In occasione del
ventennale (1988), in Italia molto celebrato (ma anche esecrato), il
Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America di
Peppino Ortoleva rappresentò, a mio avviso, il più originale e
brillante tentativo storiografico italiano di interpretazione
unitaria della “Sfinge Sessantotto” come movimento composito ed
internazionale.
Riprendo
qui una pagina emblematica su un aspetto spesso trascurato dalle
rievocazioni e, a mio avviso, centrale. (S.L.L.)
Oltre (e per certi versi
prima ancora) che in un rifiuto dell’autorità come oppressione, la
rivolta giovanile ha le sue premesse, e lo dimostrano bene i primi
documenti soprattutto americani, in una ribellione morale, nel
sentimento di avere a che fare con autorità potenti ma prive di ogni
legittimità che non sia il semplice esercizio del dominio. Questa
caratteristica del movimento non sfuggi ai suoi piu attenti
osservatori, da C. Wright Mills11 che già nel 1960 parlava di «una
rivolta morale che segna la fine dell’apatia», ad H. Arendt, che
ha scritto di una «rivolta mossa quasi esclusivamente da
considerazioni morali».
Due sono gli aspetti di
questa ribellione che vorremmo qui sottolineare. In primo luogo il
movimento studentesco dava voce in Occidente a una crisi, quella che
veniva definita allora «crisi di credibilità», che coinvolgeva i
rapporti fra istituzioni e cittadinanza in quasi tutte le democrazie;
mentre in Europa orientale prendeva apertamente di mira la totale
separazione fra potere e società. L'autorità politica e quella
delle istituzioni pubbliche appariva delegittimata in quanto
mistificante e menzognera, fondata sul segreto, sul rifiuto della
trasparenza, e sull’accorta manipolazione dell'opinione pubblica.
Che cosa c’era di
specificamente giovanile nel modo m cui il movimento studentesco
proponeva la sua critica all'autorità? Mentre nelle generazioni
adulte il distacco e la diffidenza nei confronti del potere avevano
la forma passiva dell’apatia, la ribellione dei giovani contro il
potere esprimeva la contestazione all'autorità in forma attiva,
volta al cambiamento, ed esaltava anzi le potenzialità inesauribili
dell’agire politico di contro alla rassegnazione: la sua critica
morale si rivolgeva quindi allo stesso tempo, e spesso con la stessa
durezza, sia alle istituzioni dominanti, sia a una cittadinanza,
quella delle generazioni precedenti, che aveva accettato senza
reagire la propria espropriazione da ogni forma di reale
partecipazione politica, sia ancora alla stessa leadership dei
movimenti di opposizione già esistenti, che veniva accusata allora
non solo e non tanto di cedimenti ideologici, quanto di non aver
saputo evitare il chiudersi degli spazi politici. Mentre nei paesi
più autoritari (come quelli dell’Europa orientale, ma anche il
Messico) ciò comportava soprattutto una esplicita richiesta di
democrazia e di trasparenza, in Occidente il compito che il movimento
si assumeva era anche un altro, quello della «demistificazione»,
quello di stracciare i veli che nascondevano la reale natura del
potere, mostrando cosi il suo vero volto anche a coloro che erano
stati assuefatti da decenni di «falsa coscienza»: per questa via,
tra l’altro, gli aspetti politici, quelli morali, quelli
conoscitivo-educativi della lotta studentesca si trovavano
strettamente interconnessi.
La manifestazione prima,
e più immediata, di questa crisi del rapporto con l’autorità fu
la caduta di ogni forma di deferenza, anzi la pratica aperta
dell’irriverenza. Fra i tratti più universali del ’68 vi furono
l’uso generalizzato della beffa (nelle scritte, nei volantini, nel
confronto personale), il rifiuto di rispettare ogni tipo di procedura
prestabilita per la «presa della parola», l’attacco sistematico a
ogni rituale e simbolo del potere e dell’ordine costituito:
pratiche che vennero vissute dalla comunità giovanile come
esperienza ludica e grande elemento unificante, mentre da coloro che
ne furono oggetto furono risentite, spesso, come dramma e trauma. Ciò
contribuì ad approfondire il fossato, e le difficoltà di
comunicazione, fra le generazioni. Gli aspetti giocosi di tanti
comportamenti contestativi non potevano che irritare chi era fuori
del gioco (e tutti gli adulti lo erano): coloro che si schieravano
con l’autorità perché ne condividevano il senso di dignità
ferita, coloro che dubitavano della serietà di una simile
contestazione, e denunciavano (a volte con preveggente lucidità) i
suoi aspetti «carnevaleschi», violentemente trasgressivi quanto
alla fine destinati, passata la festa, a lasciare poche tracce.
In secondo luogo, il
movimento studentesco avvertiva drammaticamente il problema della
responsabilità: il mondo che i giovani si preparavano a ereditare
era condizionato da «macchine» sempre più complesse e impersonali,
proprio quelle macchine di cui lo studente era destinato a divenire,
con l’educazione universitaria, una ruota inconsapevole e passiva.
Chi rispondeva di scelte che potevano mettere a rischio il futuro
stesso dell’umanità? Chi rispondeva delle distruzioni
irrimediabili che erano state prodotte negli ultimi decenni di
storia? L’irresponsabilità programmata della società moderna è
sicuramente un tema privilegiato dei testi del movimento americano,
ma in forme diverse compare anche in quelli europei, con accenti
simili a est e a ovest della cortina di ferro.
Proprio questa società
irresponsabile imponeva al giovane e allo studente una condizione
contraddittoria e insopportabile: da un lato, lo rinchiudeva in una
sorta di limbo, incapace di provvedere a se stesso e ridotto di fatto
in una prolungata condizione di dipendenza; dall’altro gli chiedeva
di sottoporsi a prove per dimostrare di essere «adeguato» ad
accedervi. In questa situazione, anche l’autorità degli educatori
si presentava come puro dominio impersonale, in cui un’istituzione
irresponsabile pretendeva conformismo e «senso di responsabilità»
dagli educati, mentre li condannava a uno stato di minorità.
La rivolta giovanile si
proponeva anche come una via per uscire da questa condizione: i suoi
protagonisti assumevano, attraverso l’azione politica, l’onere di
riconoscere, denunciare, superare, i mal prodotti dal dominio
impersonale sul mondo, e: possibilmente smascherare i reali
colpevoli; sfidavano le autorità ad accettare d sottoporsi loro per
prime a esami, ed eventualmente a bocciature, esaltavano la
disobbedienza come prima e necessaria risposta degli individui a un
ordine oppressivo. Ma questa spinta (particolarmente forte nei
movimenti dell’Europa orientale) si intrecciava con un’altra,
contraddittoria: il rifiuto di assumersi responsabilità per una
società irresponsabile; l’esaltazione della propria condizione
separata, e per molti versi dis-inserita, come modo di «star fuori»
rispetto a un sistema che si rifiutava di condividere. Nella
contro-cultura, questa posizione poteva portare a sbocchi
decisamente, e volutamente, apolitici; nell’insieme della
ribellione giovanile essa si incontrò con l’azione politica in
forme complesse e dinamiche: in un intreccio complessivo fra spinte
politiche e spinte antipolitiche che costituisce uno degli aspetti
più enigmatici dell' intero ’68.
da Saggio sui
movimenti del 1968 in Europa e in America,
Editori riuniti, 1988
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