Maria d' Medici nel ritratto di Pieter Paul Rubens |
E' con l’inizio del
Seicento che comincia, inesorabile, la decadenza della dinastia
medicea. Di un simile progressivo crepuscolo della famiglia, Maria –
cugina di Caterina e figlia di Francesco I, granduca di Toscana –
sembra essere, suo malgrado, la figura più rappresentativa. Lei che
aveva sposato Enrico IV, re di Francia, e che però, alla morte di
quest’ultimo, avvenuta per mano del fanatico Ravaillac (che lo
uccise con due coltellate), si ritrovò reggente prima e poi regina
esiliata da Parigi per ben due volte. Lei, osteggiata dal duca di
Luynes nel 1617 e dal cardinale di Richelieu nel 1630, lei
allontanata dal proprio figlio Luigi e morta sola e in povertà a
Colonia, dopo che Rubens, il celebre pittore fiammingo, l’aveva
ospitata presso una sua piccola casa d’Anversa.
C’è, nella parabola di
Maria, tutta la caduta dei Medici, quel ripido precipitare che porta
una grande dinastia a contare sempre meno, sia per la stagnazione dei
commerci e una perduta capacità di guardare oltreconfine, sia per la
peste nera del 1630 che scaraventa l’Europa intera nel suo periodo
più buio, e non da ultimo per le figure particolarmente incolori che
si susseguono a Firenze: su tutte il povero Cosimo II, granduca di
Toscana, disperatamente alla ricerca di un’impresa che lo faccia
passare alla storia e che invece incappa in una serie di episodi
donchisciotteschi che gli precludono qualsiasi successo politico. Si
pensi alla tentata crociata fuori tempo massimo per la liberazione di
Gerusalemme che a nulla porterà, o alla successiva auspicata
sollevazione dei popoli d’Oriente contro l’impero ottomano grazie
a una sua bizzarra amicizia con Fakhr ad-din, sedicente principe dei
Drusi, che si rivelerà, invece, impostore e ciarlatano.
Ma è anche il mutare dei
tempi a decretare la lenta e ineluttabile caduta della dinastia
medicea. Quel secolo di ferro, come venne definito il Seicento, si
rivelò per l’Italia a dir poco fatale: le corporazioni d’arti e
mestieri, lungi dal rappresentare un fattore di progresso com’era
avvenuto trecento anni prima, sono ora piccole consorterie di potere
che impediscono l’innovazione e l’applicazione delle nuove
tecniche di produzione, condannando l’esportazione italiana di
manifatture. Se si combina questa prima sciagura con la dominazione
spagnola che instilla nelle classi più abbienti una mentalità ancor
più aristocratica e di totale disprezzo verso qualsiasi attività
lavorativa e imprenditoriale, e si aggiunge la tragedia della peste
che dimezza la popolazione, risulta evidente quanto Firenze, Venezia,
Roma e Milano vengano consegnate al provincialismo e
all’arretratezza.
Firenze, centro di quel
Rinascimento generato dallo spirito d’iniziativa, dall’intuizione
mercantile, dalla precisa strategia commerciale, che rifluivano come
una marea spumeggiante nell’amore per l’arte, la bellezza e la
cultura, è ora solo l’ombra di se stessa. Quell’infinita schiera
d’artisti e letterati che avevano gravitato nell’orbita della
corte medicea ora vengono improvvisamente a mancare e se è vero che
il Seicento è il secolo di uno dei più grandi pittori di sempre,
Caravaggio, è però indicativo che quest’ultimo, come Bernini,
Parmigianino o Guido Reni, operi presso ben altre corti. Tra i
maggiori studiosi dell’arte italiana vi è proprio quel Pieter Paul
Rubens che Maria de’ Medici chiamerà alla propria corte,
commissionandogli un ciclo d’opere. Verranno disposte nel Palazzo
del Lussemburgo, costruito secondo i canoni fiorentini da un
formidabile architetto francese: Salomon de Brosse. L’Italia e i
Medici sembrano dunque sopravvivere in un ultimo sospiro d’arte,
catturato però da artisti che italiani non sono.
La lettura – Corriere
della sera, 29 ottobre 2017
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