di Polevoi, appena dice: «E anche un romanzo cinese...»,
posso già interromperla: «Si tratta di La mia vita per il
Partito?». Tzu Min annuisce, ridendo. Sì, legge i libri che
tutti leggono, i romanzi della produzione, le opere che esaltano
l’energia dei costruttori del socialismo; saranno forse romanzi
mediocri, ma le sono di aiuto. «In quei libri - mi dice - vedo come
bisogna essere, come mi devo comportare.» Terza elementare, scuole
serali; siamo lontani dal giovane perito edile di Kiev che una sera,
al tavolo del Metropol, a Mosca, mi aveva parlato di Flaubert e di
Mann, di Sainte Beuve e di Lope de Vega, sue letture appassionate che
gli si confondevano nella mente con gli inevitabili Sinclair Lewis...
Siamo al 1925, qui, se non come atmosfera politica almeno come furia
di trovare raffigurate nella letteratura le persone, i gesti nuovi...
Il lavoro è immenso; per questo si prende una ragazza di ventisei
anni che certo sarà di poche lettere e di scarse letture e la si
mette a fare la bibliotecaria della principale Casa di Cultura
Operaia di una città di sei milioni di abitanti e dopo pochi mesi le
si dà il posto di uno dei due vicedirettori.
«Una cosa alla volta»
mi ha detto; è la medesima risposta che ho avuto da Tsin Kao-lin,
uno degli uomini di fatica del servizio di traghetto sul Wang-Pu. Non
ha dimenticato le bastonate dei giapponesi, durante l’occupazione;
per questo, ora, la sera, compita sul giornale i quattro o
cinquecento segni che ha imparato dopo la Liberazione. «Mi
piacerebbe viaggiare in Occidente, ma sono ancora troppo ignorante,
debbo prima studiare, informarmi, sapere...»
E anche per questo le
librerie di Sciangai sono affollate come quelle di Leningrado.
Mi viene in mente che
prima di visitare il nuovo e bellissimo Ospedale pediatrico di
Pechino, avevamo interrogato il direttore a proposito della politica
governativa sul controllo delle nascite; ma, quand’era giunto il
momento di rispondere, il primario aveva creduto bene chiudere la
conversazione e invitarci alla visita dei padiglioni. So che in Cina
il problema è all’ordine del giorno e che vi si affrontano le
formule sovietiche, assai rigide - almeno fino a ieri - e il buon
senso. Comunque, chiediamo a Tzu Min che cosa ne pensa.
Precisa che si tratta di
una opinione personale: vorrebbe avere dei figli, ma solo quelli che
potesse nutrire ed educare, e pensa che così dovrebbero fare tutti.
«L’essere umano - aggiunge, ed è certo questa una delle frasi del
corso di marxismo-leninismo che più le si è fissata nella memoria -
è l’elemento più prezioso della produzione.» Cerco allora di
spiegarmi meglio; chiedo se nelle campagne, ad esempio, si
impartiscano nozioni di igiene sessuale. Dalla risposta, intendo che
stiamo scivolando verso uno di quei dialoghi di sordi, assai
frequenti in questo paese, un po’ per colpa degli interpreti un po’
per la sottile cortesia cinese che spera sempre, per mutare
argomento, in una equivalente cortese intelligenza
dell’interlocutore. Ma mi sto sbagliando: infatti, dopo che Tzu Min
si è dilungata a spiegare il lavoro delle infermiere e delle
ostetriche in lotta, nei villaggi contadini, contro le superstizioni
e la mancanza di igiene che erano tra i motivi principali
dell’altissima mortalità dei neonati e delle puerpere nei villaggi
contadini, quando mi decido a porle la domanda, se esistano o no
opuscoli sul metodo di rilevazione dei giorni fecondi e accenno alle
esperienze recentemente compiute in India, mi sento rispondere che,
naturalmente, opuscoli simili si trovano ovunque, a Sciangai, e che
lei stessa li conosce. Quale sia poi la politica governativa in
questa materia, ritiene che non ve ne sia una, almeno per ora.
Capisco tutt’a un
tratto che ero io nel torto, con le mie prudenti circonlocuzioni; non
diversamente da quando, giorni innanzi, persuaso di dovermi trovare
di fronte ad un atteggiamento troppo austero, avanzavo ad una delle
nostre interpreti caute domande sulla vita amorosa dei giovani, per
sentirmi invece rispondere con pulita franchezza. Non voglio dire che
tutte le giovani siano così, altrettanto schiette e ragionevoli, ma
credo che le loro coetanee sovietiche siano in questa materia più
inibite e virtuistiche. Comunque, Tzu Min sembra sapere, anche in
questo campo, quello che vuole; e ne parla con la sua tranquilla
voce, dove è assente ogni eco di hybris, di oltranza.
Parliamo d’altro,
divaghiamo. E poi: «Qual è la cosa che più desidera al mondo?» le
chiedo. Ma quando mi risponde: «Che in tutto il mondo finisca lo
sfruttamento della classe operaia», so che non mi sarà possibile
impedire ai miei amici di sentirle come un imparaticcio di
propaganda, come la formula che la giovane funzionarla sa di dover
dire allo straniero... La vera, la potente novità del comunismo è
questa: l’aver reso autentiche, sincere, feriali, quelle frasi da
catechismo. E in verità di questo, più che delle espropriazioni,
che trema la nostra borghesia o la borghesia che è in noi: di quelle
parole che ormai ci mordono come un rimorso solo quando le leggiamo
nei volumi dove pietà e vergogna raccolgono le lettere dei
condannati a morte. «Buona salute ai giusti! Continuate la lotta per
la giustizia... la luce ci aspetta» dice l’ultima lettera di Wong
Scia-hu, fucilato dal Kuomintang il 30 settembre del ’48, otto mesi
prima della liberazione della città. Al piano di sopra, dov’è la
mostra storica della classe operaia di Sciangai, sta la serie di
fotografie di lui davanti ai giudici e poi condotto al supplizio; con
un sorriso che conosciamo bene, luminoso fra buie facce di armati.
Eppure, mi dico, anche
questa ragazza che fra il suo lavoro e le due stanze della sua casa
vive certa di aiutare una causa giusta, dovrà pur conoscere quelle
incertezze, quel vuotarsi del sangue di fronte alle ragioni o domande
ultime o il riso, dove mentiamo il nostro imbarazzo. Dovrà pur
conoscere il deserto, quella nausea che, secondo qualche amico mio, è
la squallida religione degli atei... E c’è forse ora con me
qualcuno che, col suo solo sorriso, mi impedirebbe di formulare
l’ultima domanda? Che mi raccomanderebbe più discrezione e meno
ingenuità? Non c’è. E dunque: «La prego di dirmi, se vuole»
domando, «ma con una sola frase, la prima che le viene alle labbra,
e mi perdoni se le pongo una domanda che potrà sembrarle ridicola o
insolente: per quale motivo, per quale fine crede che gli uomini
siano al mondo?».
Rimane un po’
sovrappensiero, lo sguardo abbassato, le mani incrociate sul petto; e
poi risponde con poche sillabe. L’interprete traduce: «Per essere
felici».
Ripensando a quella
risposta, mi dico che difficilmente l’avremmo udita in Italia, da
una ragazza come Tzu Min; nemmeno da una giovane funzionaria
comunista, penso.
La felicità era un’idea
nuova in Europa ai tempi di Saint-Just, e lo è tuttora; mentre ogni
ragazzo cinese ha imparato a memoria da piccolo, in uno dei loro
Classici Venerabili, che «l’uomo è buono per natura». L’idea
d’una colpa originaria, d’una condizione umana da oltrepassare, è
davvero estranea alla loro tradizione? Per quanto so, non lo credo;
non foss’altro, per la profonda penetrazione del buddismo. Ma la
«felicità» di cui mi parla Tzu Min non è né la beatitudine o
l’eudemonia del saggio, né l’accordo della volontà particolare
con quella universale, né la trascrizione immanente della risposta
catechistica («Conoscere e amare Iddio in questa vita e goderlo
nell’altra»); è qualcosa che si definisce, immediatamente,
poveramente forse, dal suo contrario: l’infelicità, la bassezza,
la miseria, la malattia e la morte. E lo dice, infatti, aggiungendo:
«... per essere felici, liberandosi a vicenda dalla miseria e dallo
sfruttamento». Per Tzu Min la felicità è qualcosa di futuro e, al
tempo stesso, di presente.
Non mi sbagliavo
avvertendo in tante pagine di Mao, e in tanti modi tipicamente cinesi
di affrontare i problemi politici, la presenza d’una ispirazione,
che in Europa diremmo premarxista. Nel nostro paese ho sentito più
volte taluno - nascosta sotto l’apparenza di una fredda e tecnica
partecipazione politica una passione che le delusioni e le sconfitte
hanno stravolta ma non spenta - parlarmi dei dirigenti del comunismo
internazionale quali erano fino al momento della «svolta», quando
il Partito sovietico dovette cominciare la lotta contro
l’egalitarismo. Ecco, qui - quale che sia il «ventaglio»
salariale - l’egalitarismo è ancora passione e costume. Veramente
- dico a noi - non abbiamo diritto di abbandonare nessuna speranza.
Il comunismo cinese è la prova vivente di una molteplicità e di una
ricchezza della rivoluzione che solo pochi anni fa pareva ipotesi o
scommessa.
Dico a Tzu Min che
scriverò, in Italia, di questa nostra conversazione. Mi accompagna
alla porta, e incrociando le braccia sul petto magro, come se avesse
freddo, mi saluta e sorride.
«Il Ponte», XII, 4,
aprile 1956, pp. 342-6 , ora in Saggi ed epigrammi,
I Meridiani Mondadori, 2003
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